Cina. USA, cinquant'anni dopo Kissinger ribadisce la necessità del dialogo e del realismo

(ASI) «Un rapporto pacifico e cooperativo tra gli Stati Uniti e la Cina è fondamentale per la pace e il progresso del mondo». A dirlo non è stato un analista qualunque bensì l'ormai centenario Henry Kissinger, segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale dei presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, ma considerato autentica eminenza grigia anche in fasi precedenti e successive della storia nordamericana.

Lo ha fatto mercoledì a New York, intervenendo da una sedia a rotelle cui è da tempo costretto, durante il discorso pronunciato all'annuale cena di gala del Comitato Nazionale per le Relazioni USA-Cina, presieduto da Stephen Orlins, già direttore generale di Carlyle Group Asia.

Figura controversa sia in patria che all'estero, specie per la spregiudicatezza strategica cui spinse la Casa Bianca in alcuni teatri come Cile, Cambogia e Timor Est, il suo paradigmatico approccio realista lo rese celebre anche per la raffinata capacità diplomatica, nella convinzione che il rigido bipolarismo della Guerra Fredda, fino a quel momento fondato sul solo equilibrio nucleare della reciproca distruzione garantita (MAD), fosse destinato a trasformarsi progressivamente in un sistema di necessaria coesistenza tra potenze.

Si spiegano così, dunque, i suoi tentativi di perseguire la distensione con l'Unione Sovietica, la shuttle diplomacy messa in moto nel contesto mediorientale per la cessazione della guerra arabo-israeliana (Yom Kippur) nel 1973 e, soprattutto, la cosiddetta diplomazia del ping-pong, costruita a partire dal 1971 sulla scia dello storico incontro di tennistavolo tra l'americano Glenn Cowan e il cinese Zhuang Zedong ai Mondiali di Nagoya, in Giappone.

Gettate le basi per l'apertura di canali diplomatici ufficiali, Nixon poté visitare il Paese asiatico per la prima volta dalla fondazione della Repubblica Popolare, incontrando l'omologo cinese Mao Zedong ed il primo ministro Zhou Enlai, altra figura-chiave nella diplomazia del Novecento.

Il risultato più tangibile di quel viaggio fu l'importante documento siglato al Jinjiang Hotel di Shanghai, il primo di tre comunicati congiunti tra i due Paesi, al fine di normalizzare le relazioni bilaterali, a partire dal riconoscimento statunitense dell'esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan è ritenuta parte integrante, sulla scia di quanto già sancito l'anno prima dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 2758, che aveva assegnato a Pechino il seggio sino a quel momento occupato dai rappresentanti di Taipei presso il Consiglio di Sicurezza e tutte le altre istituzioni ONU.

«Credo ancora oggi, come cinquant'anni fa, che possiamo trovare una via d'uscita attraverso le difficoltà», ha spiegato Kissinger ai numerosi presenti in sala, aggiungendo: «Ho letteralmente speso metà della mia vita lavorando sulle relazioni sino-statunitensi [...] Apprezzo il popolo cinese, sono impressionato dalla loro cultura».

Fondato nel 1966, il Comitato è ancora oggi un'organizzazione no-profit che propone programmi di scambio, formazione e policy su temi quali relazioni internazionali, sviluppo economico e management, questioni legali e governance, ambiente, comunicazione e formazione amministrativa rispetto alla Cina continentale, Hong Kong e Taiwan. L'obiettivo generale è quello di «promuovere la comprensione e la cooperazione» tra i due Paesi, «nella convinzione che relazioni sino-statunitensi adeguate e produttive servano gli interessi fondamentali degli Stati Uniti e del mondo».

Con l'ascesa di Joe Biden alla Casa Bianca, chi sperava che la tensione innescata dalle barriere tariffarie e dalle restrizioni introdotte da Donald Trump potesse quanto meno stemperarsi, ha dovuto ricredersi. Al contrario, l'approccio della nuova amministrazione Dem si è rivelato, a tratti, persino più duro e intransigente di quella che l'ha preceduta. Al di là degli annunci propagandistici, il tentativo di "sganciare" tra loro le prime due economie mondiali, sostenuto da diversi falchi sia democratici che repubblicani, sta praticamente fallendo tanto da costringere Biden ad una revisione delle misure introdotte.

Come sottolineato da Inu Manak, Gabriel Cabanas e Natalia Feinberg in un approfondimento pubblicato dal Council on Foreign Relations (CFR), le tariffe applicate da Trump appellandosi alla Sezione 301 del Trade Act e confermate dal suo successore nel primo biennio di mandato, «non solo non hanno raggiunto i loro obiettivi ma hanno danneggiato le imprese e i consumatori statunitensi nel tempo». Gli economisti Mary Amiti, Stephen J. Redding e David Weinstein hanno evidenziato come già al termine del primo anno di regime tariffario, il reddito reale negli Stati Uniti era sceso di 1,4 miliardi di dollari al mese, mentre più recentemente gli analisti Tori Smith e Tom Lee dell'American Action Forum avevano concluso che il peso dei dazi si è riversato sui consumatori statunitensi per un totale di 48 miliardi di dollari, di cui la metà a carico delle aziende americane che importano beni intermedi dalla Cina [CFR, 18/4/2023].

È praticamente la conferma di quanto va sostenendo da cinque anni Americans for Free Trade, una coalizione di associazioni industriali e sindacati che sta premendo su Washington per la rimozione delle barriere commerciali più pesanti e dannose. Le loro stime parlano addirittura di costi aggiuntivi per gli statunitensi pari a 129 miliardi di dollari da quando è cominciata la guerra commerciale, per una media di 3,8 miliardi al mese, con picchi massimi raggiunti tra agosto 2021 ed aprile 2022.

La necessità percepita da una parte consistente e bipartisan dell'odierno establishment americano di "regolare i conti" con Pechino, subito dopo Mosca, mette a rischio l'intera architettura di sicurezza globale. Un prezzo troppo alto, evidentemente, anche secondo Kissinger. «Noi in America dobbiamo evitare di dare l'impressione che ci stiamo allontanando dal concetto di 'Una sola Cina' cui ci siamo attenuti [...] fu un impegno concreto all'interno del Comunicato di Shanghai», ha sottolineato lo stratega decano, lasciando intendere che qualsiasi tentativo di scatenare un'escalation a Taiwan sarebbe un grave errore da parte di Washington, oltre che una violazione del diritto internazionale.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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