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Arturo Foà, poeta ebreo dimenticato
(ASI) Scommetto che il nome di Arturo Foà non dice molto a coloro i quali si accingono a leggere questo articolo. Non è famoso come Leone Ginzburg, o Primo Levi. Ed è proprio a lui, che per il 27 gennaio voglio dedicare un ricordo, in modo di approfondire la sua figura.

Arturo Foà nacque a Cuneo, nel 1877, sebbene molti indicassero come luogo di nascita Torino. Ebbe natali in una delle case di Via Nizza, ribattezzata poi Via Roma. Il padre era poco più che trentenne quando sposò la giovanissima Signora Estella. Questi, aveva un piccolo impiego a Cuneo, dove viveva con la madre e le sorelle. La sposa invece, era torinese, ed il loro matrimonio fu un'unione ideale per il vicendevole affetto dei due coniugi.

Il piccolo Arturo iniziò a Cuneo i suoi studi nella scuola elementare del maestro Bassignano, un buon vecchio che insegnava matematica, grammatica e storia. Presa la licenza elementare, il Foà entrò nel ginnasio Silvio Pellico, dove fu presto seguito da Emilio, e compì tutto il corso inferiore e parte della quarta ginnasiale. Dovette trasferirsi perché il padre cambiò lavoro, accettando un posto alla Società di Assicurazioni “La Venezia”. E questo fu il primo distacco da un mondo di affetti e di abitudini molto doloroso per il giovane Arturo. Giunto a Torino, il giovane completò il corso ginnasiale e fece il corso liceale nel Regio Ginnasio – Liceo Gioberti. Anni che non furono affatto lieti, nelle cinque piccole stanze di Via San Francesco da Paola, composti da ristrettezze e tormenti, che il poeta ha ricordato in un verso che grida ancora:

Tu lungo le strade pel cibo dei figli, o mio padre!

Era un addio ai sereni giorni della prima giovinezza cuneese. Ed il poeta non sarebbe più tornato, per molti anni, nella città natia. Vi ritornerà solo a ventun anni, già laureato, per una conferenza al Teatro Toselli. Questa ebbe così successo, che il Sindaco, dopo il banchetto offerto dal Municipio all'oratore concittadino, volle recarsi personalmente ad esprimere la sua ammirazione alla madre, la quale, assieme al padre e al secondo figlio, aveva seguito il primo in questa sua giovanile affermazione.

Arturo Foà fece ritorno a Cuneo per commemorare, qualche anno dopo, Giosuè Carducci. Accolto con festose accoglienze, era divenuto uomo noto e conferenziere applaudito, nonché poeta salutato con lusinghiera simpatia dalla critica.

Come si è detto, il letterato studiò al Liceo Classico Gioberti di Torino, in maniera vivissima. Il piccolo studente scrisse novelle e versi, abbozzi di drammi e di romanzi. Manifestò subito attenzione per due punti di riferimento che sarebbero divenuti i suoi ideali di vita: Mazzini e Foscolo. La sua fama di gran scrittore si diffuse con una rapidità fulminea nelle scuole. Non potè mancare la consacrazione di «valente nel comporre». Egli aveva persino mandato un articolo di carattere politico – letterario alla Sentinella delle Alpi, il quotidiano di Cuneo fondato e diretto da Tancredi Galimberti, celebre avvocato e non ancora Ministro e Senatore del Regno. Il giovinetto attendeva trepidante la risposta. Un mattino, uscendo a mezzogiorno dal Liceo, il padre gli corse incontro sorridente con una lettera del redattore – capo del giornale, che giudicava splendido l'articolo inviato e ne annunziava la prossima pubblicazione! Al Liceo, la licenza d'onore gli fu negata dal professore di matematica, che non volle in nessun modo dare il voto necessario, affermando che il Foà disprezzava l'algebra e la geometria. Ma non fu di certo il cruccio del poeta. Un grande desiderio che dominava il giovane all'ingresso nella Facoltà di Lettere dell'Ateneo torinese, era per lui l'essere allievo di Arturo Graf. Il giovane aveva già cominciato da tempo a seguire la figura del Professore, seguendo il fascino ch'essa emanava.

L'amicizia tra i due nacque all'Università, e Foà rimase sempre grato al maestro. Nel professore amava la sensibilità acuta, la raffinata sapienza artistica e quelle speculazioni teoretiche, quel senso della vita universale che lo innalzavano rispetto ai colleghi, come se in lui fosse un poco dell'ignoto spirito diffuso nelle forme e nelle sostanze del mondo. Fu proprio Graf che fece deliberare la laurea a pieni voti al caro allievo per una tesi sul Foscolo, embrione di uno dei suoi più pregevoli studi critici. E d'allora tutte le manifestazioni della giovanile attività artistica di Arturo Foà portarono il segno della presenza del Graf.

Quest'ultimo infatti, non era solo un poeta, come il Foà, bensì un maestro vero e proprio. Sapeva leggere e giudicare generosamente. E pur percependo un diverso orientamento morale ed intellettuale dell'allievo, quando il giovane pubblicò il suo primo volume completo di liriche, Le vie dell'anima, il Graf gli scrisse una lunga lettera traboccante di affetto ad ammirazione. E quando il Graf morì, Arturo Foà parlò dinanzi alla sua bari nel cortile dell'Università. Vi è, in quella commemorazione, una pagine che definisce chiaramente la posizione del poeta di Vie dell'Anima e di Fiumana nei confronti del poeta di Medusa.

Dopo l'esame di greco finale, Foà si laureò a pieno voti. Da quel momento terminò la vita studentesca del poeta. Pubblicò L'amore in Ugo Foscolo presso l'editore Clausen ed iniziò una collaborazione letteraria nel Caffaro di Genova, continuando quella presa col quotidiano lombardo L'Alba. Concorse ad una cattedra di letteratura italiana per i Licei. Ottimamente classificato, rinuncerà per non abbandonare la famiglia, dopo la vittoria di un altro concorso, all'insegnamento nelle scuole pubbliche. Divenne maestro in un istituto privato, per necessità e convenienze famigliari. Foà si legò nel lavoro temporaneamente a Tullio Giordana, con il quale aveva fondato un giornale letterario chiamato Fiamma, sebbene ebbene pochissima vita.

Abbandonato il giornalismo letterario, Foà cominciò la sua vera e propria carriera di scrittore. Sono di quei tempi le novelle I nostri cuori, le canzoni Per un amore pubblicate dallo Streglio, ed un lungo romanzo: Dopo le nozze, non pubblicato.

Intanto, dopo le prime conferenze a Torino, il poeta venne chiamato a parlare a Milano e a Genova. Fu a Milano ch'egli fece leggere la sua prima commedia, La figlia, al Bevacqua, direttore della “Scena di Prosa”, il quale a sua volta volle che pure Simoni giudicasse bene il lavoro.

Mentre insegnava in un Istituto privato, venne bandito un nuovo concorso per una cattedra nei Licei. Il Foà riuscì terzo nella graduatoria, ma anche in quel caso sarebbe stato necessario lasciare la famiglia, che necessitava sia del suo aiuto economico, che della sua presenza. Rinunziò definitivamente all'insegnamento pubblico in qualità di professore di ruolo, accettando un incarico di letteratura italiana nel Regio Istituto Tecnico Sommeiller di Torino. Per dieci anni, insegnò lettere nelle classi di ragioneria, fisica e matematica.

La grande prova del poeta, inutile dirlo, fu allo scoppio della grande guerra. Egli, decisamente e fieramente interventista, usò la sua parola e la sua penna per una politica di forza e di prestigio, protese alla battaglia e alla vittoria. Con questi versi salutò subito l'intervento:

 

Passano a notte nelle vie deserte

delle buie città le cavalcate

aeree dei morti avi guerrieri.

 

Li vedi tu, con gli elmi e con le spade

sui bianchi taciturni palafreni

e vanno con il vento e con le stelle.

 

Dormirono per tanti anni nell'arche

profonde sotto i monti e lungo i mari;

la guerra li risveglia al ferro e al fuoco.

 

E vanno all'implacabile battaglia,

essi, la storia, nelle grandi aurore

balzante all'avanguardia della vita.

 

Tuttavia, il canto fu presto accompagnato dall'azione. Arturo Foà vestì la divisa di soldato, e due mesi dopo andò per un breve periodo presso il passo del Tonale. Fu presidente del Comitato Pro Combattenti, al quale avevano aderito le personalità più in spicco per l'epoca, e la presidenza onoraria era della Regina Margherita. Ancora, è d'obbligo leggere le sue liriche in un'ottica solamente nazionale, campione di un patriottismo tra i più puri ed elevati, donando tutto se stesso alla propaganda.

 

Egli è dinanzi al nemico:

 

T'amo, o morte, nei lugubri silenzi

in cui si placa l'ànsito del rosso

fragore tra gli steminanti acciai.

Creatore titanico, il pensiero

riplasmerà sul baratro i destini

e squillerà da un culmine le diane.

Aeroplani italiani si gettano su navigli austriaci:

 

Lampi nel sole, vortici nel sole,

ed i navigli furono uno schianto

precipitoso in porpora di fiamme.

Noi non gridammo, non gridammo: Italia!

Noi fummo tutti i secoli d'Italia

immobilmente attoniti nel cielo.

Un colonnello è caduto:

 

Lo seppellimmo coi pugnali alzati;

niuno parlò; vicino alla sua testa

piantammo una bandiera crivellata.

Ed ancora, pochi poeti, d'Annunzio incluso, cantarono la guerra in una così plastica e dura potenza. Ricordiamo, a titolo cronachistico le seguenti opere: Nella battaglia, Tre sere sul Piave, e la lirica Mai più. Quest'ultima, così mirabilmente umana, è piena della sensibilità del Fante. Questo letterato, che dal Montello al Piave provò sulla sua pelle la guerra, tornò, come reduce, alla sua casa. L'esperienza lo aveva portato a seguire la strada dei reduci e dei combattenti, che, di lì a poco, si sarebbe identificata col Fascismo. Scrisse articoli per il Popolo d'Italia di Mussolini, ed imboccò la strada del Partito Nazionale Fascista.

Tuttavia, il Foà non sostava nel suo lavoro d'arte. Mentre la guerra dura e Prometeo sono del 1917. Nel '19 uscirono: Dal Tonale all'Adriatico e Vortice, scritto in tre settimane. Dal '19 al '30 escono: Andrea Sartori, Favola dell'amore e della morte, Lauri, Arturo Graf e Giovanni Pascoli, Nell'arco di fuoco. Collaborò attivamente con il quotidiano fondato da Mussolini e a riviste straniere. Ed in questo periodo, si situa la sua più alta e consapevole maturità, che confluì in un gettito di opere, dal 1931: Fiumana, Per me e per voi, Uomini in piedi, I sette giorni di Uno, Eterni vivi. Né va dimenticata quell'opera di propaganda intellettuale e politica uscita nel '31: L'Italie en marche, che fu definita «il primo contributo letterario all'universalità letteraria del Fascismo».

Arturo Foà scrisse per la morte di Arnaldo Mussolini, un canto chiamato Per un figlio e per un padre, in cui immaginò con una sorta di trasfigurazione lirica che l'anima del Padre salisse verso l'anima del figlio Sandro. Per ultima, per non affaticare il lettore, citiamo il Canto dal Palatino, che riassume in una sintesi personale, la storia d'Italia dominata nei secoli dalle figure di Dante e Mazzini, e chiudeva con l'apostrofe al Duce:

 

O tu che affronti il cammino

con occhi di promèteo combattitore!

ché Tu lo vedi un mattino

nuovo nella millenne Europa e lo vuoi

dono di Roma al turbine dei popoli.

Tu! pilota del sogno del mondo

all'ora che il nostro mistero

umano infine redima

dal tragico urto dei cuori

all'ora suprema di Roma

che il grido dei trionfatori

del sangue riscuota del canto

del trionfante pensiero.

Sembra apparentemente assurdo, ma questi versi sono stati scritti da un cittadino di fede israelitica, che si definiva l’«italiano ebreo fascistissimo» che è anche «l’umile soldato». E anche quando il Governo Fascista emanò le ingiuste, infami e persecutorie leggi razziali, Foà non cessava di riporre la sua venerazione nel Duce, al quale si rivolge personalmente un’ultima volta nel 1941, rimpiangendo di non poter dare «la sua parola e, se necessario, il suo sangue alla santa causa», ma riaffermando la sua «antica incrollabile devozione». Un paio d’anni più tardi Arturo Foà venne catturato ed inviato ad Auschwitz, compiendo il suo ultimo viaggio assieme a Primo Levi - un giovane laureato in chimica. Levi sopravvivrà ad Auschwitz, e divenne il testimone della sua eliminazione. Morì deportato nel 1944.

Arturo Foà è stato dimenticato forse per i suoi trascorsi interventisti e fascisti. Eppure, la sua opera letteraria meriterebbe di essere totalmente riscoperta. Ecco un proposito interessante per questo 27 gennaio 2013.

 

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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