(ASI) I venti di guerra nella Penisola Coreana tornano a soffiare tenendo alta la tensione lungo il 38° parallelo, che separa le due repubbliche sorte dai contrasti della Guerra Fredda. Con i loro appelli, sia il presidente cinese Xi Jinping che il ministro degli Esteri Wang Yi hanno cercato di gettare acqua sul fuoco per scongiurare un pericoloso crescendo di tensioni dopo le mosse navali decise dall'amministrazione Trump nei giorni precedenti il 15 aprile, cioè l'anniversario della nascita di Kim Il-sung, nonno dell'attuale leader Kim Jong-un, eternizzato dalla Costituzione nordcoreana alla carica presidenziale dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1994.
In occasione di quella ed altre ricorrenze, infatti, le forze armate del Paese sono solite svolgere esperimenti missilistici o nucleari per dimostrare al resto del mondo le capacità raggiunge e i progressi compiuti dal punto di vista del dispositivo militare, primo vero e proprio strumento di diplomazia secondo i parametri dalla dottrina del Sŏn'gun, cioè letteralmente «Prima l'Esercito».
Il giorno successivo alla parata celebrativa, un missile era stato effettivamente lanciato dalla base di Sinpo ma, a quanto risulta, quel test è fallito. Sia il Pentagono che il Ministero della Difesa sudcoreano avevano comunicato di averlo intercettato e tracciato, specificando che non si sarebbe trattato di una testata di tipo ICBM, cioè a gittata intercontinentale, quella chiaramente più temuta dagli Stati Uniti per la loro sicurezza nazionale. L'ultimo lancio, invece, risalirebbe al 27 aprile scorso e sarebbe anch'esso fallito. Pure in questo caso, i dati a disposizione, non chiarissimi, indicano che non si tratterebbe di un vettore in grado di attraversare l'Oceano Pacifico.
Nel gioco delle parti, è Pechino ad essersi frapposta tra l'aggressività di Donald Trump e la riluttanza di Pyongyang a rispettare gli accordi internazionali. Sin dall'inizio di quest'ultima crisi, la situazione aveva assunto dimensioni preoccupanti soprattutto perché le prime misure della Casa Bianca erano state decise a poche ore di distanza dall'attacco sferrato in Siria contro la base militare di al-Shayrat per colpire l'esercito di Bashar al-Assad. Per giorni si è temuto che il ritrovato attivismo internazionale del governo statunitense potesse aprire unilateralmente un nuovo fronte di guerra a quattordici anni di distanza dall'avvio delle ostilità in Iraq. Eppure, stavolta, con la forte azione diplomatica della Cina sembra essere (ri)comparso sulla scena un attore internazionale capace di imporre la sua voce con un'autorevolezza determinante che, a differenza della Russia di Putin e delle altre potenze emergenti, può far valere un peso specifico di carattere economico senza eguali al mondo.
La Cina è un partner indispensabile
Stando ad un recente studio di Rhodium Group, nel 2016 gli investimenti diretti esteri cinesi negli Stati Uniti hanno raggiunto la quota record di 45,6 miliardi di dollari. Tra il 2000 e il 2016, le aziende cinesi hanno complessivamente investito negli States circa 109 miliardi di dollari, contro i 228 miliardi investiti da aziende statunitensi in Cina. Eppure, come evidenziano le cifre degli ultimi anni, questo trend è destinato ad invertirsi. Gli investimenti americani in Cina saranno presumibilmente superati da quelli cinesi in America, in particolare nelle aree portuali della West Coast e in quelle industriali del Midwest. Sebbene non manchino alcuni importanti investimenti greenfield, per la maggior parte si tratta di acquisizioni che hanno evitato a molti stabilimenti una chiusura quasi certa o pesanti tagli al personale, salvando decine di migliaia di posti di lavoro americani, compromessi dalla crisi del 2008. Nel 2015, presso i moli Los Angeles, principale porto del Paese, quasi il 60% delle merci in arrivo è giunto dalla Cina, dando lavoro direttamente a circa 32.000 persone tra scaricatori, operatori di terminal, autotrasportatori e operai ferroviari.
Allo stesso tempo, il deficit commerciale accumulato dagli Stati Uniti, denunciato più volte da Trump in campagna elettorale, potrebbe cominciare a ridursi significativamente nei prossimi anni. Secondo le rilevazioni del Consiglio Economico USA-Cina, nel 2015 la sola California ha esportato in terra cinese 13,8 miliardi di dollari in beni e 6,4 miliardi di dollari in servizi, in aumento rispettivamente del 48% e del 273% rispetto al 2006. Tendenze analoghe si riscontrano nello stesso decennio di riferimento per l'export di moltissimi altri Stati americani verso il Paese asiatico, dal Texas (+51% di beni, +271% di servizi) alla Florida (+11% di beni, 208% di servizi), dall'Illinois (+201% di beni, +315% di servizi) al Minnesota (+136% di beni, +291% di servizi) e così via. Se l'export di beni resta più indietro, evidenziando cali più o meno lievi nel corso degli ultimi tre anni, i servizi sembrano invece trovare in Cina un terreno sempre più fertile in concomitanza con l'espansione del terziario locale, che nel 2015 ha cominciato a contribuire all'economia nazionale più della manifattura, sfondando per la prima volta quota 50% nella composizione settoriale del PIL.
I dati, insomma, sono in controtendenza con i pericoli paventati dal presidente americano in campagna elettorale nelle sue dichiarazioni pubbliche, che sembrano essersi infrante, forse definitivamente, sui divani del lussuoso salotto della residenza di Mar-a-Lago, in Florida. Durante il vertice bilaterale con Xi Jinping del 6 aprile scorso, infatti, Trump potrebbe aver compreso che il protezionismo e la chiusura rischiano soltanto di essere medicine sbagliate per una malattia che non esiste o che, se esiste, è stata comunque mal diagnosticata.
Pechino diventa arbitro internazionale
Con l'inserimento della Cina nella nuova crisi coreana, si è assistito ad uno slittamento delle posizioni in campo. Il ruolo di mediatore internazionale, spesso ricoperto da Washington nel corso degli ultimi venticinque anni, salvo poi non sempre disporne in modo realmente imparziale ed equilibrato (basti pensare alla prima Guerra del Golfo o ai Balcani), sembra essersi pesantemente affievolito con l'ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca. La generica volontà di riaffermazione della potenza americana, annunciata un po' grezzamente dal nuovo presidente prima del suo insediamento, ha infatti trovato un terreno di convergenza e di mediazione con l'interventismo repubblicano professato da falchi come John McCain e Condoleezza Rice, con cui Trump, da candidato, si era scontrato più volte per il suo giudizio negativo sulla guerra in Iraq del 2003. Le nomine di Rex Tillerson alla Segreteria di Stato e del generale Herbert McMaster al Consiglio per la Sicurezza Nazionale sembrano infatti aver ridotto le distanze e ricucito almeno gli strappi più importanti all'interno della destra americana. L'attacco improvviso in Siria e lo spostamento immediato della portaerei Carl Vinson verso la Penisola Coreana hanno presumibilmente sancito, almeno per il momento, questa pacificazione interna.
Tuttavia, dai tempi dell'amministrazione George W. Bush molti fattori in campo sono cambiati. La Cina non è più semplicemente la meta verso cui delocalizzare le proprie attività manifatturiere né il primo creditore del debito estero degli Stati Uniti - ruolo che da qualche tempo spetta al Giappone - ma un partner praticamente alla pari come qualsiasi altra economia occidentale. In quest'ottica le parole pronunciate da Xi Jinping a Davos, durante l'ultimo Forum Economico Mondiale, acquisiscono un senso ancora più chiaro. La globalizzazione, come processo storico oggettivo, è ineludibile e sta cambiando gli equilibri del mondo, procedendo verso un assetto multipolare dove la condivisione e la concertazione saranno basi sempre più determinanti per risolvere le principali crisi internazionali. Un approccio recentemente rilanciato dal nuovo segretario generale dell'ONU António Guterres, che ha esortato Cina, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e Russia a compiere tutti gli sforzi necessari per impedire la proliferazione nucleare nella Penisola Coreana e per evitare la minaccia militare.
La soluzione, dunque, dovrebbe passare proprio dalla riapertura dei colloqui a sei, cercando di convincere Pyongyang a tornare al tavolo delle trattative ad otto anni dal suo ritiro unilaterale dal vertice. Prima che il vicepresidente americano Mike Pence tuonasse da Seoul durante la sua visita in Corea del Sud del 16 aprile scorso, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva già sottolineato che in caso di guerra non ci sarebbe alcun vincitore ed invitato «tutte le parti a smettere di provocare e minacciarsi a vicenda e a non permettere che la situazione diventi irreparabile e fuori controllo», mettendo, di fatto, le leadership dei due Paesi sullo stesso piano.
Il prossimo 16 giugno, la città sudcoreana di Jeju ospiterà il secondo vertice annuale del Consiglio di Amministrazione di AIIB, la banca multilaterale di sviluppo a guida cinese per gli investimenti infrastrutturali in Asia, chiamata a svolgere un ruolo di supporto anche all'iniziativa Belt and Road per la ricostruzione in chiave moderna delle antiche direttrici viarie e commerciali della Via della Seta. Potrebbe essere anche un'occasione per cercare di capire come impedire un'escalation militare da cui la stessa Seoul, forse più di Pyongyang, avrebbe molto da perdere.