(ASI) Tirana – È arrivato il momento di dirimere una volta per tutte la questione dell’allargamento dell’Unione europea ai Balcani occidentali. Questo emerge dall’ultimo vertice del Processo di Berlino, tenutosi a Tirana il 16 ottobre.
Avviato quasi dieci anni or sono, il vertice nasce per mantenere aperta una costante finestra di dialogo fra l’Ue, le principali istituzioni finanziarie internazionali e i sei Stati desiderosi di avvicinarsi a Bruxelles. Dalla difficile pacificazione delle minoranze etniche e religiose locali fino all’abbattimento delle barriere economiche e al coordinamento delle politiche finanziarie, il Processo di Berlino punta sullo strumento pacifico della mediazione per incoraggiare una leale collaborazione fra Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia.
Governi labili, intaccati da un sistema istituzionale fragile e dalla persistente scia di odio che da tempo immemore divampa in drammatiche tensioni fra le diverse componenti della popolazione. Le vibranti manifestazioni di piazza sfociate qualche mese fa in una spirale di sangue e violenza fra serbi e kosovari sono solo l’ultima manifestazione di una situazione incandescente.
Nel contempo, seppur con forme e tempistiche divergenti, quegli stessi governi hanno mostrato più volte la volontà di aderire all’Unione, nella speranza di ottenere benefici economici e entrare nella sfera di protezione dell’Occidente. Ne è scaturita una lunga fase di negoziazioni, infiniti tira e molla di cui da ormai vent’anni non si intravede la fine. L’invasione russa dell’Ucraina e l’inizio di un conflitto che ha gettato nell’incertezza il mondo, però, hanno radicalmente modificato il corso degli eventi.
Da un lato, le sei cancellerie balcaniche hanno avvertito l’urgenza di guardare a Ovest, timorose di divenire il prossimo bersaglio militare del Cremlino. Dall’altro, Bruxelles non ha più potuto ignorare la crescente influenza politica, economica e culturale moscovita nella zona e ha sentito l’esigenza di accelerare le procedure di adesione per mantenere nella sfera occidentale un’area geografica dall’indiscussa valenza strategica.
Eppure, risultano ancora molteplici gli ostacoli sulla strada dell’integrazione. A farsi portavoce delle istanze balcaniche è stato il Primo ministro albanese, padrone di casa dell’edizione 2023 del Processo di Berlino. Edi Rama ha citato proprio il rapido susseguirsi degli eventi bellici in Ucraina per ribadire la “necessità di un tetto comune”. “Vivere senza l’Ue non è un’impresa facile” ha denunciato, incalzando per porre rimedio alla “dolorosa separazione” della regione dall’Ue.
Rama ha riconosciuto quanto le “questioni bilaterali di lunga data tra alcuni paesi” abbiano contribuito in passato e continuino a contribuire oggi a rendere difficile la convivenza pacifica. Dalla persistenza delle barriere doganali al blocco del riconoscimento dei documenti – di cui la tristemente celebre “guerra delle targhe” fra Kosovo e Serbia è l’ennesima manifestazione – i Balcani occidentali faticano a trovare la coesione interna. Ciò li espone, in primis, alle influenze egemoniche di potenze esterne. Emblematico è, ad esempio, il caso delle controverse relazioni bilaterali fra Serbia e Federazione russa capace di suscitare rumorosi malumori fra Belgrado e Bruxelles. In secondo luogo, per l’appunto, tale realtà rischia di compromettere il buon esito del processo di integrazione europea.
Ma il presidente albanese è andato oltre il mea culpa. Interloquendo con i capi politici dell’Europa, Rama ha sottolineato il bisogno di modificare il funzionamento dei programmi finanziari comunitari. Rama ha menzionato, in particolare, il “Piano economico e di investimenti per i Balcani occidentali”, attraverso il quale Bruxelles intende erogare alle sei cancellerie ben 30 miliardi di euro nel medio termine. A detta del Primo ministro, il fatto che la quasi totalità dei fondi siano erogati sottoforma di prestiti potrebbe inficiare i già precari conti pubblici.
A ben vedere, però, il problema più grande risiede nel criterio di stanziamento dei finanziamenti. Si tratta del “criterio meritocratico” per cui Bruxelles tende a premiare maggiormente gli esecutivi inclini ad allinearsi all’ordinamento giuridico e istituzionale comunitario. In sostanza, gli esecutivi disposti a varare riforme nella direzione della garanzia dei principi democratici e dello stato di diritto, della lotta alla corruzione, dell’adozione dell’economia di mercato.
“L’approccio basato sul merito deve continuare, ma dovremmo esplorare strade alternative per superare le divisioni esistenti e garantire una coesistenza armoniosa” ha affermato Rama. Per Bruxelles, diffondere i propri principi fondanti verso i futuri membri è imprescindibile. Tuttavia – come ha esplicitamente detto lo stesso Rama – tale politica viene percepita dai Balcani come un fastidioso tentativo di interferenza negli affari interni. “Se riuscissimo ad andare oltre l’idea di una relazione distante e a funzionare più come partner, comprenderemmo meglio le sfide reciproche e condivideremmo il peso dei tempi difficili che ci attendono”, ha sostenuto il presidente.
Insomma, la sensazione dei politici balcanici è quella di non essere trattati alla pari. Ciononostante, l’Unione non appare almeno al momento intenzionata a prescindere dall’applicazione del criterio meritocratico. Intervenendo al vertice, il presidente del Consiglio europeo ha evidenziato l’indiscutibile importanza dell’allargamento a Est. È giunta l’ora di mantenere le promesse” ha esordito, ipotizzando di finalizzare entro il 2030 l’adesione. Charles Michel ha proposto una “integrazione graduale” con obiettivi intermedi, al fine di concedere agli esecutivi locali più tempo per uniformarsi all’ordinamento comunitario.
Egli ha chiarito, però, che l’allargamento “è e resterà sempre basato sul merito”. Michel ha esortato gli interlocutori a procedere con le riforme democratiche, allinearsi pienamente alla politica europea nei confronti di Mosca, impegnarsi per risolvere con determinazione le annose controversie etniche e religiose. “Non c’è cooperazione senza riconciliazione. Non c’è futuro stabile senza riconciliazione”, ha esclamato.
Posizione del tutto condivisa dalla presidente della Commissione europea, la quale ha sostenuto: “Dobbiamo avvicinare ancora di più le nostre economie e accelerare le riforme per l’adesione”. Ursula von der Leyen non si è presentata a mani vuote. Al contrario, ha portato all’attenzione dei sei Primi ministri balcanici un nuovo “Piano di crescita” appositamente predisposto da Bruxelles.
Il Piano immetterà nelle casse governative 6 miliardi di euro, ancora in larga misura sottoforma di prestiti. Oltre agli investimenti, Bruxelles si dice pronta a collaborare con le imprese locali in settori strategici quali l’abbattimento delle barriere doganali, il commercio e i pagamenti elettronici, i trasporti, il mercato dell’elettricità e l’approvvigionamento delle fonti energetiche. I soldi saranno versati gradualmente, di pari passo con l’approvazione delle riforme, a dimostrazione che resta pienamente in vigore il meccanismo del merito.
Mentre venti di guerra soffiano impetuosi, il buon esito dell’allargamento non potrà prescindere dal coraggio dei capi politici di Bruxelles e della regione balcanica. Il coraggio di scegliere da che parte stare, di cambiare le regole del gioco, di conciliare punti di vista divergenti. Il coraggio, cioè, di scegliere la via della stabilità e del dialogo.
Marco Sollevanti – Agenzia Stampa Italia