Cina. Pechino risponde a Washington, tra orgoglio nazionale e consolidamento delle alternative

XI NDB(ASI) «Non ci inginocchieremo mai». Questo, in estrema sintesi, il messaggio contenuto nel video di 2 minuti e 18 secondi pubblicato ieri, in lingua cinese e inglese, dall'Ufficio del Portavoce del Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare.

Una risposta intransigente, senza fronzoli, all'Amministrazione Trump che, tra minacce di inasprimento dei dazi e criptici segnali di apertura, sta innervosendo Pechino ormai da diverse settimane. «Gli Stati Uniti hanno scatenato una tempesta globale di dazi e hanno deliberatamente colpito la Cina, giocando la carta della "pausa di 90 giorni" con gli altri Paesi, costringendoli a limitare il loro commercio con Pechino», dice la voce narrante nel filmato, che aggiunge: «Inchinarsi ad un bullo è come bere veleno per placare la sete».

Il video ripesca dal passato due esempi di cosiddetto "protezionismo predatorio" che hanno visto Washington danneggiare gravemente la francese Alstom e la giapponese Toshiba nel secolo scorso, anche in quei casi tirando in ballo motivazioni legate alla sfera della sicurezza, all'anti-dumping e all'anti-corruzione. Il Giappone, in particolare, fu poi costretto a firmare l'Accordo del Plaza nel 1985 per deprezzare il dollaro rispetto allo yen e ad altre valute, proprio allo scopo di ridurre il deficit commerciale statunitense. Secondo Pechino, la via del compromesso scelta allora da Tokyo ridimensionò pesantemente l'economia del Sol Levante, che all'alba degli anni Novanta fece ingresso nel famigerato decennio perduto, con pesanti conseguenze anche sulle due decadi successive.

Non è la prima volta che tali tesi circolano nel dibattito politico e mediatico cinese. Le vicende di Alstom e Toshiba erano già state citate quasi cinque anni fa in un approfondimento del Global Times firmato da Huang Lanlan e Li Qiao, che li hanno inquadrati come veri e propri piani statunitensi finalizzati ad indebolire o distruggere aziende straniere rivali per preservare l'egemonia tecnologica. Si tratta della pratica che Pechino denuncia da molti anni col nome di "giurisdizione dal lungo braccio", ovvero quell'insieme di atti e norme interne che Washington, per effetto della sua influenza e pressione politica all'estero, riesce ad imporre ad altri Paesi.

«Il compromesso non ti farà ottenere pietà e inginocchiarsi produrrà soltanto maggiore bullismo», recita ancora il video diffuso ieri, che spiega chiaramente le ragioni di Pechino: «Sappiamo che restare in piedi per noi stessi tiene viva la possibilità di cooperare, mentre il compromesso la elimina. La Cina non si arrenderà, così che la voce dei più deboli sia ascoltata, il bullismo sia fermato e la giustizia non scompaia da questo mondo».

L'implicita esortazione a tutte le nazioni, a partire ovviamente da quelle in via di sviluppo, è di unirsi per preservare il multilateralismo e contrastare l'eccezionalismo americano, ancora trasversalmente diffuso nei circoli politici del Paese: «Quando il resto del mondo rimane unito in modo solidale, gli Stati Uniti sono soltanto una piccola barca incagliata. Gli imperialisti sono sempre arroganti e, se mostrano un po' di ragione, è soltanto perché sono costretti a farlo».

«Non illudetevi», prosegue il testo del filmato, prevedendo che Washington si manterrà «incoerente» e continuerà a «giocare pesante». Eppure, la Cina «sarà inflessibile», indipendentemente «da quanto forte soffi il vento e da quanto infurino le nubi», perché «più scura è la notte e più le stelle risplendono».

Al di là dei toni enfatici e delle suggestive immagini allegoriche, Pechino non si affida per caso ad una retorica politica che rispolvera il vecchio frasario maoista. «Tutti i bulli sono soltanto tigri di carta», si afferma nel video, parafrasando la celebre citazione sull'imperialismo del leader scomparso nel 1976. Stavolta, però, non si tratta di una lettura ideologica ma della constatazione - geopolitica e geoeconomica - che gli Stati Uniti «non rappresentano l'intero pianeta» e che «il loro commercio con l'estero vale meno di un quinto del totale mondiale». Che non è affatto poco, ma è comunque inferiore al dato della Cina.

Quando viene detto che «qualcuno deve tenere in mano la torcia per disperdere la nebbia e illuminare la testa del sentiero», è evidente che quel "qualcuno" sia proprio la Cina. Per ragioni oggettive, in quanto prima potenza commerciale del pianeta, seconda economia mondiale e secondo mercato di consumo a livello globale, proprio alle spalle degli Stati Uniti. Ma anche per ragioni soggettive, vale a dire ricercando intenzionalmente un ruolo di leadership internazionale che Pechino, pur rifiutando il concetto di "egemonismo", insegue da quasi dodici anni, cioè da quando Xi Jinping lanciò l'Iniziativa Belt and Road (BRI) con l'obiettivo di ricostruire in chiave moderna le antiche direttrici terrestri e marittime della Via della Seta.

Tale tentativo di riportare al suo antico prestigio il Vecchio Mondo, ovvero Asia, Europa ed Africa, era ed è tutt'ora il motore principale di una strategia globale più ampia che, tramite lo sviluppo infrastrutturale e le riforme di mercato, punta ad intensificare il commercio e gli investimenti della Cina con il resto del mondo.

A seguito dell'allargamento ad Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi e Indonesia tra 2024 e 2025, i BRICS si sono notevolmente rafforzati dopo diversi anni di incertezza sul proprio futuro. Secondo il Carnegie Endowment for International Peace, già oggi il raggruppamento degli emergenti, da alcuni analisti ormai ribattezzato BRICS+, racchiude infatti il 45% della popolazione mondiale, oltre il 35% del PIL globale (calcolato a parità di potere d'acquisto) e il 30% della produzione petrolifera del pianeta, in attesa che diversi altri partner, tra cui Turchia e Arabia Saudita, decidano se aderire. I BRICS+ possono fare affidamento sull'Accordo di Riserva Contingente (CRE), un meccanismo di sostegno finanziario precauzionale lanciato nel 2014, e sulla Nuova Banca di Sviluppo (NDB), istituita l'anno successivo con un capitale sottoscritto iniziale pari a 50 miliardi di dollari.

Proprio ieri, nel quadro delle celebrazioni per il decennale della sua fondazione, Xi Jinping ne ha visitato la sede a Shanghai, incontrando la presidente, cioè l'ex leader brasiliana Dilma Rousseff, recentemente rieletta alla guida dell'istituto finanziario. Come riporta Xinhua, il capo di Stato cinese ha definito la banca nei termini di «un'iniziativa pionieristica per l'unità e l'auto-miglioramento del Sud Globale», giudicandola conforme «alle tendenze storiche di riforma e rafforzamento della governance globale».

Xi ha sottolineato che la più ampia cooperazione tra i BRICS è entrata in una fase di sviluppo di alta qualità, esortando la NDB a tenere in considerazione le esigenze di crescita del Sud Globale e a fornire maggiori finanziamenti infrastrutturali di alta qualità, a costi contenuti e sostenibili. Secondo il presidente cinese, la banca «deve migliorare il suo management e le sue operazioni, implementare maggiori finanziamenti a progetti tecnologici e verdi, aiutare i Paesi in via di sviluppo a colmare il divario digitale e ad accelerare la transizione ecologica e a basso contenuto di carbonio».

Roussef, da parte sua, ha osservato che, malgrado la situazione volatile del mondo odierno, il governo cinese ha «difeso risolutamente gli interessi del Sud Globale, sostenuto il multilateralismo, difeso l'equità e la giustizia internazionale nonché promosso la costruzione di una comunità dal destino condiviso per tutti, fissando un modello per la comunità internazionale».

Se l'unilateralismo e il protezionismo «stanno erodendo l'autorità del diritto internazionale e minando la stabilità delle catene industriali e logistiche», l'ex presidente brasiliana assicura che la NDB «rimarrà fedele alla sua aspirazione originaria», adottando «misure attive» e contribuendo «alla promozione della crescita dei Paesi in via di sviluppo e dei mercati emergenti». Donald Trump è avvisato.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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