(ASI) Assisi – Nella sera di sabato 3 dicembre ad Assisi presso la Pro Loco di Santa Maria degli Angeli, si è svolta la presentazione del libro “La Battaglia contro l’Europa” con il coautore Thomas Fazi il quale è un saggista, giornalista, traduttore (tra gli altri di George Soros, Christopher Hitchens e Robert Reich) e autore di documentari, scrive di questioni europee per varie testate italiane e straniere e collabora con la rete della società civile “Sbilanciamoci!”.
L’evento è stato organizzato dall’associazione “Mosler Economics Modern Money Theory – MeMMT” e dal suo portavoce per l’Umbria Mario Volpi. All’interno della presentazione, sono stati affrontanti molti temi. Si è parlato della gestione – secondo i conferenzieri – sbagliata dell’Eurozona che ha aggravato l’attuale crisi economica, apportando dati e numeri a sostegno di questa tesi. Inoltre si è affrontato anche la tematica del futuro dell’Unione Europea e di eventuali possibilità di un’uscita dalla stessa dei suoi Stati membri, compresa l’Italia. Al termine della presentazione, Thomas Fazi ha rilasciato gentilmente un’intervista ad Agenzia Stampa Italia.
Secondo le tesi che Lei dispensa nel suo libro, quale è stato lo sbaglio che è stato condotto nella gestione dell’Eurozona e che ha amplificato la crisi attuale?
Thomas Fazi: «Lo sbaglio principale è stato quello di aver risposto alla crisi finanziaria nel modo più sbagliato possibile e nel modo opposto a quello che buona parte della teoria economica – almeno fino agli anni ’70 – raccomanda di fare in questi casi. Ovvero, quando c’è una crisi economica, quando la gente – per diversi motivi – ha perso il lavoro e che spende di meno, qualcun altro deve farsi carico di spendere nell’economia quando i cittadini non riescono a farlo. Quel qualcun altro, che deve spendere affinché l’economia non tracolli, è lo “Stato”. Solo lo Stato può farsi carico di compensare la riduzione della spesa – in consumi e altro –, della domanda, in caso di crisi economica. Per ciò la scuola Keynesiana – che è stata dominante fino gli anni ’70 – quello che ha sempre consigliato di fare in caso di crisi è spendere di più, ovvero fare “deficit” e non spendere di meno. La risposta delle autorità europee è stato l’esatto opposto. Di fronte ad una crisi di domanda, l’Unione Europea ha imposto agli Stati membri di spendere non di più ma di meno. Questa riduzione complessiva della domanda non poteva che provocare un tracollo dell’economia, che del resto così è stato. L’aspetto tragico è che a fronte dell’evidente fallimento di queste politiche, noi siamo qui a distanza di ben 8 anni, ancora nella stessa situazione. Con Matteo Renzi che deve “stracciarsi le vesti” per avere uno 0,1 o 0,2% di deficit in più. Quando in realtà l’Italia avrebbe bisogno di fare tra il 4 o il 6% di deficit, non il 2,2 invece del 2,1%. Siamo in una situazione paradossale, a fronte di una crisi economica che, come ha dichiarato di recente il Governatore della Banca d’Italia, è la più profonda e più duratura nella storia dello Stato Italiano. Una crisi molto più profonda e duratura della crisi del ’29, a cui spesso si fa riferimento. L’Italia ha perso il 10% del proprio Prodotto Interno Lordo (il PIL), abbiamo tassi di disoccupazione a due cifre e nel caso dei giovani arriviamo quasi al 50%. E’ una situazione estremamente negativa. L’aspetto tragico, come detto, è che stiamo qui ancora a parlare della “battaglia” di Renzi contro l’austerity, poi di fatto si riduce a chiedere uno 0,1 o 0,2% in più di deficit: è veramente tragico!».
La questione del debito pubblico di uno Stato, come per esempio l’Italia, che da molti degli esperti nel settore viene identificato come il reale problema della crisi economica degli Stati, può essere inteso realmente in tal maniera? Il debito pubblico è realmente la causa della situazione economica che stiamo vivendo?
Thomas Fazi: «Assolutamente no! Se noi guardiamo ai Paesi in Europa che sono stati più colpiti dalla crisi, ovvero i Paesi della “periferia”, sono tutti Paesi che ad eccezione della Grecia e dell’Italia – che oggettivamente avevano un alto debito pubblico ancor prima della crisi – come Spagna, Portogallo, Irlanda e altri, questi avevano tra i livelli di debito pubblico più bassi di tutta l’Europa. L’Irlanda aveva un debito pubblico rispetto al PIL all’incirca del 20-30%, identica cosa per la Spagna. Dunque, come detto, livelli di debito pubblico bassissimi, ma questi sono stati tra i Paesi più colpiti dalla crisi prima finanziaria, poi economica e poi sociale ed umanitaria degli ultimi anni. Questo di per sé dovrebbe essere sufficiente a sfatare il mito assolutamente infondato secondo cui la causa della crisi sia il debito pubblico. Stiamo parlando di Paesi con livelli di debito pubblico veramente bassi, avevano d’altro canto livelli di debito privato molto alto. Il problema in molti casi era il debito privato, che poi si è trasformato in debito pubblico nel momento in cui i governi sono stati costretti ad intervenire per salvare le banche. Siamo passati da situazioni in cui l’Irlanda per esempio – che è un caso eclatante – che aveva un livello di debito pubblico esiguo per poi arrivare ad uno superiore al 100% del PIL. La medesima cosa è accaduta in Spagna e in altri Paesi. In sostanza la teoria del debito pubblico quale causa o aggravante della crisi è totalmente infondata. Del resto anche nel caso dell’Italia come si fa ad incolpare il debito pubblico? L’Italia possiede un debito pubblico altissimo ormai da decenni e pensare che il problema dell’attuale crisi che anch’essa vive sia il debito pubblico non fa capire perché ad un certo punto dal 2011 in poi l’economia nazionale ha subito un tracollo verticale. Allora dovremmo pensare che il debito pubblico non è un problema finché un giorno diventa un problema e l’economia tracolla, ovviamente questa non può essere in alcun modo la spiegazione. Riprendendo sempre il caso italiano vediamo che la crisi profonda inizia nel 2011 – 2012, allorquando Mario Monti si insidia a Palazzo Chigi ed inizia ad implementare le politiche di austerità che ormai conosciamo fin troppo bene gli esiti: ovvero enormi aumenti dei livelli di tassazione, riduzione della spesa pubblica e molto altro. C’è una correlazione diretta tra le politiche di austerità introdotte da Monti e il rallentamento dell’economia italiana che decretano per forza di cose la totale estraneità del debito pubblico tra le cause della crisi. Molte delle principali economie nel mondo possiedono livelli di debito pubblico alti, come ad esempio il Giappone che ha un debito pubblico pari al 230% del PIL. E’ vero che lo Stato nipponico non registra tassi di crescita altissimi da diversi anni ma comunque non ha vissuto una crisi neanche lontanamente paragonabile a quella che stanno vivendo i Paesi dell’UE, perché il Giappone possiede la sua sovranità monetaria e quindi dispone della sua Banca Centrale, avendo queste tali importantissime cose per esso il debito pubblico non diviene un problema.
Il debito pubblico può divenire un problema nel momento in cui un Paese non possiede una propria Banca Centrale d’Emissione che possa proteggere il Paese in questione dalle speculazioni finanziarie. Questo è il motivo per cui Nazioni come l’Italia, intorno al 2011, si sono trovate soggette a speculazioni finanziarie violentissime. Come detto questo non è stato dovuto dai livelli alti o meno del debito pubblico, ma dal fatto che questi Paesi non possedevano una Banca Centrale d’Emissione che li potesse difendere. Tant’è che la speculazione è durata fino a che non è intervenuta la Banca Centrale Europea nel 2012 con il noto discorso dove si affermava che sarebbe stato fatto tutto il necessario per preservare l’Euro, dove nel sotto testo veniva dichiarato che la BCE sarebbe intervenuta nei mercati finanziari per fermare la speculazione e quel semplice annuncio della BCE nella figura del suo Presidente Mario Draghi, è stato sufficiente a fermare la speculazione. Questa è l’ulteriore dimostrazione che il problema non è il debito pubblico, il problema è se uno Stato ha o meno una Banca Centrale dietro di sé che la può difendere dai mercati finanziari.».
Crede che gli Stati dovrebbero possedere la propria sovranità monetaria?
Thomas Fazi: «Assolutamente! La moneta è uno degli elementi costitutivi della sovranità di uno Stato. Senza moneta non c’è sovranità. Recidere il legame tra Stato e moneta è stata la vera tragedia dell’Euro ed è quello che ha lasciato i Paesi membri dell’UE alla mercé dei mercati finanziari e delle varie speculazioni, perché di fatto gli ha sottratto uno degli strumenti principali d’intervento e di regolazione dell’economia che è il controllo della moneta. Nel momento in cui non si possiede il controllo dell’emissione monetaria e dell’emissione del debito pubblico, di fatto si arriva a non possedere più nessuno strumento d’intervento nell’economia. Quando gli Stati che oggi compongono l’UE hanno rinunciato da un lato alla sovranità monetaria ed indirettamente anche alla sovranità fiscale – perché la sovranità fiscale, ovvero la capacità di spendere in deficit, dipende dalla sovranità monetaria (fatto tra l’altro peggiorato dall’imposizione di limiti molto ferrei a livelli di deficit che i Paesi possono registrare nell’Eurozona) – ciò ha chiaramente lasciato tali Paesi del tutto impotenti di reagire alla crisi, e reputo che questo sia stato uno degli intenti e delle finalità dell’Eurozona. Indebolire a tal punto gli Stati nazionali affinché questi fossero totalmente controllabili dall’esterno, e non è un caso che questo abbia generato un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto così significativo. Uno Stato che rinuncia a svolgere qualunque ruolo di redistribuzione e regolazione nell’economia, è uno Stato che si lega volontariamente le “mani” a favore di quelli che possono essere generalmente intesi come i “poteri forti”.».
L’Unione Europea a chi ha giovato e a chi sta giovando?
Thomas Fazi: «Se guardiamo i dati possiamo vedere che l’Unione Europea ha favorito un trasferimento di ricchezza tra Paesi facendone beneficiare alcuni Stati a discapito di altri. Ha giovato la Germania, ma più che altro i Paesi dell’area tedesca ovvero le Nazioni del centronord europeo, la cui economia si basa soprattutto sull’esportazioni. Nazioni che hanno beneficiato dall’avere un tasso di cambio debole dovuto all’Euro, che hanno beneficiato dall’avere un tasso d’inflazione molto basso, e dall’avere avuto un tasso di crescita dei salari molto basso anch’esso, se non inesistente. Tutto ciò ha permesso a questi Paesi di avere surplus commerciali con l’estero, quindi di vendere più di quello che importavano. Per gli Stati che avevano questo tipo di modello economico, l’Euro è stato una manna dalla cielo. Per altri Stati, in particolare quelli della “periferia” europea, le cui economie non dipendono tanto dall’esportazioni ma in particolare dai consumi interni, l’Euro avendo determinato prima delle bolle economiche che sono esplose con la crisi ed avendo questo determinato una riduzione notevole dei salari e dei consumi, la moneta unica ha poi innescato un tracollo dell’economia in questi Paesi perché sono stati fortemente ridotti i consumi interni. Questo fa capire che l’Euro funziona per alcuni Paesi che effettuano soprattutto esportazione, e crea notevoli disastri per economie orientate ai consumi interni. L’Euro e L’Unione Europea hanno determinato un trasferimento di ricchezza all’interno dei Paesi dalle classi medio-basse alle classi alte. Dunque un’esplosione dei livelli di diseguaglianza in Europa negli anni della crisi. La crisi non è vero che ha colpiti tutti in egual modo, le classi lavoratrici e quelle medie sono state le più colpite, mentre allo stesso tempo c’è stato un aumento del numero dei milionari in Europa negli ultimi tempi. Un incremento notevole, perché sono categorie sociali che hanno beneficiato delle politiche della BCE, politiche che hanno favorito chi gioca sui mercati finanziari a scapito di chi diversamente riceve il proprio reddito da un salario.»
A fronte di tutto quello che fin qui ha sostenuto e a fronte delle opzioni “se riformare l’Unione Europea” o “se uscire dall’Unione Europea”, cosa risponderebbe alla domanda secca dentro o fuori l’Unione Europea?
Thomas Fazi: «Rispondere a una domanda secca è sempre difficile. Comunque in un “mondo ideale” direi “fuori dall’Unione Europea”. Perché solo fuori dall’UE che secondo il mio parere è possibile sul serio implementare politiche progressiste di sostengo al lavoro e ai diritti sociali. Allo stesso tempo, dobbiamo prendere atto che ad oggi le condizioni per quella che alcuni chiamano “un’uscita da sinistra dall’Unione Europea” non ci sono. Quindi oggigiorno, un’uscita sarebbe necessariamente “a destra”. Lo vediamo nel caso della Brexit, cioè di un Paese che vuole liberarsi dal vincolo dell’Unione Europea, ma che non per questo attuerà poi politiche necessariamente più a favore della classe lavoratrice o comunque delle classi subalterne, anzi è probabile che avvenga l’esatto opposto. Dunque “fuori”, ma fuori nel modo giusto.».
Federico Pulcinelli – Agenzia Stampa Italia