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Dibattiti storici. La guerra dell’Italia proletaria

(ASI)Quella del 10 giugno del 1940 con l’entrata in guerra dell’Italia, è una data che secondo la vulgata antifascista, supportata ovviamente dalle Potenze vincitrici dell’ultimo conflitto mondiale, è sinonimo di volontà guerrafondaia, leggerezza e avventurismo apportatori, alla fine, di infinite disgrazie per l’Italia. Se si è d’accordi sulle infinite disgrazie finali, scaturite da una sconfitta militare e un tradimento politico certamente non prevedibili all’inizio del conflitto, non lo si è invece affatto sull’implicito sillogismo che da fascismo=volontà guerrafondaia, leggerezza ed avventurismo. In realtà, la dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra è stato un finale d’obbligo scaturito dall’aggressiva azione politica delle cosiddette democrazie occidentali tendente con la superbia e il disprezzo di sempre; si vedano infatti le sanzioni del 1936 che ne sono l’anticipo, a riportare l’Italia fascista ad una condizione di subalternità nel contesto europeo. Soprattutto per la Gran Bretagna, bisognava estromettere l’Italia come potenza marittima dal suo stesso mare, il Mediterraneo, lasciando quest’ultimo a totale disposizione delle flotte, mercantile e da guerra, di Sua Maestà britannica. Che l’Italia fascista non volesse la guerra è ormai materia acclarata dalla Storia, come è acclarato, la documentazione in proposito non lascia dubbi, che lo scoppio del conflitto imperniato sul morire per Danzica, lo si deve esclusivamente all’assurda intransigenza polacca nel difendere la proprietà di terre tedesche, ed alla cieca politica inglese e francese nel bloccare ad ogni costo le giuste rivendicazioni territoriali della Germania, tra l’altro originata dal successo tedesco in materia economica e finanziaria. Un pericoloso precedente in Europa considerati i molti Paesi pronti all’imitazione. E allora addio alla posizione dominante della City londinese e di Wall Street. Guerra non sentita sentenziano gli addomesticati Soloni della nuova Italia. In proposito, cristallino, il pensiero di Mussolini: “Un argomento dei capitolardi è che questa guerra non è sentita. Orbene, nessuna guerra è sentita. Nemmeno quelle del Risorgimento, e si potrebbe dimostrarlo a base di inoppugnabili documenti. Fu forse sentita la guerra del 1915-1918? Affatto. Alla guerra il popolo fu trascinato da una minoranza che riuscì a travolgere tre città: Milano, Genova, Roma ed alcune minori come Parma. Tre uomini scatenarono il movimento: D’Annunzio, Mussolini e Corridoni. Anche allora non vi fu alcuna unione sacra. Il paese fu diviso in neutralisti ed interventisti e questa divisione continuò anche dopo Caporetto. Una guerra che si può definire sentita quella che denunciò 535mila disertori all’interno? Ci pare molto meno sentita dell’attuale. La verità è che nessuna guerra è popolare, e si comprende agevolmente il perché; lo diventa se va bene, e se va male diventa impopolarissima”.

Tutto questo senza dimenticare l’autentico scoppio di entusiasmo che coinvolse piazze e contrade d’Italia all’annuncio dell’entrata in guerra. Ragione principale di eclatanti vittorie tedesche alle quali conveniva adeguarsi. Voce di popolo. Soltanto le avverse fortune sul campo, supportate dal sabotaggio e dal tradimento nei gangli vitali delle Forze Armate, provocarono alla fine scoramento e distacco. L’ignobile resa incondizionata dell’8 settembre 1943 a suggellarne le tragiche conseguenze.

Davide Caluppi Agenzia Stampa Italia

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