(ASI) Barcellona - Fra i banchi di un’università catalana chiedete una volta al professore di polìtica internacional quale sarà il tema del giorno. In un caso su due questi vi risponderà la secessione della Catalogna, spiegata ovviamente in lingua catalana. Il tema è caro e antico per tutti i cittadini di Barcellona, che più o meno devoti alla causa dell’indipendentismo, sicuramente conosceranno la storia del proprio Paese.
Prima la corona, poi la Repubblica Catalana, poi la repressione di Francisco Franco, fino al governo autonomo dei giorni nostri. Per anni è rimasto quello spirito di sentirsi diversi, parte di un’altra realtà, figlia di un certo sentimento, che riunisce sport, letteratura, teatro, arte, cultura e dalla lingua passa per la politica.
Ora la Generalitat non si può più nascondere. A forza di consultazioni referendarie si è giusti al voto decisivo, quello che in codice è detto 1-O, 1 ottobre. La data doveva portare alle urne migliaia di Barcellonesi per decidere le sorti della secessione dal governo di Madrid. Il presidente Mariano Rajoy aveva mandato segnali di disapprovazione, forti della sentenza della corte costituzionale spagnola, che proibisce qualsiasi voto per l’indipendenza (discorso che vale anche per i Paesi Baschi), ma Barcellona li aveva sempre ignorati.
A Madrid c’è un governo di minoranza nato da due elezioni stentate. Rajoy e i Populares non possono perdere la faccia di fronte alle pretese del presidente catalano della Generalitat Charles Puigdemont. «Fate un referendum proibito dalla Costituzione? Noi vi mandiamo l’esercito», aveva intimato il capo di governo dal palazzo della Moncloa madrileno.
Detto fatto. Mossos d’esquadra della polizia nazionale sottraggono schede, requisiscono urne, arrestano parlamentari catalani. Niente altro aspettavano gli indipendentisti per scendere in strada e ribellarsi nei confronti della violenza dello Stato.
Al Primo ottobre manca una settimana, ma gli scenari che si aprono sono molto lontani dallo svolgimento di un voto democratico.
Contro la Guardia Civil nazionale sono intervenuti migliaia di manifestanti, già in 40mila denunciati per sedizione, per aver protestato di fronte al ministero dell’economia di Barcellona, a seguito dell’arresto di 14 dirigenti dell’amministrazione, che il governo potrebbe rimettere in libertà in cambio di riconciliazione. Rischia invece 15 anni di carcere il vice del presidente indipendentista Oriol Junqueras, arrestato nella notte degli scontri. Le proteste non si allentano neanche di fronte al Palazzo di Giustizia, mentre Inigo Mendez, portavoce del governo conservatore dei populares, ribadisce che «il referendum è illegale e che non si terrà». Il ministro degli Interni Juan Ignacio Zoido sta predisponendo l’invio di rinforzi di polizia in Catalogna.
L’escalation del sentimento autonomista catalano sembra essere giunto al punto di rottura con il governo centrale. Il rischio guerra civile prende ogni giorno forza, nel momento in cui nessuna delle due parti è disposta a cedere.
Anche nel calcio i paradossi non mancano, con il Barça che sostiene la libertà di schierarsi a favore dell’indipendenza, rischiando di giocare in futuro un campionato isolato dalla Liga Spagnola e dalla Uefa europea. Il sentimento autonomista incarna ogni sfera della quotidianità catalana. Per questo la via della riconciliazione è sempre più lontana.
Joselyn è una ragazza catalana che cerca di analizzare con lucidità la situazione attuale: «Negli anni scorsi Barcellona chiedeva a Madrid maggiori autonomie fiscali, al fine di poter amministrare il bilancio con meno costi e più agevolazioni. Il governo ha sempre respinto ogni richiesta di abbassamento delle tasse e ha rinforzato il sentimento indipendentista. Ora che Madrid dall’assenza di dialogo è passata alle “maniere forti” non ci sarà alcun cedimento da parte dei Barcellonesi. Costituzione o no, negare un referendum significa ai cittadini togliere la libertà di votare, quindi la propria autodeterminazione come popolo. Lo scontro sarebbe stato inevitabile».
Lorenzo Nicolao – Agenzia Stampa Italia