(ASI) Serena Williams avrà probabilmente pensato a Nick Kyrgios, prima abbattuto e poi incoraggiato dal giudice di sedia proprio agli UsOpen, nel prendersela così tanto con l'arbitro portoghese Carlos Ramos. Avrà avuto in testa magari il warning alla tennista francese Alizé Cornet, sanzionata per essersi tolta la maglietta durante un game. Lo fanno anche i colleghi uomini, ma non vengono sanzionati nel farlo a fine set oppure al cambio campo, quando lo consente il regolamento.
Le stesse norme non potevano graziare la regina di questo sport, per un coaching del suo distratto allenatore Patrick Mouratoglou, non permesso fra un punto e l'altro, per una racchetta schiantata sul cemento di Flushing Meadows, per il termine «ladro» e altre minacce rivolte al giudice di gara. Il game assegnato all'avversaria è una punizione che al numero di tre warning vale per tutti. Durano poco le accuse di sessismo, se come riportato dal New York Times e a dispetto di una gigante come Billie Jean Court, che ha applaudito Serena, i richiami arbitrali hanno coinvolto gli uomini 23 volte e le donne solo 9 quest'anno.
Il «punita soltanto perché donna» è uno sfogo filtrabile, ma non giustificabile, solo attraverso la testa di una campionessa che sogna di essere la migliore di tutti i tempi, con 23 slam vinti e solo uno in meno di Margaret Court, detentrice del record assoluto. La figlia Olympia, il marito Ohanian, i vecchi attriti con gli arbitri e con i tifosi razzisti sono altri mondi, chiamati in causa da Serena per puro sfogo. Come ha detto l'ex tennista e commentatore Mats Wilander «in campo si scende soli e solo il tennis può essere messo a giudizio».
Se la reazione di Williams può apparire tanto più grave perché non prodotta da un Fognini qualsiasi, ma dalla vera numero 1 del circuito femminile, tanto più pietoso è richiamare i torti del passato consumati sugli stessi campi dello slam newyorkese. Un giudice di linea può rubarti «un punto», premesso che sia stato commesso un errore in buona fede, come tante sviste arbitrali vengono commesse in ogni genere di sport, ma non ti rivolgi a lei (perché in quel caso si trattò di una lei) con «vado a prendere quella fottuta pallina e te la ficco in gola, lo giuro su Dio».
Similmente il «come osi pensare che io rubi» è una dichiarazione di prepotenza, ammesso che Serena è una tennista che può fare coaching ai suoi allenatori, non loro a lei.
Infine tutto quello che è stato oscurato in una finale di slam tormentata. Naomi Osaka è campionessa con merito in ogni caso, ma il suo volto sconsolato e messo in ombra dal teatrino della polemica, in quello che dovrà e poteva essere uno dei giorni più belli della sua vita, ha già parlato per sé. Poco ne vogliano gli ultras a stelle e strisce che inneggiavano la beniamina di casa, incoraggiandola contro i massimi sistemi di un sessismo invocato a vuoto.
Lorenzo Nicolao - Agenzia Stampa Italia