Indagine critico-storico-filosofica su Il Ribelle attraverso Jünger

(ASI) “Il trattato del ribelle” è il titolo di un saggio scritto da Ernst Jünger, scrittore e filosofo tedesco del XX secolo, che tratta una problematica attuale ai suoi tempi come ai nostri: come ribellarsi ad un regime totalitario, o quasi, come il nostro.

Chi è il ribelle? In cosa si differenzia dal rivoluzionario e dal rivoltoso? Per rispondere a queste domande bisogna prima definire chi è il rivoluzionario e chi il rivoltoso, e per farlo prenderò degli esempi storici.

  1. Il rivoltoso

Il rivoltoso è colui che, in una comunità, tenta di cassare coloro che detengono, o colui che detiene, il potere e lo utilizza malignamente contro la sua realtà. Il rivoltoso elimina o tenta di eliminare il sovrano senza avere una base economica e senza avere una proposta di impiego di potere. Questi fattori portano ad una sconcertante verità: non importa quanto ardimentosi e retti i sentimenti dei rivoltosi possano essere, la loro azione porterà sempre a due possibili risultati: il primo, fallimento della rivolta nel suo principio, il secondo, fallimento della rivolta nel suo stadio finale. Per far capire questa dinamica espongo due esempi.

 

1.1 Le Jacquerie

Per il primo caso, ovvero il fallimento nel suo principio, porto l’esempio storico delle Jacquerie del maggio del 1358. Le Jacquerie rappresentano uno dei tanti episodi di rivolta che avvennero in quegli anni (e già questo elemento dovrebbe far capire quanta differenza c’è tra la rivolta e la rivoluzione), ma che si differenzia dalle altre per un semplice motivo: il numero di rivoltosi e, di conseguenza, l’elevato numero di morti. Questa rivolta ha una ragione ben precisa, che è la ragione che sta alla base di tutte le rivolte, ovvero la paura di perdere ciò che si ha, differentemente da ciò che accade nelle rivoluzioni in cui si combatte per avere un maggiore potere e rilevanza socio-politica. La vita dei contadini francesi ai tempi delle Jacquerie era molto tormentata, perché si tratta di una Francia che sta perdendo nella battaglia dei Cent’anni (1337-1453); il territorio in cui si svolge la rivolta, l’Oise, Alta Francia, è passato in mano agli inglesi, che sono, in questo momento, al loro apice di conquiste del territorio francese, e sopraggiunge la crisi. La rivolta scoppia per una rissa fra contadini e uomini d’arme, che, dopo aver devastato la regione, occuparono i castelli del Beauvaisis e dell’Ile-de France. La rivolta, scoppiata a Saint-Leu, si estese in breve tempo a Serens, Cramoisi e Nointel grazie al comune odio per la classe feudale e militare e la comune condizione di vita, entrambi fattori determinati dalla guerra. La rivolta ebbe un punto di svolta quando sei mila uomini si riunirono sotto il comando di Guglielmo Karle e distrussero, attraverso attacchi strategicamente preparati, numerosi castelli. Questo fattore di distruzione venne inizialmente sfruttato da Marcel, il quale inviò trecento uomini d’arme a combattere con i rivoltosi, guidati da Giovanni Vaillant; successivamente, però, riconoscendo il flusso dei rivoltosi difficile da gestire ritirò i trecento uomini e Carlo II il Malvagio li combatté con un esercito di uomini inglesi e di Navarra nel piano di Mello nella battaglia che viene ricordata con questo nome. La rivolta durò appena dodici giorni, mentre la vendetta dei nobili si prolungò per altri due anni causando la morte di ventimila persone appartenenti alla classe rurale.

In ultima analisi le Jacquerie non avevano un piano vero e proprio, ma solo un obbiettivo: la distruzione; questo li portò a non poter avere nessun tipo di rilevanza politica.

1.2 La rivolta dei Ciompi

Per il secondo caso, ovvero il fallimento nel suo stadio finale, porto l’esempio storico della rivolta dei Ciompi del luglio 1378. Il 20 luglio 1378 a Firenze i salariati delle Arti, specialmente quelli della lana, mossi da problematiche di tipo economico-sociali e privi di diritti politici, presero il controllo della città e insediarono nel palazzo dei Priori un sindaco che li rappresentasse. Quando, però, elaborarono una riforma a loro beneficio, i salariati delle altre Arti, si ribellarono e li esiliarono, il 31 agosto 1378, da Firenze.

Come mai, quindi, questa rivolta si può dire fallimentare nella fase finale? Perché i Ciompi erano riusciti a costituire un apparato politico, che però non aveva un’alternativa valida al sovrano per governare e quindi, evidentemente, avevano come unica possibilità: il fallimento.

Si può anche aggiungere, infine, che il rivoltoso non può, mancando di un piano alternativo al potere già presente e talvolta fallendo anche nel contenere il male, essere Catechon, questo perché il Catechon è misura di contenimento del male, del Caos con successiva proposta di rilancio.

  1. Il rivoluzionario

Il rivoluzionario è un personaggio di rilievo, con una base economica forte, il quale, attraverso la rivoluzione, vuole sovvertire il potere. Per farlo attacca il soggetto o i soggetti che lo detengono e allo stesso tempo, quando elimina la vecchia forma-stato, ne ha già un’altra, ugualmente, se non maggiormente, efficiente con cui governare. Questa nuova forma-stato, come la stessa rivoluzione, sono fattori a lungo ideati e progettati. Inoltre, il rivoluzionario appartiene sempre ad una classe sociale ricca che vuole essere riconosciuta e avere potere decisionale. Questo si può osservare a partire dalla storia, ad esempio con la Rivoluzione inglese, con la Rivoluzione americana, con la Rivoluzione cinese e con la Rivoluzione russa. Quest’ultima volendo essere una rivoluzione di impronta comunista vede come suoi veri promotori Karl Marx e Friedrich Engels, con il Manifesto del partito comunista, testo del 1848; ciò comporta che quest’ideologia sia stata studiata e sviluppata per quasi sessant’anni, essendo la Rivoluzione russa scoppiata nel 1905.

C’è, a mio avviso, un’analogia tra le rivoluzioni comuniste e le rivoluzioni non comuniste la differenza tra questi tipi di rivoluzione è che le seconde hanno il proponimento di acquisire maggiore potere e i rivoluzionari sono tutti sullo stesso piano; mentre nelle prime, vi sono i veri e propri rivoluzionari che hanno il progetto e l’idea di acquisire maggiore potere; vi sono, inoltre, dei falsi rivoluzionari, i quali dovrebbero essere più giustamente definiti rivoltosi, i quali vengono arruolati e sfruttati dai rivoluzionari stessi con il pretesto di far avere loro potere decisionale o una stabilità economica; questi rivoltosi si identificano solitamente con la classe rurale o con la classe operaia.

 

2.1 Rivoluzione inglese e americana

Porto degli esempi storici a riprova della mia ipotesi, partendo dalle rivoluzioni non comuniste. Il primo esempio storico è sicuramente la rivoluzione inglese, così come la rivoluzione americana. Queste due rivoluzioni vedono negli schieramenti dei rivoluzionari uomini con una forte base economica che non hanno, o hanno in piccola parte, potere di tipo politico. Nella rivoluzione inglese questi rivoluzionari sono i puritani, guidati da Oliver Cromwell; nella rivoluzione americana sono i coloni inglesi insediati in America. Quindi in entrambi i casi si hanno rivoluzionari con una forte base economica che tentano, infine riuscendoci, di incrementare il loro potere politico.

2.2 La Rivoluzione comunista cinese

Per le rivoluzioni comuniste, invece, porto l’esempio della Rivoluzione cinese e russa. La Rivoluzione comunista cinese impiega molti anni per vedere la luce, infatti, si hanno più fasi. La prima fase va dal 1921, anno di nascita del partito comunista, al 1927. In questi anni si sancì un’alleanza tra partito comunista e partito dei nazionalisti, alleanza che terminò con una violenta repressione, dovuta alla posizione presa da alcuni comunisti durante le agitazioni operaie e contadine, voluta dal capo del partito dei nazionalisti, Chiang Kai-shek. Questi, vedendosi così tradito dal partito alleato, decise di instaurare un regime autoritario e militarista.

La seconda fase vede Mao Zedong, capo del partito comunista, riconoscere nei contadini la maggiore forza rivoluzionaria e instaurare così le sue basi nelle zone rurali del sud. Nel 1931 divenne presidente di una repubblica sovietica, ma nel ’34, sconfitto nuovamente dalle truppe nazionaliste, fu costretto a scappare per 10.000 km. Organizzò nuovamente uno stato da lui diretto e nel ‘37 dovette fare nuovamente fronte comune con i nazionalisti per sconfiggere gli invasori giapponesi, mantenendo, tuttavia, ciascuno la propria autonomia d’azione.

La terza, e ultima fase, della rivoluzione si aprì nel 1946, quando, al termine della Seconda guerra mondiale, nazionalisti e comunisti non riuscirono a trovare un accordo e scoppiò, così, la guerra civile. Nonostante l’appoggio degli USA al partito nazionalista, e, quindi, l’inevitabile maggioranza militare, nel 1949 il partito comunista uscì vincitore dalla guerra grazie ad una maggioranza in campo politico-sociale. Mao Zedong trasferì il suo potere a Pechino e proclamò la nascita della Repubblica Popolare cinese.

2.3 La Rivoluzione comunista russa

Allo stesso modo anche la Rivoluzione comunista russa ha tre fasi, la prima si sviluppò nel 1905, le due restanti nel 1917 e prendono il nome di Rivoluzione di febbraio e Rivoluzione di ottobre.

Le radici della rivoluzione risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, quando gli zar non riuscirono a contenere il rafforzamento delle tendenze rivoluzionarie. Il punto di svolta si ebbe quando Alessandro II, nel 1861, non fu in grado, tramite la sua politica interna, di eliminare il fattore povertà tra i contadini. Il suo progetto era quello di eliminare la schiavitù e dare vita a una grande proprietà nelle campagne. A differenza però di ciò che si sarebbe aspettato, dopo aver eliminato la schiavitù dei servi della gleba, i grandi proprietari terrieri continuarono a sfruttare le grandi masse di contadini poiché poveri e privi di diritti. Nasce così il populismo, che ha l’obbiettivo di guardare al popolo, guidato da intellettuali, studenti e giovani idealisti, che negli anni ‘70 puntava al riscatto dei contadini attraverso la rieducazione di questi ultimi tramite le masse agricole. Questo movimento politico-umanitario non ebbe successo nemmeno tra i contadini e fu destinato al fallimento. I giovani idealisti, disillusi dalla realtà, crearono organizzazioni segrete come la libertà del popolo, che erano volte al terrorismo. Nel 1881 venne ucciso Alessandro II e sostituito dal regime conservatore di Alessandro III che nel 1894 venne succeduto da quello che è noto come l’ultimo zar, ovvero Nicola II.

Nei primi anni del Novecento si sviluppano in Russia le prime fabbriche che solo ai suoi albori vede due milioni di operai i quali, non godendo di diritti politici e sindacali e vivendo in miseria, furono usati come terreno fertile per lo sviluppo del partito operaio socialdemocratico russo che vedeva in questa classe sociale una grande forza rivoluzionaria e prometteva un grande sviluppo economico orientato al socialismo. Questo partito, come si può dedurre, è di impianto Marxista-Engelista. Nel 1902 si forma, grazie all’eredità lasciata dal populismo, il partito social-rivoluzionario che lottava per un socialismo agrario in linea con le tradizioni comunitarie dei contadini russi. A fare da partito cuscinetto non vi erano i partiti liberali, che erano quanto mai deboli, e questo fece accrescere sempre più il potere del partito social-rivoluzionario fino al 1903, anno in cui il partito si divise in due: da un lato i bolscevichi, con a capo Vladimir I. Lenin dall’altro i menscevichi, guidati da Martov, contrario all’idea di un partito centralizzato e diretto autoritariamente da rivoluzionari di professione.

La prima rivoluzione scoppiò a San Pietroburgo il 22 gennaio 1905, conosciuta anche come Domenica di sangue, favorita dall’indebolimento dello zarismo e dall’aumento dei conflitti interni, a causa delle sconfitte nella guerra con il Giappone. Motivo della rivoluzione fu l’uccisione di un migliaio di manifestanti che volevano presentare una petizione allo zar. Nicola II, temendo una rivoluzione, promise un sistema parlamentare e, conseguentemente, maggiori libertà. Quando, però, dopo due mesi di attesa i risultati tardavano ancora ad arrivare, gli operai di Mosca insorsero venendo fermati bruscamente e repressi. Di conseguenza si ebbe una ineluttabile reazione.

Dal 1906 al 1914, nonostante un regime semi-rappresentativo che riconosceva parzialmente le libertà civili e politiche, i problemi rimasero la questione agraria, la povertà dei contadini e degli operai. Il regime zarista era incapace di risolvere questo problema e Petr Stolypin, primo ministro, tentò di venirne a capo con la creazione di un solido ceto sociale di medi e piccoli proprietari, tentativo che si interruppe nel 1911 con l’uccisione di Stolypin da parte di un terrorista.

Nel 1914 la Russia entrò in guerra contro Austro-Ungheria e Germania, schierandosi con la Francia e la Gran Bretagna, sperando in una vittoria lampo. Dopo alcune vittorie contro l’esercito austro-ungarico, però, arrivarono molte sconfitte, date dall’inadeguatezza, contro il forte esercito tedesco. Per via dell’inefficienza, della corruzione, dell’autoritarismo dei capi dell’esercito, delle sempre più gravi sconfitte e della fame delle masse nelle città si aprirono le porte alla seconda rivoluzione, o Rivoluzione di febbraio.

Dal 22 al 27 febbraio gli operai e alcuni reparti militari ribelli di Pietroburgo insorsero e costituirono un soviet (dal russo Совет, ovvero consiglio); il 2 marzo Nicola II abdicò e si instaurò la repubblica che dovette essere divisa tra aristocratici e borghesi, di orientamento liberale, e i soviet guidati dai bolscevichi e dai menscevichi. Al fronte la situazione si stava sfaldando, tanto che migliaia e migliaia di contadini disertavano per tornare a lavorare la terra. Fu così deciso di affidare il futuro politico del paese ad una assemblea costituente che si sarebbe riunita a seguito delle elezioni a suffragio universale. Quando tornò Lenin, capo dei bolscevichi, in aprile, a seguito del suo esilio, incentivò i soviet a prendere tutto il potere nelle loro mani, gli operai e i soldati ad imporre la pace e i contadini a impadronirsi delle terre.

Venne tentato un attacco contro i tedeschi che risultò fallimentare e venne fatto un colpo di stato reazionario che ebbe esito, a sua volta, privo di successo, per l’unione tra bolscevichi e social-rivoluzionari.

Questa vittoria diede l’occasione alla terza rivoluzione, Rivoluzione d’ottobre, di attuarsi, in quanto fece aumentare i bolscevichi all’interno dei soviet. Costituendo l’unico partito saldo di quei tempi Lenin, con l’appoggio di Trockij, il 24-25 ottobre, ordinò alle truppe rivoluzionarie di occupare le sedi del governo e stroncare le forze che opponevano resistenza. La rivoluzione fu quasi incruenta, tanta la mancanza di forza degli oppositori. Come insegna però Machiavelli nella sua opera “Il principe” il vero problema non è arrivare al potere, ma bensì riuscire a mantenerlo, e il partito dei bolscevichi riuscì in questa impresa ma non senza problemi. Di fatto, mentre i bolscevichi instaurarono un regime provvisorio, venne eletta l’assemblea costituente che vide i bolscevichi perdere con 175 seggi, su 707, vincente il partito social-rivoluzionario con 410 seggi, grazie al consenso delle masse contadine. Avendo, tuttavia, ricevuto il consenso degli operai dei quartieri e delle città Lenin sostenne che era impensabile cedere il potere alle arretrate masse contadine e ai ceti conservatori e ordinò alle Guardie Rosse di sciogliere con la forza l’assemblea costituente il 18 gennaio 1918 (prese il potere con la forza, cioè come detto da Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del partito comunista)[1].

La guerra imperversava e Lenin, supportato da Trockij, instaurò una pace con la Germania, pace che costò alla Russia grandi perdite territoriali; per via della pace molti bolscevichi di sinistra abdicarono e iniziò così, anche formalmente, il regime dittatoriale dei bolscevichi, anche sulla classe operaia. Contro gli oppositori del partito venne utilizzata la Ceka, ovvero la polizia politica.

Il governo di Lenin dovette affrontare un’altra grande avversità, la crisi economica, che però fronteggiò con grande decisione togliendo con la forza i pochi viveri rimasti ai contadini e distribuendoli nelle città e nei quartieri. Inoltre, per eliminare qualsiasi possibilità di ritorno dello zarismo nel luglio del 1918 fece uccidere Nicola II e tutta la sua famiglia.

Sebbene Lenin fosse convinto che la Rivoluzione d’ottobre avrebbe dato inizio ad una rivoluzione internazionale, ciò non avvenne e si creò la Terza internazionale, grazie ai comunisti e ai socialisti presenti negli altri paesi. Ciò non impedì attacchi da parte di potenze conservatrici esterne e dal partito social-rivoluzionario, i quali sostenevano che la dittatura bolscevica fosse in primo luogo contro i contadini e gli operai.

Malgrado fossero ora ben saldi al potere il paese era al collasso, le vie di comunicazione erano distrutte e la produzione industriale e agricola era ai minimi termini. Per via della carestia insorsero, nel 1920-1921, gli operai e, oltre a questi anche alcuni bolscevichi al potere che denunciavano una forma oligarchica di governo, il partito era, quindi, minacciato dalla sua stessa base sociale.

Per vincere la crisi economica venne creata la NEP, secondo la quale lo stato dirigeva i commerci esterni, le grandi industrie e la finanza, mentre rimetteva nelle mani dei privati il commercio interno, le piccole e medie imprese artigianali e agricole.

Nel 1924 morì per una grave malattia Lenin e iniziò una lotta di successione tra Trockij, che sosteneva il fallimento di una Russia troppo arretrata e isolata senza una rivoluzione internazionale e, quindi, invocava il rilancio della democrazia all’interno del partito, e Stalin, il quale era stato scelto da Lenin come segretario per le sue doti di organizzatore e credeva, invece, nel grande potere della Russia e nella possibilità di creare il socialismo in un paese solo.

Nel 1927 Stalin vinse grazie all’eliminazione, successivamente anche fisica, dei suoi avversari politici; pose fine alla NEP, lasciando la direzione del commercio esterno ed interno alla burocrazia statale e finse di creare una democrazia lasciando prendere vita al partito dei contadini, ma dando, di fatto, inizio ad un regime totalitario.

Come si può in definitiva notare la rivoluzione cinese impiegò la classe rurale di rivoltosi-rivoluzionari, mentre la Rivoluzione russa impiegò la classe operaia; in entrambi i casi è chiaro che le promesse di una sicura base economica e di un minimo valore politico-sociale non vennero di fatto rispettate una volta che la rivoluzione ebbe esito vittorioso.

 

  1. Il Ribelle

Veniamo ora al vero protagonista di questa indagine, il ribelle. Solamente adesso che sono state messe in chiaro le figure del rivoltoso e del rivoluzionario si può capire chi è il ribelle.

Il ribelle ha elementi in comune con il rivoltoso e il rivoluzionario, perché è colui che tenta di instaurare un nuovo ordine da sostituire a quello già presente, come il rivoluzionario, ma non deve necessariamente avere una base economica per poter instaurare il suo nuovo ordine, come il rivoltoso. Perché? Per un motivo tanto semplice quanto strabiliante: perché l’ordine che deve portare il ribelle è un ordine interiore. Cioè mentre finora abbiamo visto esempi di figure che tentano di cambiare la società quest’ultima figura si rende conto che per cambiare una società sbagliata deve prima cambiare se stesso, o addirittura si rende conto che essendo la società corrotta ed essendosi corrotto lui stesso è fondamentale che faccia qualcosa per cambiare in positivo la sua posizione, la sua situazione. Come dice Ernst Jünger “Al ribelle non è permessa l’indifferenza... Il passaggio al bosco induce a decisioni più gravi”[2]. Che cos’è il passaggio al bosco? Il passaggio al bosco è il passaggio metaforico che il ribelle deve, liberamente, fare se vuole definirsi tale; il fattore essenziale da capire è che il ribelle per fare questo passaggio deve affrontare, prima fra tutte, la paura della morte “Vincere la paura della morte equivale dunque a vincere ogni altro terrore: tutti i terrori hanno significato solo in rapporto a questo problema primario. Passare al bosco, quindi, vuol dire innanzi tutto andare verso la morte[3]. Com’è possibile vincere la paura della morte? Per rispondere a questa domanda bisogna porre l’accento su una parola molto particolare e che ai giorni d’oggi il più delle volte viene utilizzata svuotata del suo significato e del suo vigore, questa parola è: libertà; libertà perché come precedentemente scritto il passaggio al bosco deve essere fatto liberamente, perché chi deve affrontare una determinata realtà che gli comporta paura, ma, ugualmente, decide liberamente di farlo, la paura la sta già vincendo. Jünger dice “La libertà è il grande tema di oggi, è la forza capace di dominare la paura. La libertà dovrebbe essere la materia più importante da insegnare agli uomini liberi, al pari dei modi e delle forme di rappresentarla efficacemente e di manifestarla nella resistenza[4].

Ecco perché per essere un ribelle non è essenziale avere una base economica: per essere ribelli bisogna essere ontologicamente liberi. Chi oggi vuole essere ribelle per creare un ordine diverso da quello che la società propone deve fare un gesto tanto facile quanto rivoluzionario (nel senso di nuovo), deve entrare in un posto chiamato biblioteca, prendere un libro, scansando le ragnatele che per il chiuso i ragni avranno creato tra gli scaffali, leggerlo e successivamente restituirlo, tutto questo senza spendere un soldo; è, tuttavia, vero che bisogna avere qualcosa per compiere questo gesto, occorre una grande dose di libertà. Facendo questo il ribelle ha già messo a segno un colpo importantissimo contro l’ordine che gli viene imposto. “Il Ribelle non dispone di grandi mezzi di combattimento, ma sa come mettere a segno un colpo audace per distruggere armi che valgono milioni[5].

Jünger dice: “Dobbiamo ammettere che oggi è particolarmente difficile affermare la libertà. La resistenza richiede grandi sacrifici: il che spiega anche perché la maggior parte delle persone scelga la costrizione[6]. Un’analisi molto interessante a cui vorrei aggiungere una seconda parte, che va in qualche modo a completarla; ovvero, se è vero che il non voler opporre resistenza spiega anche perché la maggior parte delle persone scelga la costrizione le restanti persone scelgono la costrizione perché sono talmente preoccupate, di essere rassicurate, di sentirsi inserite nella società, che, oggi, non è altro che schiavismo mascherato, che si sono dimenticate il significato della libertà e non hanno più un pensiero critico su ciò che conta. Come cantava Giorgio Gaber nella sua canzone “Destra-sinistra”, “L’ideologia, l’ideologia / malgrado tutto credo ancora che ci sia / è la passione, l’ossessione della tua diversità / che al momento dov’è andata non si sa”[7] e, nella canzone “Si può”, canta: “Libertà, libertà, libertà, libertà obbligatoria[8].

Il Ribelle è deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo[9]. Il ribelle è disposto a fare una battaglia per la libertà e la verità, non importa quanto disperata la battaglia possa essere, il ribelle la intraprende. Giacomo Leopardi crede che l’uomo sia come la ginestra, facile da piegare e ancora più facile farlo cessare di esistere, tuttavia, non trovando un fine alla vita, crede che il suicidio non sia una possibilità; di fatto spesso si parla di titanismo in Leopardi, riferendosi proprio a questa continua lotta che conduce senza vederne una possibile vittoria. Si può quindi affermare che Giacomo Leopardi sia un ribelle? Assolutamente sì, ed è lo stesso Jünger a mettere l’accento su questo aspetto: “Sia con la sua opera sia con la sua vita, il poeta manifesta l’enorme superiorità del regno delle Muse su quello della tecnica, e aiuta l’uomo a ritrovare se stesso: il poeta è Ribelle[10].

In realtà al ribelle occorre un ultimo elemento per compiere un gesto da ribelle: non gli basta la sola libertà, ha bisogno anche di sapere a fondo chi è lui davvero. Per dirla in termini Jüngeriani “E’ effettivamente importante che chi pretende di compiere ardue imprese abbia un’idea precisa di sé[11]. La stessa cosa viene detta da Don Luigi Giussani in relazione all’uomo che vuole incontrare Dio, e, è bene starne certi, un cristiano, cattolico è sicuramente un ribelle: “Per incontrare Cristo, quindi, dobbiamo innanzitutto impostare seriamente il nostro problema umano[12], cioè è necessario capire io che sono, chi sono e cosa voglio farmene di questo tempo che mi è stato donato e che si chiama vita.

Mi sento, addirittura, di poter affermare che la libertà viene riscoperta e riacquisita solo dopo che l’io prende coscienza di sé e, per l’appunto, imposta seriamente con sé il proprio problema umano, e ciò, spesso, avviene nel momento più buio in cui l’uomo si possa trovare. Anche Jünger, ad un certo punto del suo saggio, scrive: “Quando uno cerca consiglio in se stesso, è bene che ciò avvenga proprio sull’orlo dell’abisso[13].

Troppo spesso si sente chiedere “Hai paura della morte?” e troppo spesso la risposta a questa domanda si rivela essere “Sì” e infatti Jünger scrive: “L’uomo che riesce a penetrare nelle segrete dell’essere, anche solo per un fuggevole istante, acquisterà sicurezza: l’ordine temporale non soltanto perderà il suo aspetto minaccioso, ma gli apparirà dotato di senso[14] e questo per un motivo chiaro, perché quando l’uomo riesce a penetrare nelle segrete dell’essere si rende conto che il problema non è quanto, ma come; il problema non è la durata, e quindi la salute, ma il senso, ovvero la pienezza, che importa nella vita, della vita e per la vita.

Il ribelle è una figura sempre presente nella storia, perché portatore di un problema connaturato nell’uomo, non cessare di esistere, obbiettivo del nostro tempo è quello di impedire all’uomo di sentire questa urgenza “Lo vediamo, quest’uomo, ardito stratega e pensatore, meditare sulle possibili vie e i loro sbocchi: lo vediamo condurre le macchine nelle azioni belliche; guerriero, prigioniero, partigiano nelle sue città che ora divampano, ora s’illuminano a festa. Lo vediamo, spregiatore di valori, freddo calcolatore, ma anche in preda alla disperazione quando, nel mezzo dei labirinti, il suo sguardo scruta le stelle[15]. In quell’esatto momento l’uomo si rende conto di avere una mancanza e di non sapere quale sia il pezzo mancante con cui riempire questo vuoto; questo è il desiderio, che diversamente dal bisogno eleva l’uomo sopra ogni altro essere animale, che non desidera, ma, bensì, vive di bisogni, come espresso da Silvano Petrosino in Il desiderio[16]. Oggi l’uomo confonde costantemente il desiderio con il bisogno e non desidera più, rimanendo, così, in un permanente stato di vuoto che cerca di riempire con la felicità del nichilismo gaio tipico della modernità. Non viene più ricercato lo studio o ciò che può portare l’uomo ad una vita piena, per un motivo semplice, perché è incredibilmente difficile, complesso vivere cercando di Vivere. Già Lorenzo De’ Medici scrisse Il trionfo di Bacco e Arianna che recita: “Ciascun apra ben gli orecchi, / di doman nessun si paschi; / oggi sian, giovani e vecchi, / lieti ognun, femmine e maschi; / ogni tristo pensier caschi: / facciam festa tuttavia. / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza”[17] “Ogni tristo pensier caschi”, ergo, non c’è spazio per la serietà, c’è solo tempo per il divertimento sterile di un presente incolto.

3.1 Socrate e Cartesio

Porto adesso degli esempi storici, nello specifico porto l’esempio di Socrate e Cartesio. Socrate vede l’inizio dello sfacelo della polis e decide che non può rimanere a guardare, ma diventando ribelle cerca di trovare un modo per far capire agli altri concittadini i problemi della loro società. La sua scelta è una scelta libera, inoltre davanti alla morte preferisce non rinnegare ciò in cui aveva creduto per tutta una vita e, quindi, sceglie di morire, il che fa capire che Socrate non teme affatto la morte. Socrate parte da un problema reale, non accetta che accada e basta; non è perciò fatalista e decide di agire attraverso la realtà sulla realtà. C’è poi, in Socrate, un altro elemento che contraddistingue il ribelle, ovvero la voglia di conoscere e imparare; infatti, prima di bere la cicuta (veleno che lo avrebbe fatto morire), si fa insegnare da un maestro di cetra come suonarla e quando un allievo gli chiede: “Perché imparare a suonare la cetra, se di qui a poche ore ti faranno bere la cicuta?[18] la sua risposta è: “Perché mi piace imparare[19], un piacere da cui difficilmente ci si distacca.

Il secondo esempio di ribelle è Cartesio. Cartesio è un ribelle leggermente diverso da Socrate, perché è un ribelle con derive da folle, cioè colui che fa ragionamenti che vanno fuori dalla ragione stessa; infatti, Cartesio, non accettando la realtà in cui vive decide di cambiarla, quindi sceglie liberamente di ribellarsi, per via delle sue idee non accetterà gli aiuti che i medici avrebbero potuto fornirgli per guarire la sua malattia, quindi non teme la morte ma, non accettando la realtà, decide di cambiarla tramite un’ideologia astratta. Il problema è che ciò che è astratto è anche estratto dalla società, dalla realtà e quindi tenta di cambiare il mondo attraverso, si può dire, l’immaginazione, la fantasia.

Cartesio si ribella ai confini che erano stati imposti dalla società, come Socrate del resto, e anche Jünger scrive: “Forse, proprio quando va contro le regole, il medico conferisce al rimedio che dà al malato una virtù miracolosa. Noi viviamo di questa possibilità: sfuggire alle funzioni”[20].

  1. Superare i confini

Ma è quindi sempre giusto oltrepassare i confini? In 1984, di George Orwell, se le leggi vengono infrante, i confini superati, si viene uccisi. Eppure, in quel paradigma è fondamentale non rispettare le leggi se si vuole essere nuovamente uomini, persone. È dunque giusto? No, perché se oggi si infrange la legge di non uccidere si sta commettendo un’assoluta bestialità, inteso come ciò che appartiene al mondo animale, che ti allontana dalla tua umanità. Allora quando è giusto infrangere le leggi, quando è giusto oltrepassare i confini? E quando al contrario è sbagliato farlo? È necessario muoversi in proiezione della propria libertà; ovvero se una legge non rispetta la propria libertà, se allontana dalla propria umanità, è giusto infrangere quella legge per ritornare ad essere ciò che l’uomo deve essere (1984); se, al contrario, una legge rispetta la libertà, l’umanità, infrangendo quella legge non si fa ciò che è bene per se stessi, per il proprio essere uomo, in quanto oltrepassando quel confine si arriva ad un altro paradigma, che fa credere di essere libero. Ma allora che cosa è la libertà? In questo ci aiuta Giorgio Gaber cantando: “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione[21], cioè, la libertà non è il non avere vincoli o fare quello che si vuole quando si vuole, la libertà è realizzare la propria persona all’interno di un determinato contesto che non solo aiuta a raggiungere il proprio obbiettivo, ma può anche vincolare rispetto ad alcuni fattori. Se non si metabolizza questa verità, questa realtà, e si crede che la libertà consista nel non avere vincoli, allora l’uomo, la persona, finisce per vivere da solo perché qualsiasi essere umano, avendo idee proprie, influisce sulle persone che lo circondano. Oggi in molti si ritrovano a vivere da soli, pensando di vivere con gli altri. Più volte ho parlato di libertà ricollegandomi all’umanità, quindi i due concetti sono strettamente collegati? Non solo sono collegati, ma sono correlati, perché la libertà è ciò che rende l’uomo tale; è il capire veramente la libertà che ci contraddistingue dal resto della natura. L’obiezione che potrebbe essere mossa è: non è vero perché se oggi nessuno sa più che cosa sia la libertà ciò significa che nessuno è più uomo, eppure, anche oggi, siamo tutti uomini. E invece no, oggi non siamo tutti uomini, perché l’uomo senza libertà sparisce, magari per riaffiorare successivamente, dopo aver riacquisito il senso ontologico dell’essere libero che viene acquisito, in realtà inconsciamente, quando viene posta la domanda stessa, quando inizia il cammino (1984). Finché, questo processo non si innesca, l’uomo non è più uomo, l’uomo diventa qualcosa di altro. Oggi l’uomo è diventato quello che John Locke aveva chiamato individuo proprietario. In questo senso possiamo dire che ha vinto Locke. Ma ha vinto solo lui? No, non ha vinto solo lui, ha vinto anche un’altra figura del passato, un pensatore che ha destrutturato l’Io ontologicamente per definirlo e ren

 

 

derlo un Io tutto capitalista; questo pensatore è Hume, che definisce l’Io un fascio di percezioni sensoriali che si susseguono in una inconcepibile rapidità[22], concetto perfetto per far entrare l’uomo nel paradigma di domanda e offerta del consumo dei prodotti del mercato, uguale capitalismo. Anche il ribelle Cartesio ha vinto, poiché crede che non ci sia una sola verità, ma ne possano esistere varie e quindi non c’è solidità nella sua realtà, la sua realtà è liquida perché passa da una verità all’altra senza mai averne una definitiva. La nostra società odierna, infatti, è liquida, perché gli individui creano ogni giorno verità diverse per la loro vita. Un esempio ineccepibile è l’identità di una persona; oggi ognuno si può sentire tutto e nessuno può controbattere perché altrimenti, povero ragazzo che oggi si sente un cane, soffre; e perché soffre? Ma come perché?! Perché non stai rispettando la sua idea e quindi, per il ragionare di oggi, non stai rispendo la persona stessa. C’è solo un piccolo dettaglio che viene tralasciato in questo ragionamento, che io posso criticare l’idea di una persona, anche pesantemente, avendo grande rispetto della persona che l’ha formulata. Questo non poter criticare niente porta ad una conclusione sconcertante ovvero il non poter arrivare alla verità, perché alla verità ci si arriva tramite un dibattito, ma oggi non è più possibile farne uno vero. Insomma, esistono tante verità e non esiste più laverità, ovvero la vita che ti fa crescere e che ti realizza. In sintesi, ha vinto Cartesio. Parlo di verità, realtà e vita correlandole; è giusto farlo? Sì, se si parla della verità, della realtà e della vita. Da questo punto di vista non mi sto inventando niente di nuovo, già qualcuno prima di me, circa duemila anni fa, aveva già detto: “Ego sum via, veritas et vita” “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”[23].

Giovanni Vergni per Agenzia Stampa Italia

 

[1]Come supera la borghesia le crisi? Da un lato attraverso la distruzione coatta di una massa di forze produttive [i contadini-ndr]; dall’altro attraverso la conquista di nuovi mercati e lo sfruttamento più intenso di vecchi mercati. In quale modo dunque? Preparando crisi globali e più violente, e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.”(Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, Feltrinelli, Milano, 2021, p.15).

[2]Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano, 1990, p.94.

[3]Ivi, p.76.

[4]Ivi, p.108.

[5]Ivi, p.107.

[6]Ivi, p.65.

[7] Giorgio Gaber, Destra-sinistra, in La mia generazione ha perso, GIOM, 2001.

[8] Giorgio Gaber, Si può, in Libertà obbligatoria, Carosello Records, 1977.

[9]Ernst Jünger, op. cit., p.42.

[10]Ivi, pp. 60-61.

[11]Ivi, p.95.

[12] Luigi Giussani,Tracce d’esperienza cristiana, in Il cammino al vero è un’esperienza, BUR, Milano, 2006, p.84.

[13]Ernst Jünger, op. cit., p.57.

[14]Ivi, p.58.

[15]Ivi, pp.43-44.

[16] Silvano Petrosino, Il desiderio, VITA E PENSIERO, Milano, 2019.

[17] Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco e Arianna, 1490, vv.45-52.

[18] Platone, Eutidemo, IV secolo a.C.

[19] Platone, Eutidemo, IV secolo a.C.

[20]Ernst Jünger, op. cit., p.99.

[21] Giorgio Gaber, La libertà, in Far finta di essere sani, Carosello Records, 1973.

[22] “[…] ciò che chiamiamo mente, non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni, e che si suppongono, sebbene erroneamente, dotate di una perfetta semplicità e identità.” (D. Hume, Trattato sulla natura umana, libro I, sez. IV, p.220.)

[23] Gv, 14,6.

Fonte foto: Bundesarchiv, B 145 Bild-F073370-0006 / Wegmann, Ludwig / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

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