Referendum Ungheria: quorum non raggiunto, ma è un plebiscito contro l’immigrazione

ViktorOrbán(ASI) Budapest – Il quorum non è stato raggiunto, ma il risultato è stato un plebiscito: così si potrebbe definire il voto sul referendum in Ungheria.  


Nella giornata di domenica 2 ottobre il popolo ungherese è stato chiamato alle urne per dare il proprio parere sulla tematiche “principe” che tiene banco in tutta l’Europa: la redistribuzione dei richiedenti asilo tra i paesi europei. La percentuale degli ungheresi che si è recata a votare non supera il 50%, fermandosi infatti a poco meno del 45%. Ma la percentuale di coloro che hanno votato contro la redistribuzione dei migrati anche in Ungheria è stata del 95%.

La consultazione popolare era stata voluta precipuamente dal Primo Ministro Viktor Mihály Orbán. Leader del partito nazional-conservatore “Fidesz – Magyar Polgári Szövetség” (Fidesz - Unione Civica Ungherese) e politico carismatico, Orbán viene qualificato come “l’uomo forte” dell’Ungheria e in continua controtendenza alle politiche di Bruxelles. Il suo primo mandato risale al 1998 con durata fino al 2002. Ma è nel secondo mandato che Orbán si fa conoscere per il “ribelle europeista” che è oggi. Alle elezioni parlamentari del 2010conquista la maggioranza parlamentare più solida registrata nel Paese dalla caduta del comunismo: 263 seggi sui 386 totali. Con una maggioranza dei due terzi del Parlamento, Orbán poté dare luogo ad una profonda modifica della Costituzione ungherese. Ridusse i seggi dell’Assemblea Nazionale da 386 a 199. Diede una marcata impronta conservatrice alla nuova Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 2012: dando la centralità ai tre concetti di famiglia, difesa delle tradizioni culturali ungheresi, religione cattolica. In economia, abbandonando le iniziali posizioni liberiste del 1998 – 2002, ha rafforzato il settore pubblico. Nel 2010 ha imposto una tassa sui profitti privati nel settore bancario, delle telecomunicazioni e dell’alimentare. Nel 2011 rinazionalizzò i fondi pensionistici privati per un valore di 10 miliardi di euro, destinando metà dell’importo alla riduzione del debito e un’altra metà al sostegno dei cittadini beneficiari. Ma l’azione che più fra tutte costò a Viktor Orbán una progressiva “antipatia” da parte dell’establishment dell’Unione Europea, fu la messa in discussione dell’indipendenza della Banca Centrale Ungherese. Il Governo del politico nazional-conservatore, avviò un processo di riforma della Banca Centrale che vide la sostituzione del direttore indipendente di Bruxelles con uno di nomina governativa, riaffermando l’intenzione di non entrare a far parte della moneta unica europea e mantenendo il fiorino ungherese come moneta nazionale. Nel corso del mandato la Banca Centrale fu costretta a molteplici forti svalutazioni e a realizzare finanziamenti alle imprese – indebitate in valuta estera – e agli istituti di credito. Questa “nazionalizzazione” della Banca Centrale Ungherese e un ritorno a una forma di sovranità monetaria, si può considerare come l’inizio della campagna di condanna e denigrazione dell’UE verso Orbán. Il Premier ungherese con la sua politica sovranista si è macchiato di peccato verso i “Sacri Comandamenti” del “Dio Euro”; e per questo meritevole di tutti gli epiteti che dai filo-UE sono stati coniati: “autoritario”, “illiberale”, “reazionario”, ecc…

Ma la “gara” dei biasimi e degli insulti non era certo finita qui. Durante il suo terzo mandato – iniziato nel 2014 e ancora in corso – Viktor Orbán ha iniziato un maggiore avvicinamento all'”Unione Economica Eurasiatica” (UEE) – l’alleanza economica fortemente voluta da Vladimir Putin e che vede Russia, Bielorussia, Kazakistan uniti – e alla Cina. Una scelta di politica internazionale che ha peggiorato i rapporti di forza della NATO e dell’UE nell’est Europa, e che ha inaugurato l’offesa “massima” in casa Bruxelles: Orbán era divenuto ora “Putiniano”.

Sulla scia del disastro migratorio, il Governo ungherese ha deciso di creare nell’estate 2015 una recinzione ai confini del proprio Stato per frenare l’avanzata in terra ungherese della così detta “rotta balcanica” dei migranti. Questa azione ha mandato su tutte le “furie” l’Unione Europea, additando la politica di Orbán e del suo Governo come “xenofoba”. Questa presa di posizione dell’Ungheria ha visto, poi, una reazione a catena che ha messo in seria difficoltà il vertice UE. Dopo Orbán sono arrivati altri Stati a “macchiarsi” dei respingimenti alle frontiere, tra cui degli insospettabili filo-UE decantati come nazioni progredite e democratiche dalla stessa Unione Europea. La Francia del socialista Hollande ha iniziato ad attuare i respingimenti a Ventimiglia, ripristinando de facto la frontiera con l’Italia. La emula la socialdemocratica Austria, che al confine con la Provincia Autonoma di Bolzano rimanda indietro i migranti provenienti dall’Italia, arrivando addirittura a prospettare, nel corso del 2016, un muro con il confine italiano. Nei Balcani altri si sono resi “meritevoli” della condanna di xenofobia, tra cui la Serbia e la Croazia che si esprimono a favore della costruzione di muri anche sui loro confini. Poi l’eterna discussione sulla redistribuzione dei – reali – profughi di guerra tra tutti gli Stati dell’Unione Europea, ma che non ha mai visto un concreto inizio, ripetutamente bloccata sul tema del numero di quote da ridistribuire nei vari paesi membri e che ha visto, in buona sostanza, tutti gli Stati comunitari contrari ai numeri proposti da Bruxelles. Poi la Brexit e con l’indipendenza dall’UE Londra, poche settimane addietro, ha fatto presente la sua intenzione di costruire un muro anti-migrati lungo tutto il confine con la Francia.

La politica sovranista di Viktor Orbá, come detto, ha generato una reazione a catena verso cui tutta l’Unione Europea sembra non poter far altro che rimanere inerme. Continuando ancora a condannare i “muri” come costruzioni inumane, ma sostanzialmente prendendo atto dell’inesorabile livellamento che sta subendo la sua influenza politica.

Domenica 2 ottobre, dunque, l’Ungheria ha votato. Il fatidico 50% dei votanti non è stato raggiunto, ma chi si è recato ai seggi ha chiaramente espresso il proprio parere sulle politiche di ridistribuzione che, come suddetto, hanno generato infinite discussioni senza risultato in tutta l’UE: il 95% degli ungheresi ha scelto “No”. E per ritornare al solo 45% dei votati raggiunto al referendum, va chiarito un aspetto. Da subito appresa la notizia del mancato raggiungimento del 50%, da Bruxelles si è gridato alla “non validità del voto”. I media e le maggiori testate giornalistiche si sono subito prodigati a ripetere il nuovo mantra della “non validità”. Dimenticandosi di dire una cosa, se non proprio di “ometterla”. Il referendum svoltosi non aveva una natura abrogativa, perciò il quorum evocato dai mezzi d’informazione non è né previsto né necessario. Non si era in tema di cancellare una legge – fatto questo, per cui è necessario il famigerato quorum – ma di esprimere un’indicazione sulla volontà popolare in merito al quesito. Dunque tutta la calca su una presunta irregolarità del voto è falsa e propagandistica. Comunque, per puntualizzare, in Ungheria la storia del mancato 50% non è la prima volta che si presenta. Sapete dove si è ripetuto? Durante il referendum che approvava l’adesione dell’Ungheria all’UE. Infatti lo Stato ungherese ha sancito la sua adesione allo Stato Comunitario con una consultazione popolare tenutasi il 12 aprile 2003. La percentuale raggiunta? Sempre quella del 45%. Si potrebbe parafrasare il detto “chi di accusa di non validità ferisce, di accusa di non validità perisce”.

Sicuramente il mancato quorum pesa sui rapporti interni alla politica ungherese. Il Presidente sperava in una ben superiore percentuale per coltivare i suoi futuri sogni di ricandidatura alla presidenza. Ora con questo risultato si trova fortemente attaccato – per motivi differenti – da tutte le opposizioni di destra e di sinistra; particolarmente dal partito nazionalista e sociale “Jobbik Magyarországért Mozgalom” (Movimento per un'Ungheria Migliore), movimento questo in continua ascesa nei consensi e che accusa il Governo a guida Fidesz di essere stato troppo “morbido” nei confronti di Bruxelles e che dopo il non raggiungimento del 50% chiede le dimissioni del Capo del Governo.

Il Primo Ministro ha comunque rivendicato l’enorme percentuale a favore della politica da lui promossa, qualificandola come “vittoria storica”, e assicurando che ora l’Unione Europea dovrà fare i conti con questo voto.

Al netto di tutto, del mancato quorum e del 95% degli ungheresi favorevoli, va riaffermato un aspetto che è quello e solo quello il nocciolo più importante di tutta questa storia: che la “deflagrazione” dell’Unione Europea sta procedendo a ritmo continuo. Ora non è solo più questione di qualche piccolo “Staterello” – deprecabile definizione strausata dagli eminenti politici europeisti – come la Grecia che non esegue i “compiti” richiesti e addirittura fa votare il suo popolo per stabilire se condurre o meno una politica di “lacrime e sangue”. Ora sono pure i paesi più ricchi, più importanti sulla scala politica ed economica, a dire “basta” a questo stato di cose. Ad Orbán, al di là del risultato, va riconosciuto un merito, quello di aver fatto votare il suo popolo. In questa Europa tanto spaventata dal parere popolare, arrivando fino a condannarlo quando non gli va a genio ed equiparandolo allo stesso voto popolare che nel passato ha portato alla creazione dei regimi – in questo le impietose descrizioni fatte all’indomani del Brexit sono emblematiche ed eclatanti –, Viktor Orbán si è rilevato molto più democratico di tanti strenui difensori della democrazia.

Federico Pulcinelli – Agenzia Stampa Italia

 
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