Pechino-Washington: sale la tensione in Asia Orientale

(ASI) Lo scorso 23 febbraio, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi è volato negli Stati Uniti per incontrare il segretario di Stato americano John Kerry. La visita è stata breve ma intensa e ha messo sul tavolo diverse questioni di rilevanza regionale e globale: la situazione nelle acque del Mar Cinese Meridionale, la questione taiwanese, la crisi nella Penisola Coreana, il nucleare iraniano e la guerra in Siria. Sebbene le intenzioni restino da ambo le parti quelle di favorire la distensione nella regione Asia-Pacifico e di garantire la pace nelle aree critiche, gli interessi delle prime due potenze mondiali camminano su sentieri in buona parte divergenti, tanto più in una fase in cui, per varie ragioni (crollo del prezzo del petrolio, recessione europea, volatilità in borsa, stallo siriano, contrapposizione tra Occidente e Russia ecc. ...), permane una grande incertezza internazionale.

Isole contese e ingerenze americane

Uno dei nodi più complicati da sciogliere tra Pechino e Washington è quello relativo alle isole contese nel Mar Cinese Meridionale, dove nel corso degli ultimi due anni la tensione con alcuni dei partner del Sud-est asiatico è tornata ai massimi livelli. La Cina rivendica tutti i territori insulari e gran parte delle acque su basi storiche - richiamando l'antica sovranità esercitatavi per molti secoli - e giuridiche, appellandosi alla Dichiarazione sulla Condotta delle Parti nel Mar Cinese Meridionale, firmata da Pechino insieme ai Paesi membri dell'ASEAN nel 2002. In particolare, lo scontro più duro sembra riguardare le Isole Nansha, note anche come Isole Spratly, e coinvolge Vietnam, Taiwan, Malesia, Brunei e Filippine.

Con la recente affermazione del filo-cinese Nguyen Phu Trong al Congresso del Partito Comunista del Vietnam, Hanoi potrebbe trovare ben presto un'intesa ragionevole con Pechino, rispolverando gli Accordi delle Sedici Parole d'Oro che avevano già ottimizzato i rapporti bilaterali tra la fine degli anni Novanta e l'inizio degli anni Duemila. Con la Malesia ed il Brunei le polveri della tensione vengono regolarmente bagnate dai floridi rapporti economici. Con Taiwan, la questione è molto più complessa, perché il Partito Democratico Progressista (indipendentista) ha recentemente vinto le elezioni politiche nell'isola che Pechino considera a tutti gli effetti una sua provincia, col conforto del diritto internazionale, adeguatosi dal 1971 al principio di 'una sola Cina', cioè quella rappresentata dal governo di Pechino: un principio che Wang ha chiesto ancora una volta a Kerry di rispettare, evitando di fornire armamenti a Taipei.

Sono, invece, le Filippine a mantenere l'atteggiamento apertamente più ostile nei confronti di Pechino. Meno di tre anni fa, Manila ha inoltrato ufficialmente una richiesta per l'arbitrato internazionale in virtù dell'Art. 287 e della VII Appendice della Convenzione ONU sul Diritto Marittimo. L'Art. 4 della Dichiarazione sulla Condotta delle Parti, tuttavia, contraddice la possibilità di intraprendere azioni unilaterali e subordina la Convenzione ONU alle consultazioni amichevoli e ai negoziati tra i Paesi coinvolti.

Gli Stati Uniti hanno accolto quasi immediatamente le istanze di Manila e, richiamando "l'inflessibile dovere di difendere l'alleato filippino" nell'ultimo summit dell'APEC del 18 novembre scorso, Obama si è pesantemente inserito in una disputa bilaterale e si è di fatto attivato quale protector di tutti i Paesi che potrebbero scontrarsi con Pechino sulla questione marittima. In quell'occasione, Obama si scagliò contro la costruzione di nuovi isolotti artificiali e di nuove barriere da parte di Pechino, invitando i cinesi ad evitare la "militarizzazione del Mar Cinese Meridionale".

Sei giorni prima di quel vertice, tuttavia, erano stati due bombardieri strategici americani B-52 a sorvolare i territori insulari cinesi nell'Arcipelago delle Nansha (Spratly), mentre due settimane prima il Pentagono aveva spinto il cacciatorpediniere USS Allen nelle acque contese, sino a violare il limite delle 12 miglia nautiche dal territorio della barriera cinese di Zhubi. Washington si era giustificata sottolineando la necessità di garantire la libertà di navigazione, sancita dal diritto internazionale, ma la reazione cinese fu furiosa. Il portavoce del Ministero degli Esteri Lu Kang affermò che la Cina "rispetta e tutela il diritto di navigazione e sorvolo sul Mar Cinese Meridionale, a cui tutti i Paesi hanno accesso in base al diritto internazionale, ma è fermamente contraria alle violazioni compiute da qualsiasi nazione ai danni della sua sovranità e della sua sicurezza nazionale con la scusa della libertà di navigazione e di sorvolo". L'azione della nave da guerra statunitense è stata chiaramente percepita come una provocazione, goffamente legittimata da una lettura distorta e pretestuosa della Convenzione ONU sul Diritto del Mare, la quale impone che, sebbene libere, le manovre di navigazione "non devono pregiudicare la pace, il buon ordine o la sicurezza del Paese costiero".

Lo scorso 25 febbraio, due giorni dopo l'incontro tra Wang e Kerry, è stato il Ministero della Difesa cinese a rincarare la dose, affermando che i moniti di Obama ad evitare la militarizzazione del Mar Cinese Meridionale valgono, nei fatti, a senso unico. Il portavoce Wu Qian ha osservato: "Diversi alti funzionari militari statunitensi hanno recentemente accusato la Cina di voler militarizzare il Mar Cinese Meridionale e di accrescere le tensioni [...] Eppure gli Stati Uniti hanno inviato navi e aerei da guerra in territorio cinese senza alcuna autorizzazione per svolgere compiti di pattugliamento, e alcuni Paesi stanno illegalmente occupando isole e scogliere cinesi, dispiegandovi radar e artiglieria [...] Non è questa una militarizzazione?".

Soluzioni diverse alla crisi coreana

Dopo l'ultimo test nucleare da parte di Pyongyang del 6 gennaio scorso, che ha spaventato mezzo mondo in merito alla possibilità che l'arsenale nordcoreano acquisisca anche la bomba all'idrogeno, pure il Mar Giallo è tornato a scaldarsi. Stavolta, persino partner storici come Russia e Cina non hanno potuto fare a meno di condannare Kim Jong-un per l'irresponsabilità e la violazione degli accordi stabiliti nel quadro del Dialogo a Sei sulla proliferazione nucleare nella Penisola Coreana. Come spesso accade, però, Mosca e Pechino cercano di mantenere un approccio diversificato nei confronti di un vecchio alleato dei tempi della Guerra Fredda che, per quanto scomodo, soprattutto per motivi di immagine internazionale, garantisce una fondamentale zona-cuscinetto sui confini terrestri tra le basi statunitensi stanziate in Corea del Sud e le due potenze orientali.

In particolare, Cina e Stati Uniti si dividono sull'individuazione di una giusta risoluzione ONU in risposta alla violazione degli accordi da parte di Pyongyang. Mentre Washington e Tokyo spingono per una linea dura ed intransigente, Pechino (con l'ausilio di Mosca) cerca di smussare gli angoli e di ammorbidire gli effetti di eventuali sanzioni, anche al fine evitare che il popolo nordcoreano sia ingiustamente colpito per questioni essenzialmente geopolitiche.

Il comportamento apparentemente scriteriato di Kim Jong-un può avere mille motivazioni tanto che non sono ancora chiare né le dinamiche tecniche né le ragioni politiche dell'ultimo test nucleare. Tuttavia, la crisi che ne è scaturita ha avuto senz'altro l'effetto di mettere in grande difficoltà la Cina proprio in una fase di intenso lavoro diplomatico per coinvolgere Seoul in nuovi partenariati e negoziati. La presidentessa sudcoreana Park Geun-hye aveva ufficialmente assistito alla parata militare del 3 settembre scorso a Pechino, per commemorare la vittoria cinese nella Seconda Guerra Mondiale sul Giappone, a quel tempo comune nemico di Cina e Corea.

L'acuirsi della tensione, però, ha riavvicinato improvvisamente Seoul a Washington, che da par suo ha avanzato la richiesta di installare un avanzato sistema anti-missile in territorio sudcoreano. Il Terminal High Altitude Area Defense (THAAD) è uno degli ultimi ritrovati dell'industria militare statunitense ed è pensato principalmente per la neutralizzazione dei missili a medio e a corto raggio. Il portavoce del Ministero della Difesa Wu Qian è tornato alla carica anche su questo tema: "Siamo molto preoccupati per il possibile dispiegamento del sistema di difesa missilistica THAAD - ha affermato - notando che il raggio di copertura del sistema di difesa missilistica THAAD [...] va ben al di là delle esigenze difensive della Penisola Coreana e raggiunge l'entroterra dell'Asia". Secondo Wu, l'installazione del sistema THAAD danneggerebbe non solo la sicurezza strategica della Cina ma anche la stabilità strategica globale".

I timori del Pentagono

Lo scorso 19 febbraio, Yin Zhuo, esperto militare cinese, ha affermato ad Asia Today che esiste la concreta possibilità che gli "oggetti non-identificati" rilevati la mattina del 10 febbraio scorso sopra la Zona Aerea di Identificazione Difensiva (ADIZ) cinese, siano degli F-22 stealth americani. Se le rilevazioni fossero confermate, significherebbe che i sistemi radar a terra cinesi sarebbero ormai in grado di rilevare i caccia "invisibili" del Pentagono, così come sono già in grado di fare i sistemi di allarme e controllo aviotrasportati KJ-2000 e KJ-500.

Meno di una settimana fa, la CNN ha diffuso le immagini del Dipartimento alla Difesa americano che mostravano come la Cina stesse schierando caccia J-11 e J-7 sull'Isola di Woody, nell'altro arcipelago conteso del Mar Cinese Meridionale, cioè quello delle Isole Xisha, note anche come Paracel. Secondo un portavoce del Pentagono, "i dettagli del recente dispiegamento di aerei da caccia sull'Isola di Woody sarebbero un problema minore rispetto al segnale che tutto ciò suggerisce su quanto le azioni cinesi siano divergenti dalle aspirazioni della regione". Tradotto dal linguaggio diplomatico, ciò significa che, secondo il Pentagono, la condotta della Cina nell'area metterebbe a rischio l'intera regione.

Il 25 febbraio, è stato il comandante dello USPACOM (comando statunitense nel Pacifico), il nippo-americano Harry Harris Jr., ad indicare le direttive del "ribilanciamento" di Washington in corso nel teatro della regione Asia-Pacifico. "Abbiamo affrontato operazioni a garanzia della libertà di navigazione in tutto il mondo per decenni e continueremo a farlo", ha precisato il comandante Harris, che ha ribadito anche davanti alla Camera e al Senato l'opinione secondo cui la Cina starebbe militarizzando il Mar Cinese Meridionale. "Farò molta attenzione a questa minaccia - ha aggiunto Harris - ma nessuno ci impedirà di volare, navigare o di operare ovunque il diritto internazionale lo permetta". Frasi altisonanti che, tuttavia, durante la visita di Wang Yi a Washington non hanno mai varcato la soglia del Pentagono o del Congresso

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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