Hong Kong. Una "rivoluzione colorata" timida ma insensata e pericolosa

hong kong 1081704 1920(ASI) Un milione, quasi due, secondo gli organizzatori, poco meno di 400.000 secondo le autorità. Non siamo di fronte alle stime di partecipazione all'ennesima manifestazione sindacale in Italia o in Francia, ma ad una marcia di protesta a Hong Kong, in Cina, per chiedere al governo locale il ritiro della controversa proposta di legge che prevede l'estradizione sulla Terraferma per chi commette reati. Una protesta meno turbolenta rispetto a quella del 2014, ma caratterizzata dalla stessa leadership: quel Joshua Wong che cinque anni fa aveva animato la "rivolta degli ombrelli" e che ora chiede le dimissioni della governatrice Carrie Lam nel nome della "democrazia".

Richieste che tuttavia non tengono conto del parere dei 6 milioni di hongkonghesi non scesi in strada, ma che soprattutto andrebbero a rovesciare l'esito elettorale di due anni fa, quando Carrie Lam si è affermata governatrice con il 66,81% dei consensi della Commissione Elettorale, premiando il cosiddetto "campo pro-Pechino" che la sosteneva.

Nel caso di Hong Kong, per altro, le logiche di allineamento politico hanno poco a che vedere con le categorie politiche occidentali, dal momento che nella coalizione di sostegno alla governatrice in carica ci sono anche partiti di orientamento liberal-conservatore o nazionalista, come l'Alleanza Democratica per il Miglioramento e il Progresso di Hong Kong (DAB), l'Alleanza degli Imprenditori e dei Professionisti per Hong Kong (BPA), il Partito Liberale o la Federazione Sindacale di Hong Kong e Kowloon. Allo stesso modo, alcune forze di centrosinistra, come il Partito Democratico (DP) o il Partito Laburista (LP), si trovano invece nel campo opposto, quello cosiddetto "pro-democrazia".

Altro luogo comune da sfatare è quello relativo al processo democratico, di fatto inesistente durante la dominazione coloniale di Londra (1843-1941 e 1945-1997), che prevedeva la nomina diretta di un governatore - rigorosamente di etnia anglosassone - da parte della Corona. Dal 1997, invece, Hong Kong ha cominciato a disporre di organismi sostanzialmente efficaci in grado di garantire notevoli livelli di rappresentatività. A nominare il capo di governo della Regione Amministrativa Speciale (RAS) è solo formalmente il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese ma in realtà esso viene precedentemente scelto da una Commissione Elettorale composta da 1.200 membri, suddivisi in 4 settori e 38 sottosettori, di cui 1.034 eletti:

  1. 300 seggi spettano ai settori economici (industria, import-export, immobiliare, trasporti, commercio al dettaglio, tessile, turismo, finanza ecc. ...);
  2. 300 al mondo delle professioni (docenti, medici, avvocati, ingegneri ecc. ...);
  3. 300 ai settori dell'agricoltura, della pesca, dei servizi sociali, delle religioni, delle arti e dello sport;
  4. 300 sono suddivisi fra i membri del Consiglio Legislativo di Hong Kong, i rappresentanti dei Consigli Distrettuali, i rappresentanti dell'organo consultivo Heung Yee Kuk, i deputati hongkonghesi presso l'Assemblea Nazionale del Popolo (Pechino) e i rappresentanti dei membri di Hong Kong presso la Commissione Nazionale della Conferenza Politico-Consultiva del Popolo Cinese.

Il Consiglio Legislativo, massimo organo legislativo di Hong Kong, viene eletto già a suffragio universale per la metà dei suoi membri (35 su 70). Altri 30, sebbene non scelti sulla base del suffragio universale diretto, sono comunque espressione del mondo delle professioni, mentre 5 vengono eletti fra i rappresentanti dei Consigli Distrettuali. L'obiettivo finale - come recita l'Articolo 68 della Legge Fondamentale della RAS di Hong Kong, promulgata a Pechino il 4 aprile 1990 - è comunque quello di estendere il suffragio universale all'intero corpo di rappresentanza del Consiglio.

È evidente che si tratti di un sistema politico-elettorale piuttosto complesso, ma anche necessario in un'area metropolitana del tutto particolare, annoverata fra i centri finanziari più avanzati ed importanti al mondo, dove imprese e professionisti giocano un ruolo fondamentale per la stabilità e la prosperità generale.

In realtà, a monte dello scontro fra i manifestanti e il governo, c'è la diacronia storico-sociale fra la Cina continentale e territori quali Hong Kong, Macao e Taiwan, per lunghissimo tempo separati dal resto del Paese. Come una pianta malata, il colonialismo e le spoliazioni territoriali subite dalla Cina hanno generato frutti marci, creando innaturali scenari di odio e lacerazione fra connazionali, diseguaglianza nello sviluppo economico e squilibri di posizionamento nell'arena internazionale.

Fino al 1997 Hong Kong fu l'ultimo avamposto asiatico dell'Impero Britannico, che ne aveva occupato il nucleo insulare nel 1841, a seguito della prima guerra dell'oppio, per poi estenderne i domini anche alla parte peninsulare e ai cosiddetti "nuovi territori" fra il 1860 e il 1898. La restituzione della colonia alla Cina era stata concordata nel decennio precedente grazie alla paziente opera diplomatica di Deng Xiaoping, conclusa con la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984, che aveva condotto analoghe trattative anche col governo di Lisbona per ottenere la restituzione di Macao, avvenuta ufficialmente nel 1999.

Reintegrati nella madrepatria attraverso la dottrina Un Paese, due sistemi, nei due territori ex-coloniali prese il via un periodo transitorio di cinquant'anni in un quadro istituzionale di marcata autonomia legislativa, economica e finanziaria. Per Hong Kong e Macao, infatti, fu appositamente introdotta nell'ordinamento cinese una nuova suddivisione territoriale - quella, appunto, della Regione Amministrativa Speciale - che prevede la preservazione pressoché completa del diritto di proprietà e del regime di libero mercato ereditati dal periodo coloniale. Nel caso di Hong Kong, questo non soltanto garantiva ai connazionali "d'oltremare" la tutela dei diritti acquisiti ma permetteva anche a Pechino di controllare un importantissimo hub commerciale e finanziario a pochi passi da Shenzhen, una delle prime città ad aderire al sistema delle zone economiche speciali all'inizio degli anni Ottanta.

La ricca Hong Kong, oggi, è la 35a economia al mondo con un PIL nominale pari a poco più di 363 miliardi di dollari, ma oltre il 90% di questo prodotto interno è generato dal settore dei servizi. Circa il 42% delle importazioni di Hong Kong proviene dalla Cina continentale, in particolare apparecchi per le comunicazioni, circuiti integrati, telefoni, componenti per macchinari da ufficio, computer e circuiti stampati. Il nuovo avveniristico ponte Hong Kong - Zhuhai - Macao, lungo 55 chilometri, inaugurato lo scorso ottobre è stato dunque l'ideale completamento della prima fase di un percorso di riavvicinamento non solo logistico ed infrastrutturale, ma anche politico e culturale.

I due sistemi hanno ancora un altro trentennio per completare il percorso di integrazione e, visti i trend odierni, appare davvero difficile dubitare delle capacità della Cina continentale di raggiungere, su scala nazionale, livelli di sviluppo avanzati come quelli di Hong Kong o della stessa Singapore, altra "città-miracolo" a maggioranza etnica cinese.

Fino a ventidue anni fa, Hong Kong era governata da Chris Patten, un inglese scelto direttamente dalla Regina Elisabetta II. Oggi c'è un sistema di governo elettivo ed autoctono: ancora incompleto, indubbiamente da migliorare, ma esiste. Cercare di forzare il processo di costruzione democratica a Hong Kong, così come nella stessa Cina continentale, non può che portare a conseguenze economiche e sociali catastrofiche. Cui prodest?

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

 

 
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