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Mito Imperiale ed Universalismo di Julius Evola
(ASI) Il presente articolo, rivisitato ed introdotto dal sottoscritto, appartiene ai Quaderni della Giovane Europa, l'Organo del Combattentismo Universitario Europeo, nel quale vi scrivevano, ispirati dall'idea centrale di “comunità europea”, tutti gli universitari del continente, nei loro aspetti politici, culturali, economici e tecnici. L'editore aveva chiamato a collaborare chiunque rappresentasse: la cultura, la storia, la filosofia, l'arte, le scienze mediche e naturali, politiche ed etnologiche, di teologia e di geopolitica, d'economia e di tecnica, di giuristi e pubblicisti.
Evola ha trattato, nel caso, uno dei suoi temi preferiti. Va contestualizzato al periodo delle vittorie dell'asse, del profilarsi di un'unità europea, nel 1942. Come precisato i Quaderni della Giovane Europa, oggigiorno divenuti introvabili, a causa della damnatio memoriae che ha fatto sparire tutto ciò che non fosse confacente al pensiero dominante post – bellico, avevano il compito di riunire tutti coloro i quali professavano un ideale di stampo europeista, in particolare nella gioventù.
Il compito era la difesa della tradizione di civiltà europea e lotta per le idee nuove dei popoli giovani. I forti ponti gettati dal comune spirito europeo al disopra di tutti i confini statali, formavano il vincolo di tale cameratismo genuino, ridestato dalla lotta per la libertà del continente. Un concetto elevatissimo, al quale si è arrivati solo verso il 1942.

Se ricordiamo infatti, il Fascismo italiano si è sempre fatto interprete, anche tramite pubblicazioni come AntiEuropa (alla quale collaboravano Ezra Pound e Julius Evola, nonché Berto Ricci) di un sentimento anti – europeista, ma non in senso geografico, bensì contro quell'Europa giacobina e massonica, che è palesemente toccabile ai nostri giorni. Lo stesso nazional – socialismo, per bocca di Rosenberg, l'ideologo del  partito, parlava in questi termini: “Il nazional – socialismo è oggi più vivo che mai nei secoli precedenti (…) e mostra un volto diverso. Questa diversità ha le sue radici in specifici caratteri popolari. Penso che il modo in cui un popolo plasmi la sua idea di nazionalismo, rappresenti il fatto cruciale, storico e culturale nonché politico della storia Europa”.
Si parlava di Europa delle singole nazioni, non di continente unificato. Tutto ciò, almeno, sino all'inizio della seconda guerra mondiale, quando prese piede l'idea di un'Europa unificata, ricordiamo dopo l'Asse Roma – Berlino, sotto l'egida italo – tedesca.
Anche in questo caso tuttavia, vi sono da riscontrare delle diversità. Il pensiero di elementi come Baldur von Schirach, Ministro della Gioventù del Reich, era di un'Europa italo – tedesca, a cui si sarebbero uniti tutti gli stati minori in un'ottica comunitarista. Il pensiero di Himmler e delle SS, andava verso la direzione di un Grande Reich germanico, anziché di un enorme blocco continentale, come avrebbero voluto Goebbels e di Von Ribbentrop.

Tutto ciò, non impedì affatto le iniziative di stampo europeista, dapprima italo – tedesche, poi aperte alle circa 14 nazioni alleate al Tripartito. Degli esempi, sono i seguenti: il Congresso degli Scrittori Europei dell’ottobre 1941, quello degli Studenti e Combattenti europei tenutosi a Dresda nella primavera del 1942, nonché a Venezia un congresso dei giornalisti europei che ebbe un seguito a Vienna nel giugno 1943). Il Congresso dei Lavoratori Europei tenutosi a Berlino nell’ottobre 1943, quello sulla politica sociale tenutosi a Bad Salzbrunn nell’aprile 1944 e soprattutto il Congresso della Gioventù Europea del settembre 1942 tenutosi a Vienna sotto la presidenza di Baldur von Schirach in cui si fondò una Lega Europea dalla Gioventù.
Inoltre, non dobbiamo trascurare le Waffen – SS, riconosciute da Moreno Marchi in Europa Europae, come il primo esercito volontario europeo, con combattenti che provenivano dall'Azerbaigian ai pellerossa americani. Difatti, se nel periodo bellico la Germania nazional – socialista ha conosciuto più un richiamo internazionalista, la Russia di Stalin ha visto più un richiamo nazional – patriottico, dove i cittadini erano chiamati a combattere per la Santa Madre Russia contro l'invasore.

Tutto ciò, passando per giganti come Degrelle e Larochelle, Brasillach e Papini (celeberrimo il suo Italia mia, monumento all'Italia – Europa), nonché Evola e Giselher Wirsing. Quest'ultimo, reporter per Signal, il Life europeo stampato in quasi tutte le lingue dell'Asse, scrisse magnifiche pagine sull'Europa e sulla sua gioventù sino alla fine del 1943. In questo contesto si situa il Barone Julius Evola, inetnto ad edificare “un impero europeo basato sull’affermarsi di una nuova gerarchia che avrebbe guidato un’alleanza di quelle nazioni che avessero ritrovato il principio organico dello stato”. Gli uomini e Le Rovine sono illuminanti da questo punto di vista. Purtroppo, con la finis europae, la colonizzazione americana, e la fine del sogno di questi intellettuali europei, nonché dei soldati della nuova Europa, tutto questo patrimonio che possiamo definire “euro – fascista” è scomparso. Spetta a noi riscoprirlo.
Idea imperiale e universalismo

Chi si ponga seriamente il problema del nuovo ordine europeo scorgerà sempre più chiara l'importanza dell'energia rivoluzionaria insita nell'idea del grande spazio e dello spazio vitale. Invece di “grande spazio” preferiamo tuttavia usare il termine “spazio imperiale”, principalmente per escludere l'opinione che per il nuovo ordine abbiano più importanza fattori materiali che non un'idea e un diritto superiore di dominio. Uno “spazio imperiale” implica naturalmente uno “spazio vitale”; può tuttavia estendersi oltre i confini di questo, sia in ragione di considerazioni particolari, per esempio d'ordine militare e strategico, sia per influenze indirette o per rapporti di affinità o d'elezione, che possono indurre nazioni minori a raggrupparsi intorno ad una “nazione imperiale”.
Ma non è nostro proposito analizzare qui il concetto generale di grande spazio e di spazio imperiale; vogliamo invece considerare quel suo carattere speciale per cui esso ci conduce ad oltrepassare sia il mito nazionalista, sia il mito universalista.
Quanto al mito nazionalista, in avvenire la sua validità dovrà venir limitata sotto due rispetti. In primo luogo in quanto nessun popolo può assumere ed esercitare una funzione egemonica superiore, ove non si elevi al di sopra della sfera degl'interessi e dei vincoli particolaristici. In secondo luogo le piccole nazioni debbono tornare ad avere la sensazione che esiste una subordinazione la quale non significa per nulla “asservimento”, di cui anzi si può andare orgogliosi, giacché significa venire accolti in una civiltà più vasta e permette di partecipare ad un'autorità più alta e potente. Si pensi a situazioni storiche come quella del Sacro Romano Impero, i cui sovrani rivestivano un'autorità e un ufficio che erano diversi da quelli loro spettanti in quanto prìncipi di un dato popolo; e dove poteva accadere che qualche popolo chiedesse di sua iniziativa d'aver l'onore di venire aggregato alla comunità, più che nazionale soltanto, determinata dal simbolo dell'Impero.

Quanto al secondo punto – ravvisare cioè nello spazio imperiale non solo il superamento di un nazionalismo ristretto, ma anche del mito universalistico – va notato che qui non si discorre di uno “spazio imperiale”, ma che anzi bisogna pensare ad unità varie, determinate da idee e tradizioni particolari, unite tuttavia in una cooperazione solidale. Soltanto con quest'idea viene manifestamente superato quell'universalismo, sia nella sua forma utopistica di “impero universale” , sia quale universalismo basato in modo giuridico – positivistico sull'idea di quei princìpi razionali universalmente validi e impegnativi. Lo spazio imperiale, d'altra parte, non va concepito come unità rilassata, bensì come un vero organismo, determinato da limiti precisi e imperniato su un'idea, di cui compenetrano tutte le forze in esso raccolte.

Se lo spazio imperiale non può costituire una formazione chiusa, ma assumerà la forma di ordinamento dinamico, tuttavia anche qui bisogna pensare sempre a una determinata legge di sviluppo e a certi valori fondamentali che ne formano il principium individuationis. L'idea dello spazio imperiale, specialmente per il suo carattere organico e vitale e per le sue necessarie premesse geopolitiche, si contrappone a quello che vorremmo chiamare “imperialismo empirico”, di cui l'Inghilterra ci offre l'esempio tipico. Per motivi analoghi si contrappone anche a quella concezione astrattamente “spiritualistica” dell'impero, che tante volte non è altro che la maschera dell'universalismo. L'intendimento di quest'ultimo punto venne ostacolato in Italia da numerose suggestioni e luoghi comuni di vecchia data. L'esempio dell'idea romana

Il grande spazio che l'Italia può eventualmente rivendicare è essenzialmente uno spazio mediterraneo. Il suo centro imperiale e supernazionale non può essere che l'idea romana. Ora in talune sfere si fa intorno a Roma tale retorica, da suscitare spesso un legittimo senso di fastidio, al sentir parlare perpetuamente di Roma e romanità. Nulladimeno l'Italia non ha altra scelta. Ha detto Mussolini: “Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento: è il nostro simbolo e il nostro mito”.
La difficoltà testé accennata sorge dal fatto che, per molti, romanità e universalismo fanno tutt'uno. “Universalismo romano” è una formula che, presso molti, è evidentemente posta al servizio di scopi ambigui. Presso altri si cerca, sì, di venire a una distinzione, contrapponendo il principio universale di Roma all'universalismo di marca demo – massonica od umanitaria o all'Internazionale comunista. Ma nemmeno così viene eliminato l'equivoco.

Universalistico è ogni principio al quale spetti una validità generale. Nel caso del razionalismo massonico, della democrazia, dell'internazionalismo e del comunismo, si tratta effettivamente d'idee che si diffondono in tutto il mondo e che perciò potrebbero realmente diventare “universali” - a patto che fosse già stata sradicata e livellata metodicamente ogni nazione e civiltà, press'a poco come nei famosi “Protocolli dei saggi di Sion”.
Il simbolo di Roma – in quanto, dunque, non si esaurisca in una frase retorica – significa invece qualcosa di concreto e determinato. Nessuno penserà sul serio a raccogliere tutti i continenti e tutti i popoli sotto Roma, mentre ciò è effettivamente l'intenzione di quelle fallaci dottrine senza tradizione, livellatrici e collettivistiche, appunto per la natura loro. Roma può realmente rappresentare per noi qualcosa, non come “universalismo”, ma come idea fondamentale, come forza creatrice e legge intima di un determinato “spazio imperiale”. Non altrimenti stavano le cose nell'antichità classica, in cui Roma rappresentava la consacrazione di una comunità univoca di popoli e di civiltà, fuor dalla quale esistevano tuttavia altre civiltà, come risulta dal nome stesso di “barbari”, che in origine, senza alcun senso spregiativo, designava semplicemente genti straniere.

Al tramonto della romanità, vi fu senza dubbio – entro il suo spazio imperiale – un certo “universalismo”: svariati elementi misti e razze inferiori vennero elevati alla leggera e dignità di “Romani”; la città del Tevere accolse senza difficoltà culti e costumi stranieri, spesso in contrasto indelebile col carattere originario romano, come osservava già Livio. Ma appunto in tale universalismo consistette una delle cause principali del tramonto di Roma. Se si parla di un universalismo così fatto, sarebbe quindi la più grave contraddizione voler ravvisare in esso un carattere della romanità. La vera romanità, maschia e gerarchica, che fece la nostra grandezza, non ha nulla in comune con codesto universalismo di una Roma tardiva e imbastardita.
Noi viviamo in un periodo in cui le energie si vanno raccogliendo, organizzando e plasmando, in cui è fuor di posto qualsiasi formula astrattamente universalistica; in cui l'elemento spirituale non deve indurci a deviazioni ed esorbitanze, bensì deve conferire un significato superiore alle potenze e discipline di una realtà ben determinata. Che Roma abbia donato al mondo la “luce della civiltà”, che lo spirito romano sia illimitato, che ogni popolo vada debitore a Roma di elementi di civiltà tutto ciò sta bene. Ma la vitalità attuale di codesto patrimonio millenario deve venir messa alla prova di compiti meno poetici e più precisi. Il meno che, dalla forza dell'Idea di Roma, possa esigere chi non si appaghi di mere frasi, è che tale idea susciti, dal complesso di popoli che sarà contenuto nel nostro grande spazio, un organismo veramente imperiale, con salda struttura propria, una propria fisionomia, un proprio spirito, un proprio ideale superiore d'umanità, una propria particolare civiltà, come per avventura in una ripresa dell'idea organico – gerarchica del Medioevo ariano e guerriero. Soltanto quando tale esempio sia stato dato definitamente, ci si può aspettare che il prestigio della romanità superi di nuovo i confini del nostro spazio e che in altri paesi sorga il quesito, in qual misura possano adottarsi gli stessi principi e in quali forme congeniali alla natura propria questi potranno plasmare la realtà.
Barone Giulio Evola, Roma, 1942.

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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