Vince Biden. Molti esultano ma la nuova guerra fredda rischia di scaldarsi

barack obama 1199638 1920(ASI) I risultati che sono andati consolidandosi quattro giorni dopo il voto del 3 novembre scorso hanno permesso ai media statunitensi di comunicare la notizia tanto attesa. Dopo la chiamata della Pennsylvania, Stato dove fino a due giorni prima Donald Trump appariva in largo vantaggio, Joe Biden ha ottenuto lo scarto necessario per raggiungere la soglia decisiva dei 270 grandi elettori, diventando così il 46° presidente degli Stati Uniti d'America. Ad accompagnarlo nel nuovo mandato la vicepresidente Kamala Harris, vera icona mediatica di questa tornata elettorale quale madrina delle donne e figlia di immigrati, in questo caso di padre giamaicano e madre indiana. D'India, ovviamente.

Niente a che fare coi nativi americani che, confinati nelle 326 riserve amministrate dal Bureau loro dedicato, non hanno mai avuto alcuna voce in capitolo nella politica del Paese. Tutt'ora, i nativi sono in gran parte esclusi persino dal censimento nazionale e possono al più esprimere le loro istanze attraverso la piattaforma del National Congress of American Indians (NCAI). Le riflessioni degli opinionisti e degli intellettuali di casa nostra rimuovono completamente la storia precedente al 4 luglio 1776, quasi fingendo che non esista. Nell'immaginario collettivo, la formula We the people, i dieci emendamenti del Bill of Rights, la guerra di secessione, l'abolizione della schiavitù e le marce per i diritti civili restano di fatto le sole grandi tappe nel paradigma di una storia nazionale in realtà ancora oggi ben più complessa ed articolata.

Dalla grande crisi del 2008, molti esperti hanno iniziato a parlare sempre più insistentemente di declino americano prefigurando l'imminente trasformazione in senso multipolare degli equilibri internazionali. E pensare che, dopo la fine della Guerra Fredda, la superpotenza superstite aveva in mano le redini del pianeta. Addirittura, intorno alla metà degli anni Novanta, alcuni consiglieri politici ed intellettuali presentarono all'allora presidente Bill Clinton il Project for a New American Century (PNAC), un piano mirato a ridefinire la presenza statunitense nel mondo e costruire un "nuovo secolo americano". Tra loro diversi futuri protagonisti dell'amministrazione guidata da George W. Bush. Le macerie, non solo fisiche, lasciate in Iraq, in Afghanistan e nei Balcani, con tutte le loro drammatiche conseguenze sociali e politiche, sono lì a testimoniarne il fallimento.

Proprio tre giorni fa, il presidente kosovaro Hashim Thaci, ex leader dell'UCK, le forze paramilitari filo-albanesi appoggiate dalla NATO, è stato condannato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l'umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, sequestri, persecuzioni e tortura. La sentenza del tribunale de L'Aja smonta così completamente la narrativa di fine anni Novanta, che raccontava a noi ignari spettatori lo scontro tra una tirannia, la Serbia di Slobodan Milosevic, e gli eroici liberatori di una regione oppressa. La notizia, come spesso avviene in certi casi, è passata per lo più inosservata ma dovrebbe indurci ad una severissima riflessione sul ruolo, non di rado fazioso ed autoreferenziale, dell'informazione in Occidente.

Sempre più emotiva e meno razionale, la narrazione - che purtroppo sembra ormai aver preso il posto della cronaca - rischia di costruire un quadro della realtà distorto o, nel peggiore dei casi, artefatto. Quanti interventi militari sono stati giustificati agli occhi dell'opinione pubblica nel nome dei cosiddetti "diritti umani", in questi ultimi trent'anni? Quanti scontri, violenze e faide hanno generato le cosiddette "rivoluzioni democratiche" suggerite da From Dictatorship to Democracy, il manualetto dal sapore eversivo scritto da Gene Sharp nel 1993?

Con l'affermazione elettorale del duo Biden-Harris, insomma, festeggiano pavlovianamente i democratici del mondo occidentale per un meccanismo di dipendenza culturale e "logistica" da una nazione che, pur tra pregi e difetti, resta distante anni luce dall'Europa, dall'Italia e dalle nostre esigenze. Di converso, non manca chi, tra gli elettori di Salvini e Meloni, agita nuovi spauracchi, prefigurando un'America pronta ad "entrare nell'oscurità" e "vendersi a Pechino", dimenticando (o più probabilmente ignorando) che il primo presidente statunitense ad aver incontrato Mao Zedong e riconosciuto la legittimità di "una sola Cina" (quella comunista) fu Richard Nixon, un repubblicano.

Il giubilo dei sovranisti nel 2016 per la vittoria di Trump e quello odierno dei liberal per la vittoria di Biden ci consegnano la figura plastica di un'Italia inconsistente, non più in grado di produrre una sua politica estera e di esprimere una propria dottrina strategica sul Mediterraneo. Relegata quasi alla periferia del mondo occidentale, Roma appare costantemente sotto osservazione e quasi fisiologicamente portata a continui voltafaccia e capovolgimenti, come fu per la Libia nove anni fa, appena tre anni dopo la firma del Trattato di Bengasi. Il Partito Democratico italiano potrà indubbiamente rilanciare il suo ruolo politico, intercettando qualche punto percentuale di consenso tra i tanti persi con il boom elettorale del M5S e l'ascesa di Salvini, ma si tratta di quisquiglie rispetto a ciò che potrebbe avvenire a livelli molto più alti.

Nel programma elettorale di Joe Biden c'è l'intenzione di «organizzare un vertice globale della democrazia per rinnovare lo spirito e condividere la proposta delle nazioni del Mondo Libero». Nel suo primo anno di presidenza, si legge, «il presidente Biden riunirà le democrazie del mondo per rafforzare le istituzioni democratiche, approcciare in modo schietto le nazioni che stanno retrocedendo e creare un'agenda condivisa per affrontare le minacce ai nostri valori comuni».

Secondo l'idea di Biden per ricostruire la classe media statunitense, la «competizione per il futuro» ("PER", non "DEL") sarà ancora una volta «contro la Cina» ("CONTRO", non "CON"). Una costante geopolitica ormai indifferente a qualsiasi avvicendamento alla Casa Bianca. Il vertice che ha in mente il nuovo presidente sarà anche una «chiamata all'azione per il settore privato, comprese le aziende tecnologiche e i giganti dei social media, affinché assumano i propri impegni, riconoscendo le loro responsabilità e i loro straordinari interessi nel preservare le società aperte e democratiche nonché proteggere la libertà di espressione».

Insomma, i giganti hi-tech che secondo Biden «beneficiano dei frutti della democrazia», dovrebbero prendere impegni concreti per poter garantire che i loro algoritmi e le loro piattaforme «non rafforzino la sorveglianza di stato, facilitando la repressione in Cina e in qualsiasi altro luogo, diffondendo odio, incitando le persone alla violenza e mantenendo la suscettibilità ad un uso improprio».

La chiamata alle armi del cosiddetto "mondo libero" ci riporta ancora una volta in una dimensione da guerra fredda, da cui Washington sembra incapace di fuoriuscire. Il conflitto commerciale e tecnologico con la Cina intrapreso da Trump potrebbe dunque raggiungere una dimensione ideologica, dove scomparirebbero tutti i margini di negoziazione.

Nonostante l'esplosione della pandemia e le accuse di Trump e Pompeo sulle origini del virus, nel corso degli ultimi dieci mesi Pechino ha continuato a mantenere gli impegni presi nell'ambito della Fase 1 dei nuovi negoziati commerciali, aumentando in particolare gli acquisti agroalimentari dagli Stati Uniti. Come attestano i dati ufficiali del Census Bureau, il deficit commerciale di Washington rispetto a Pechino si è infatti notevolmente ridotto: il raffronto tra i primi 9 mesi del 2019 e lo stesso periodo del 2020 mostra una diminuzione da -262,8 a -222,7 miliardi di dollari [su base nominale].

Il reset che Biden presumibilmente opererà sulla politica estera potrebbe [il condizionale è d'obbligo] portare alla fine della drammatica guerra in Yemen e ad una fase di distensione con l'Iran ma anche ad un nuovo Pivot to Asia, simile a quello avviato nel 2011 da Barack Obama e Hillary Clinton per cercare di contenere l'ascesa cinese nella regione Asia-Pacifico. Intanto è molto probabile che proseguano le ingerenze statunitensi a Hong Kong e Taiwan, dove le forze anti-Pechino sono proprio quelle ideologicamente più vicine al Partito Democratico americano, e nello Xinjiang, dove alcune forze politiche e ONG occidentali continuano pericolosamente a flirtare con organizzazioni estremiste e terroristiche.

L'Amministrazione Biden rischierebbe comunque di farsi molto male. Nel frattempo, infatti, gli equilibri sono cambiati. Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Singapore, Cambogia e tutti gli altri partner dell'ASEAN hanno incrementato notevolmente le loro relazioni diplomatiche, commerciali e tecnologiche con la Cina anzitutto per effetto degli accordi bilaterali o multilaterali conclusi nel quadro dell'iniziativa Belt and Road, ma anche grazie alla ritirata di Trump con la fuoriuscita dal TPP nel 2017.

Il vertice trilaterale tra Pechino, Tokyo e Seoul, avviato nel 2008, sta negoziando da tempo l'apertura di un'area di libero scambio tra i Paesi membri. Cosa praticamente fatta, anche se rallentata dalla pandemia, è la firma, dopo otto anni di negoziati, del Partenariato Economico Regionale Globale (RCEP), la più grande area di libero scambio al mondo pronta a coinvolgere anche Australia e Nuova Zelanda. Unica defezione, circa un anno fa, quella dell'India del primo ministro Narendra Modi, un nazionalista hindu che, privo dell'intesa con Trump, sembra avere ben pochi punti in comune con Biden e la Harris.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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