(ASI) Oggi la Chiesa celebra la solennità di Cristo Re dell’universo e della storia. Tutto è in mano a Cristo, come ha insegnato Giovanni Paolo II. La nostra civiltà si definisce nell’orizzonte temporale originario: prima di Cristo e dopo Cristo.
Questa realtà non è solamente un evento religioso, liturgico o devozionale, ma è la possibilità reale di guardare la realtà con uno sguardo aperto allo stupore. O stupore o morte. Senza stupore, per la meraviglia dell’essere che è e che c’è, o il niente che avanza, fino a determinare la stessa coscienza umana.
Non è casuale che la filosofia contemporanea, emersa non nel Novecento, ma nel tardo Settecento, in quell’età illuministico-rivoluzionaria celebrata in varie modalità, dal giacobinismo all’illuminismo kantiano. David Hume (1711-1776), filosofo scozzese e amico di Smith, demolisce con determinazione degna di miglior causa la metafisica:
«Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni». Firmato: David Hume. Ma le firme in calce a questo documento del nichilismo materialistico prossimo venturo sono innumerevoli. Da questo momento in poi, anche Aristotele viene messo alla berlina e ci penserà Lutero, in una famosa lettera alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, pubblicata nel 1520, a rigettare con violenza settaria il pensiero di Aristotele, definito “morto idolatra”. Aristotele era il mentore filosofico di Tommaso d’Aquino e la luce della ragione poteva così risplendere, carica di stupore, nella contemplazione di Dio. Fides etratio, come richiamava Giovanni Paolo nell’enciclica, pubblicata nel 1998, che reca proprio questo titolo:
«La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità».
Distrutto questo mondo, con una decisione sovranamente nichilista, l’uomo contemporaneo si è ritrovato solo di fronte al dominio del Leviatano ed ha innalzato lo Stato a “deus mortalis” (Hobbes: 1588-1679). Lo riconosce anche Jung (1875-1961):
«Lo Stato si è messo al posto di Dio; perciò, viste sotto questo aspetto, le dittature socialiste sono religioni e la schiavitù di Stato è una specie di servizio divino» (1957).
Religioni senza Dio, che annientano la reale possibilità dell’uomo di autotrascendersi in direzione dell’Assoluto e di Dio, di essere, quindi, “capax Dei”, come insegnava Sant’Agostino (354-430 d.C.), aperto a Dio e a quel mistero che la realtà esprime, donandosi come essere. L’essere, in questo tetro e grigio mondo, non è il vero, ciò che è e assicura all’uomo la stabilità e la certezza del reale. Non è l’essere che già Parmenide (515/510 a.C.-450 a.C.), uomo del Sud, nativo di Elea, in epoca romana Velia, in provincia di Salerno, aveva posto a fondamento della filosofia non solo metafisica, ma anche politica e sociale: l’essere è solo l’essere può essere pensato, mentre il nulla non è e quindi non può essere pensato. La Magna Grecia, tanto disprezzata da Agnelli, cultore di profitti derivanti dalle tasse, ma non di civiltà, aveva già capito tutto.
Questo Essere è il fondamento reale, solido, eterno non solo della metafisica e della vita in sé, ma anche della convivenza umana, perché un popolo che pensa e vive così può stare insieme, crescere e creare insieme. La signoria della vita, che è essere vitale e vivente, sul morto niente, sul nulla, che predispone la coscienza dell’uomo a inventare strumenti artificiali di dominio del vivente e dell’umano, dagli algoritmi all’intelligenza artificiale. Il dominio leviatanico dei decreti e del nichilismo violento durante la fase del Covid è un caso di scuola.
La domanda che sfida questa concezione naturale semplice e reale dell’esistenza e della realtà è presto posta, già dal filosofo tedesco Leibniz (1646-1716) e ripresa da Heidegger (1889-1976): “Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”.
Ogni cataclisma della civiltà nasce dal pensiero e dalle idee degli uomini. Soprattutto dalle idee considerate “geniali”, le migliori, quelle trasmesse dalle élites e da chi ha il potere di manipolare la realtà. Questa domanda è diventata prima retorica, ovvero: e perché mai la realtà delle cose, i principi, la tradizione della nostra civiltà, i padri, gli antenati ecc. dovrebbero essere meglio del nulla, ridefinito in termini di eros, sensazioni estreme, emozioni vissute come unico veicolo di esperienza, il suicidio, che dice no alla vita, l’eutanasia, che dice no alla cura della vita, la cancel culture, che nega che l’essere sia storia e perciò a disposizione della ragione umana, la woke ideology, che riduce la cultura a banchetto delle minoranze e dei cosiddetti “esclusi”, in realtà inclusi più che mai nelle corti delle élites dominanti (il radical-chic di Tom Wolfe è il primo vagito di questa cordata del potere ideologico): ecco, perché?
Perché la vita deve essere pensata dalla Fine perché non nasca già come fine di tutto. Senza un fine, non c’è azione, non c’è pensiero, non c’è relazione umana, non c’è creazione. Aristotele è chiaro su questo punto: la causa finale è la più importante. Aver ridotto il mondo a un gigantesco meccanismo, infine trasmutato in un algoritmo universale capace di controllare e dominare tutto e tutti ha ridotto il mondo a un deserto, nel quale non c’è più neanche la ventura di incontrare il sottotenente Giovanni Drogo, protagonista del Deserto dei tartari di Buzzati. Se la storia non ha un Fine, il Fine ultimo che la fonda e sostiene, c’è solo la fine, e allora la celebrazione di questa fine non potrà che essere la guerra infinita. Perché la guerra è la macchina desiderante del nulla.
Raffaele Iannuzzi – Agenzia Stampa Italia