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Accadeva 70 anni fa: la celebrazione dei grandi umbri

(ASI) Il manifesto scelto dalla Confederazione dei Professionisti e degli Artisti per la Celebrazione dei Grandi Umbri, che si svolse dal 12 settembre al 4 ottobre del 1942, recava sullo sfondo del grifo perugino una spada inclusa in un esile e chiaro segno di croce. La sintesi, anche se non completa, riassumeva efficacemente gli elementi principi ed in apparenza contrastanti dell'Umbria e dei suoi Grandi, che vennero rievocati settant'anni orsono. Santità e guerra, ascensioni mistiche, visioni, macerazioni e lotta di “condotte”, assedi e stragi, sangue. Tutte immagini che volevano esaltare ed evidenziare l'animo umbro, così mistiforme.

La croce s'illuminava di due grandissimi nomi, di due potenti figure di Santi: Benedetto da Norcia e Francesco d'Assisi. Ed il diario celebrativo, difatti, s'apriva con la rievocazione del Patriarca d'Occidente il 12 settembre 1942 a Perugia, con un discorso dell'allora Ministro dell'Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, e si chiudeva ad Assisi il 4 ottobre con una cerimonia religiosa e con un'omelia del Card. Della Costa nella triplice Basilica francescana, in onore del Protettore d'Italia. In questo arco rievocativo, breve di tempo, ma denso di figure, per eventi e per ricordi di storia e per contributi alla formazione dei destini d'Italia, si inseriscono ancora altre creature dedicate interamente alla fede, sebbene meno imponenti di Benedetto e della sua nuova e tutta romana Regola monastica, e meno miracolosamente vicine a Cristo come Francesco. Esse sono Rita da Cascia, l'umile agostiniana dello sperduto villaggio di Roccaporena sull'Appennino, la santa dei miracoli, del corpo incorrotto ed incorrompibile, che ricevette da Gesù il dono sublime e tremendo di una spina della sua corona; Angiola da Foligno, una delle più illuminate e liriche mistiche del Trecento, di cui sono documento le Visioni e Consolazioni, opera non soltanto letteraria, di dolore e di speranza; Chiara degli Scifi, la prima delle povere dame, che “per amor di povertade”, abbandonarono le ricchezze, gli agi e le dolcezze della vita per seguire Francesco.

La spada era brandita da una teoria corrusca di uomini che, capitani di ventura, assoldati, arditi e sprezzanti d'ogni rischio, e talora, superficiali e disinvolti nelle regole del combattere e della pietà, si riconoscono e si riassumono a mezzo del Quattrocento nel maestro geniale ed insuperato di Braccio Fortebraccio, il creatore della milizia braccesca, che, senza necessità di ampliamenti celebrativi, ha spunti di originale modernità. Era un piccolo esercito, che, sebbene piccolo, aveva quadri gerarchici irreprensibili, e forse queste due particolarità costarono a Braccio la tragedia, la sconfitta e la morte ad Aquila – con una sua unità regionale, con sistemi e velocità di marcia e assalto. Braccio riuscì a costituire un suo dominio dell'Italia centrale, ma si mise contro il papato e dovette soccombere. Ma se il regno era perduto, la tradizione del capitano rimase ancora per anni ed anni, ancora nei momenti dell'impeto il grido era: “Braccio, Braccio!”, e, morto il signore, a lui si sostituì l'allievo Niccolò Piccinino, perugino, il quale, alla forza fisica e alla salute che non vantava, seppe sostituire l'ingegno astuto e la conoscenza intelligente dell'arte della guerra dell'epoca.

Se la vita del Fortebraccio si può dire in un certo senso, la stessa dell'Italia per vent'anni, dell'azione del Piccinino, esempio raro di fedeltà ai Visconti (e dopo di lui lo saranno i figli), sono piene le cronache della prima metà del sec. XV. E così, dalla milizia braccesca esce pure Erasmo da Narni, il Gattamelata, che solo nella tarda età, e proprio in lotta contro l'antico collega conterraneo e maestro, il Piccinino, troverà finalmente la gloria, e spento, avrà la ventura, per pietà filiale, di isprare la grande arte di Donatello.

Queste erano le espressioni della croce e della spada: e il panorama della rassegna, sebbene breve, si faceva più ampio, si allontanava e si avvicinava nel tempo, da Roma al '42, in un'epopea di arte, di grandezza e di artisti.

E' la poesia di Properzio, l'elegia fatta di risonanze delicate, di echi indistinti e lontani, di nostalgia e di amore, e l'arte dura e fiera delle storie di Cornelio Tacito, è il colorito mondo ciarliero, bighellone, imbroglione, innamorato, ingenuo di Maccio Plauto, è la poesia strana, di indubbia bellezza, profondamente espressiva di Jacopone da Todi che dà inizio con la sua lauda al dramma sacro, indipendentemente dal dramma liturgico, è il vescovo Federico Frezzi, riecheggiatore di Dante nel “Quadriregio” e costruttore di limpidi versi, è l'umanesimo di Giovanni Pontano in nobile ricerca di una difficile ma non irraggiungibile perfezione artistica che va dai “Juvenilia” alle “Neniae” ai “Partenopei”, è infine Alinda Bonacci Brunamonti, che, fino al secolo scorso – morì infatti nel 1903 – ha mantenuto in linea di dignità letteraria la tradizione poetica umbra.

E', ma la santità luminosa la fa quasi trascurare, la poesia volgare e latina del Serafico, del cantore delle lodi di Dio nelle Creature in quel Cantico che ha il mirabile movimento iniziale simile a quello della seconda Epistola: Omnipotens, aeterne, iuste et misericors Deus.

L'arte, a parte la poesia, ha uno sviluppo in Umbria che può essere considerato tipico, se non addirittura strano: continuità sempre viva nell'architettura, esplosione primaverile nella pittura, assenza o quasi nella scultura – uniche buone eccezioni i Danti, padre e figlio, e migliore lo Scalza – contributo ampio nella musica nei tempi postfrancescani al formarsi e al delinearsi dell'ars nova e silenzio fino a Francesco Morlacchi ed a Luigi Mancinelli, mentre Bontempi, Falchi, Abatini ed altri non sono che nomi minori. L'architettura si orna dei nomi di Matteo Gattaponi, di Galeazzo Alessi, di Giuseppe Piermarini, di Ippolito Scalza e di Guglielmo Calderini. Il primo è biograficamente non molto noto, ma della sua arte, che nella seconda metà del Trecento ha ardimenti di una romanità tra l'imperiale e la michelangiolesca, sono prove indubbie: il Collegio di Spagna a Bologna, il Chiostro di Santa Giuliana a Perugia, il Ponte delle Torri e la Rocca di Spoleto, il Palazzo dei Consoli di Gubbio. Dell'Alessi, posteriore di due secoli, parla l'architettura di Genova – ove egli ha creato il Palazzo signorile di città e il Palazzo di villa – rinnovatore geniale di un'edilizia, mentre dell'arte di Giuseppe Piermarini – lasciando alle spalle altri due secoli nei quali si è inserito Ippolito Scalza, architetto e scultore – è testimonianza a Milano, dove già l'Alessi aveva lasciato S. Vittore al Corso e Palazzo Marino, nel Palazzo Belgioioso, nella Villa di Monza e nel Teatro alla Scala. E con molta opportunità, durante le celebrazioni, i due grandi artefici oltre ad essere ricordati in Umbria lo sono stati a Genova e a Milano.

Ultimo nel tempo è Guglielmo Calderini, spentosi a Roma nel 1917. Del Calderini è il Palazzo di Giustizia a Roma. Concezione ampia, solida, anche se suscettibile di molte discussioni. E' stato un artista tra i più personali di un momento della storia artistica italiana.

La pittura umbra si accende e si spegne come una fiamma, si svolge come una preghiera cantata: è pittura fresca, soave, mattinale dei cieli trasparenti che si incurvano sui monti rotondi e sui piani verdi. E' la pittura che si esprime con il Perugino, con il Pinturicchio e con l'Alunno, tre maestri di diversa statura, intendimenti e personalità, ma tutti riassumenti i vari caratteri della scuola umbra: soavità, dolcezza, freschezza di atmosfera di Pietro Vannucci, maestro di Raffaello, fantasia decorativa, versatilità e capacità narrativa in Bernardino di Betto, tormento della ricerca dell'espressione e del significato della forma in Niccolò di Liberatore. Accanto a questi maestri, prima e dopo di loro, una serie numerosa ed insigne di pitture da Nelli, al Bonfigli, all'Ingegno, agli Alfani. Ma morto il Perugino, la preghiera è tutta detta, e la scuola illustre e bellissima, non ha la forza di aggiungere nuova bellezza a quella già espressa, anche se fino al 1942, anno della mostra celebrativa, la pittura umbra abbia avuto ed abbia nobili e degni artisti.

Per la musica si è accennato al nome di Francesco Morlacchi: egli agì sopratutto fuori d'Italia, in Sassonia, e non solo per questo è da considerarsi un'artista interessante. Delle sue molte opere, delle sue pagine di musica religiosa ben poco di vivo è rimasto oggi, ma nel primo Ottocento il Morlacchi rappresentava degnamente l'Italia all'estero, e anzi, con una passione ignota allora nel nostro Paese, rivalutava e glorificava il patrimonio sinfonico tedesco di Bach e Beethoven. Tentava, ed anche in questo campo era un estraneo per l'Italia del suo tempo, di dare ad alcuni suoi melodrammi quell'unità di sviluppo che solo più tardi Wagner conquistava.

La scienza del diritto che nell'Ateneo, come si accennerà più avanti, ebbe numerosi cultori veramente insigni che si succedettero nell'antichissima cattedra. Uno degli esponenti più grandi è il perugino Baldo degli Ubaldi, vissuto nel secolo XIV, uno degli cultori di dottrina e di originalità della vecchia scuola dei commentatori che già in Bartolo da Sassoferrato, altro docente dello Studium di Perugia aveva avuto il suo maestro.

La rassegna degli umbri, celebrati per volere del Capo del Governo dell'epoca, si concludeva con i nomi di Nerva e di Orazio Antinori: l'uno della Roma imperiale, l'altro uomo del Risorgimento, combattente della difesa della Repubblica Romana, esploratore, guidato dal destino lungo le strade del Mar Rosso e dello Scioa, dove presso Addis Abeba è rimasto ad aspettare quelli che avrebbero compiuto la sua opera.

Collateralmente alle celebrazioni, avute luogo un po' in tutti i centri dell'Umbria – Perugia, Terni, Assisi, Spoleto, Foligno, Narni, Spello, Amelia, Orvieto, Todi, Gubbio, Norcia – erano state allestite alcune interessantissime mostre che dimostravano l'apporto dell'Umbria allo sviluppo civile d'Italia. La prima di queste rassegne era quella dell'arte della stampa, allestita nella suggestiva sede di Palazzo Trinci in Foligno, città che aveva ben diritto di ospitare una mostra del genere per il contributo dato alla stamperia del Quattrocento ad oggi: basti pensare al De bello italico adversus Ghostos de l'Aretino, edito da Emiliano degli Orfini nel 1470 ed alla prima edizione – prima del mondo – della Divina Commedia di due anni dopo. La mostra aveva un ordinamento, secondo i centri regionali di produzione tipografica e dal primo esemplare, glorioso e prezioso, dal poema dantesco, giungeva ai tempi dell'epoca fascista.

A Perugia invece, nella sede settecentesca dell'Università Italiana per gli Stranieri, veniva approntata la mostra della maiolica umbra. Gubbio, Gualdo Tadino, Deruta hanno lanciato nei secoli orme di grande valore in questa arte della pittura su terra e del forno. Da Mastro Giorgio Andreoli da Gubbio – che nel sec. XV rinnovava la tecnica della maiolica con il fascino e col segreto dei mirabili riflessi e con un segno che, talora non è più decorazione, ma pittura – la ceramica in Umbria ha rappresentato una fonte ricchissima di esperienze, di armonie formali e conquiste. Ancora oggi, tanto nei centri tradizionali, quanto in altri, la produzione artistica continua cercando sempre nuove forme, impasti di colori, armonie decorative, senza trascurare i tipi consacrati da secoli di successo.

La mostra accoglieva non più di trecento pezzi, scelti tra i prodotti delle fabbriche maggiori e minori, e aveva una sezione di grande interesse dedicata ad una rassegna storica che si spingeva ai tempi più lontani, oltre Mastro Giorgio.

Altra mostra perugina era quella dell'antico Ateneo, sorto negli ultimi decenni del Duecento, ad iniziativa del potente e florido Comune. Il suggello ufficiale non tardò a venire, sicché si ebbero da Clmeente V, nel 1308, la dichiarazione di “Studio Generale”, da Giovanni XXII, nel 1318 e nel 1321, la facoltà di adottare in Diritto, in Medicina e nelle Arti; dall'Imperatore Carlo IV, nel 1355, tutte le prerogative di cui godono gli Studi per concessione imperiale. Grandi nel tempo i maestri: Jacopo da Belviso, Cino da Pistoia, Bartolomeo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi nella scuola del diritto; Gentile da Foligno, Bartolomeo da Varignana, Alessandro Pascoli, Luca Paciolo, Giuseppe Neri per la medicina e le scienze. Ai gruppi di discipline impartite – giurisprudenza, medicina, teologia – corrisposero i fiorenti Collegi dei Dottori: il Collegio dei Legisti, quello dei Teologi e quello dei Medici, Filosofi ed Artisti che assunsero un'importanza di eccezionale valore di dottrina tanto che regnanti e governi ne richiesero spesso consigli e pareri.

La mostra storica, aperta nella sede dell'Università degli studi, raccontava panoramicamente la storia di questa nobile istituzione multisecolare che da oltre sei secoli e mezzo è stata centro inesauribile di sapere e di cultura: vi erano bolle papali, documenti, stampe, ordinanze, ritratti e cimeli a testimoniare la vita universitaria perugina.

Assieme a quelle rassegne principali erano allestite, a Perugia, la Sindacale Umbra di pittura, scultura e bianco e nero, una retrospettiva di disegni di Guglielmo Calderini ed una mostra sanitaria a Foligno. In quest'ultima località, ve n'era anche una di disegni e progetti architettonici, di Giuseppe Piermarini. Tutto questo accadeva settant'anni fa, in pieno conflitto mondiale.

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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