Il paradosso del de-risking e la contrizione dell'Italia a Washington

(ASI) In principio fu la pandemia a sdoganare la tesi del cosiddetto de-coupling (disaccoppiamento) a livello mainstream. Con l'interruzione di alcune catene di approvvigionamento nei primi mesi dell'emergenza sanitaria, in particolare dalla Cina, primo Paese colpito severamente dal Covid-19, in Europa cominciarono a spuntare le prime voci a proposito dell'esigenza di ripensare profondamente il meccanismo della globalizzazione per riportare "a casa" (re-shoring), o "nei pressi di casa" (near-shoring), alcune produzioni ritenute strategiche.

Nel marzo 2021, l'incagliamento lungo il Canale di Suez della nave Ever Given, di proprietà della compagnia taiwanese Evergreen Marine, attirò l'attenzione del mondo intero. La narrazione puntava tutto - fin troppo - sulla tesi della fragilità delle catene di fornitura e sul rischio che queste potessero risentire dei principali choke point globali, cioè quei "colli di bottiglia", sempre più trafficati da navi mercantili, lungo una direttrice che mette in comunicazione gli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico: Panama, Gibilterra, Bosforo, Suez, Bab el Mandeb, Hormuz e Malacca.

Nel 2022 è infine arrivata la crisi del grano, frutto sia della decisione russa di invadere l'Ucraina per risolvere il conflitto nel Donbass sia della scelta della NATO di andare allo scontro aperto con Mosca. Le navi cariche di frumento, pronte a partire dai porti del Mar Nero verso Europa (in primis) ed Africa (in subordine), rimasero ferme per mesi fino a quando, in estate, poterono ripartire in virtù dell'accordo concluso tra le parti sotto l'egida della Turchia. Ora, con la recente escalation ed il nuovo slittamento della posizione di Ankara, il problema potrebbe ripresentarsi di nuovo.

Questi tre momenti storici, pur impattanti, sono tra loro del tutto scollegati. Hanno cioè origini e natura completamente diverse: del tutto casuale ed episodica l'ondata pandemica che ha tenuto in apprensione il pianeta per oltre due anni; assolutamente sporadico, se non isolato, l'incidente della Ever Given lungo un canale che, per altro, il governo egiziano sta ampliando e migliorando; provocato direttamente dal conflitto, invece, il blocco del grano.

Eppure, specie dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina, i principali attori in Europa hanno preso tutto molto sul serio, fornendo un'interpretazione singolare, che in qualche modo concatena questi eventi. Alla fine dello scorso anno, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha introdotto, con un articolo su Foreign Affairs, il concetto di Zeitenwende, cioè la "svolta epocale" necessaria all'Europa per affrontare il nuovo mondo multipolare, caratterizzato - a suo dire - dallo scontro tra diversi modelli di governo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha sfruttato l'occasione per rilanciare il tema - già caro a De Gaulle e Mitterrand - dell'autonomia strategica europea. Giorgia Meloni ha persino scomodato la figura storica di Enrico Mattei per stilare un piano finalizzato a consolidare, sotto l'egida di Bruxelles, le relazioni coi Paesi del Mediterraneo allargato, dunque MENA, Sahel e Corno d'Africa.

Tutto molto interessante, indubbiamente. Eppure, molti di questi piani vengono presentati pubblicamente con l'intento di «arginare Russia e Cina» un po' ovunque nel mondo: nel Mediterraneo, in Africa e nel cosiddetto Indo-Pacifico (nonsense geografico, ormai di moda). Come se gli Stati Uniti e la NATO non esistessero e come se, prima del 24 febbraio 2022, non fossero mai emersi conflitti o altri gravi fattori di destabilizzazione.

Nessuna guerra in Iraq, nei Balcani, in Afghanistan, in Libia o in Siria. Nessuna ingerenza europea o statunitense in Africa, in Medio Oriente, in Asia Orientale o in America Latina. Nessuna autocritica. Dal nuovo "libro di storia", insomma, sparisce praticamente tutto quanto possa mettere in discussione una narrazione utile a legittimare agli occhi dell'opinione pubblica una progressiva separazione del blocco occidentale dalle principali economie emergenti.

La stessa Commissione UE si è messa al lavoro nel 2022, approvando lo scorso marzo il Critical Raw Materials Act (CRM Act), un pacchetto mirato alla diversificazione nell'approvvigionamento delle materie prime considerate strategiche, a partire dalle ormai note terre rare, mercato per anni dominato dalla Cina, la cui quota di produzione a livello mondiale è comunque in netto calo rispetto al 2010 [A. Biancardi, M. Di Castelnuovo, ISPI, 13/12/2022]. Anche in Italia se n'è recentemente parlato con l'intervento del ministro Adolfo Urso, che ha annunciato alla stampa la prossima approvazione di un piano per tornare ad esplorare il sottosuolo del Belpaese alla ricerca di minerali preziosi per le produzioni tecnologiche, puntando l'indice contro l'eccessiva dipendenza dal gigante asiatico.   

Dopo oltre quarant'anni di globalizzazione, promossa e sistematizzata da due simboli del neo-liberismo del calibro di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, sembra così che la ritrovata coppia Washington-Londra, supportata ciecamente da Bruxelles, voglia rimettere tutto in discussione, ribaltando il tavolo e ridisegnando radicalmente le catene logistiche e industriali mondiali. Facile a dirsi, ma non certo a farsi.

Da quando Joe Biden, ad inizio mandato, ha lanciato la sua iniziativa globale per la democrazia erano chiari gli intenti geopolitici che si nascondevano dietro le classiche parole d'ordine su diritti umani e civili: rilanciare il Washington Consensus nel mondo; isolare Russia, Cina, Iran e qualsiasi altro Paese ostile agli interessi degli Stati Uniti; rafforzare il controllo sull'Europa attraverso un più deciso coinvolgimento nel quadro NATO; assegnare nuovi compiti di "gendarmeria" regionale agli alleati.

Così si spiegano meglio le parole dei leader europei di cui sopra e, dunque, anche quanto scrive Paolo Mastrolilli su Repubblica, a proposito della prossima visita di Giorgia Meloni alla Casa Bianca. «La decisione è presa, nella sostanza», si legge nell'articolo, che prosegue: «L’Italia non rinnoverà il Memorandum of understanding (MOU) che la lega alla nuova Via della Seta cinese, quando scadrà alla fine dell’anno» [Repubblica, 23/7/2023].

Sebbene quel memorandum, firmato nel marzo 2019 dal governo giallo-verde (Conte I), non fosse nemmeno vincolante, la forte pressione di Washington su Roma somiglia molto da vicino ad un ordine perentorio, quasi da eseguire con un atto di contrizione per aver osato, oltre quattro anni fa, aprire ufficialmente una finestra sull'Iniziativa Belt and Road (BRI), attraverso cui la Cina sta cercando di ricostruire in chiave moderna le rotte dell'antica Via della Seta. Rotte che, come ad esempio quella Trans-Caspica (TITR), sfruttando il potenziale dell'intermodalità andrebbero a costituire vie alternative e complementari alle grandi linee oceaniche di comunicazione consolidate, cioè proprio quelle ritenute a rischio dai sostenitori della de-globalizzazione.

Senza entrare in tema di investimenti cinesi in Italia, sui quali il Governo Draghi ha già posto numerosi veti tra il 2021 e il 2022, basterebbe soltanto pensare al nuovo successo riscontrato dall'export italiano in Cina, sottolineato anche dal sottosegretario agli Esteri Maria Tripodi lo scorso aprile, a margine del terzo China International Consumer Products Expo (CICPE) di Haikou.

Prospettive in crescita per i prossimi dieci anni in virtù di una classe media cinese in forte ascesa, già oggi abbondantemente al di sopra del mezzo miliardo di persone, che forma un enorme bacino di consumatori sempre più consapevoli ed esigenti, alla ricerca di beni di qualità e servizi di fascia medio-alta. La vecchia etichetta di "fabbrica del mondo", insomma, va sempre più stretta ad un'economia trainata dai consumi interni, consolidata dallo slancio dei servizi e campionessa di investimenti in tecnologie digitali ed energie rinnovabili.

In una fase storica di profonda trasformazione del modello di sviluppo del Paese asiatico, sancita dall'entrata in vigore, oltre tre anni e mezzo fa, della nuova legge sugli investimenti, che ha parificato il trattamento delle aziende straniere a quelle locali, migliorando l'accesso al mercato, la Cina oggi rappresenta un'opportunità considerevole anche per gli investimenti esteri italiani in settori ed ambiti parzialmente o totalmente nuovi rispetto al passato, senza considerare quelli nei cosiddetti Paesi terzi della BRI, di cui si parlava proprio nel Memorandum firmato nel 2019.

Perché l'Italia non ha il diritto di determinare la sua politica estera e gli orientamenti della sua diplomazia economica e commerciale? In che modo il rinnovo di un Memorandum non-vincolante [vale la pena ripeterlo] minaccerebbe la nostra democrazia e il nostro stato di diritto? Dopo aver subito pesantissime ripercussioni dallo sganciamento dal gas russo, ora l'Italia rischia seriamente di mettere a repentaglio anche le relazioni con Pechino, con tutto ciò che potrebbe conseguirne ai danni del nostro export e dei nostri investimenti nel Paese asiatico. Insomma, un de-risking pieno zeppo di rischi.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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