I nuovi USA di Trump: con la Cina rapporti in chiaroscuro

Trump6(ASI) All'indomani del trionfo di Donald Trump alle presidenziali americane, tutto il mondo si sta interrogando sulle ragioni del sorprendente risultato e di come l'elettorato statunitense possa aver ribaltato completamente il pronostico basato sui numerosi sondaggi degli ultimi mesi.
Le dimensioni dell'errore compiuto da molti analisti è talmente macroscopico che pare lecito domandarsi se un certo wishful thinking non abbia offuscato la vista degli osservatori, spostandone il focus dai dati numerici alla propaganda vera e propria.

Molto più che la Brexit, l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca sconvolge il mondo occidentale, costretto a prendere atto di una spaccatura sociale profonda tra i circoli politici ed intellettuali dominanti e gran parte di una popolazione in cui, dopo la crisi del 2008, non esiste quasi più distinzione tra una classe media in rapido declino e ciò che resta della working class delle periferie o dei piccoli centri. Ora in molti, sia tra i sostenitori che tra i critici, si domandano che direzione assumerà il mandato di Donald Trump, magnate immobiliarista di grande successo ma del tutto estraneo alla politica tradizionale.

Perché ha vinto Donald Trump?

Come dimostra la distribuzione geografica del voto nei vari Stati del Paese, Donald Trump ha stimolato in milioni di suoi concittadini non tanto i sentimenti peggiori della xenofobia e del timore per gli immigrati, quanto piuttosto l'istinto di sopravvivenza in chi sta seriamente rischiando di perdere tutte le certezze costruite in passato, dal salario alla casa, dalla copertura sanitaria al futuro per i propri figli. La dura scorza repubblicana, ben poco abituata ad un simile spirito paternalistico verso le classi più basse, è venuta meno sia perché Donald Trump non ha una carriera politica alle spalle sia perché la formazione sociale degli Stati Uniti è profondamente cambiata dai tempi dell'amministrazione George W. Bush (2001-2008). Nel 2011, il volume di cittadini sotto la soglia di povertà ha toccato l'apice, schizzando a quota 46,2 milioni di persone, pari al 15% della popolazione nazionale degli Stati Uniti. Nel 1980 era pari a circa 27 milioni, mentre nel 2000 a circa 32 milioni. Nel 2015, il dato è sceso a 43,1 milioni ma l'elettorato ha evidentemente bocciato gli sforzi di Obama, giudicati inappropriati, per cercare di rilanciare seriamente l'economia americana.

Donald Trump, in questo senso, ha chiamato a raccolta il mondo delle piccole e medie imprese, del commercio, degli agricoltori, degli artigiani e di tutto coloro che sono stati maggiormente danneggiati dalla crisi del 2008 e mai più davvero ripresisi, nemmeno dopo le cure tentate da Obama e giudicate dal nuovo presidente alla stregua di rimedi improvvisati, quando non di misure assistenzialiste e corporative. Sebbene restando fedele ai classici toni repubblicani critici verso la spesa pubblica, c'è in Trump molto di quella generica retorica anti-globalizzazione e anti-finanza, simile al vocabolario politico che ha già scosso e trasformato le destre politiche in Occidente, dalla Gran Bretagna alla Francia, dall'Olanda all'Austria, cavalcando da un lato l'inefficace gestione dei flussi migratori da parte dei governi socialdemocratici e dall'altro l'impoverimento della classe media.

Gli eccessi del processo di terziarizzazione - che per altro ha contribuito a creare imperi finanziari come quello di Trump - finiscono oggi sul banco degli imputati proprio nel cuore dell'Occidente, dove sono nati e cresciuti ai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. è avvenuto in Gran Bretagna, dove la crisi della manifattura ha portato milioni di elettori delle aree industriali dell'Inghilterra centro-settentrionale a votare per l'uscita dall'Unione Europea, ed è avvenuto anche negli Stati Uniti, dove il depresso Midwest industriale, forse più della Florida, ha deciso il voto presidenziale in favore di Trump.

Verso un nuovo protezionismo?

Come altri leader politici europei, non necessariamente di destra, anche Trump punta il dito contro l'Asia, e la Cina in particolare, in tema di commercio, lamentando il forte aumento del deficit commerciale rispetto alla potenza asiatica nel corso degli ultimi otto anni, che ad ora - secondo Trump - conterebbe per circa 400 miliardi di dollari sul deficit commerciale totale americano. Sul banco degli imputati finisce anche il Messico che, sebbene da sempre fortemente penalizzato dall'Accordo di Libero Scambio Nord-Americano (NAFTA), viene ritenuto "colpevole" di aver cancellato in ventitré anni un terzo dei posti di lavoro manifatturieri statunitensi.

Pretestuosa è anche l'opinione secondo cui la chiusura di 50.000 aziende americane negli ultimi quindici anni andrebbe ricondotta all'ingresso della Cina nel WTO, così come azzardate sono le accuse di manipolazione della valuta rivolte a Pechino, proprio ora che il tasso di cambio dello yuan è stato in buona parte liberalizzato, come richiesto da più parti. Nel suo programma elettorale, Trump è andato giù duro anche sull'Accordo di Libero Scambio con la Corea del Sud (KRFTA), entrato in vigore nel 2012, e sul Partenariato Trans-Pacifico (TPP) - voluto fortemente dal duo Obama-Clinton proprio per arginare la Cina - da cui sostiene di volersi ritirare, lamentando che la sua ratifica avrebbe già provocato la perdita di 2 milioni di posti di lavoro, di cui 740.000 nel settore auto.

Insomma, come era ampiamente prevedibile già da due anni, ora che le dinamiche della globalizzazione volgono verso nuove direzioni e che gli Stati Uniti non sono più in grado di governarla ed indirizzarla a loro pieno vantaggio, il Paese si rifugia nel protezionismo. Non sarà una virata totale, perché indietro non si può tornare e perché gli accordi firmati vanno rispettati o rinegoziati ad un prezzo compensativo dei danni arrecati alla controparte. Tuttavia il NAFTA, il TPP, il KRFTA e il commercio con la Cina potrebbero subire pesanti battute d'arresto attraverso nuove misure tariffarie ad alto impatto, che nel breve periodo danneggerebbero gli investimenti esteri di molti importanti brand statunitensi, come dimostrano le preoccupazioni diffuse nel settore auto, e nel medio periodo finirebbero col ritorcersi contro la stessa manifattura interna dal momento che significativi, specie in Messico, sono i volumi di produzione off-shore dei beni intermedi destinati alle aziende statunitensi.

In particolare, per quanto riguarda la Cina, la tesi che serpeggia pericolosamente in Occidente, fatta propria anche da Trump e dal suo probabile futuro ministro del Tesoro Jamie Dimon (CEO di JPMorgan Chase), sostiene che l'assenza di reali condizioni di competizione e di trasparenza, e le limitazioni alle corporation straniere renderebbero la Cina diversa dalle altre economie avanzate. Eppure, la sensazione è che questa lettura nasca dalla volontà, molto più politica che economica, di isolare il Paese asiatico.

La resistenza a riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato è uno dei temi internazionali caldi di questo autunno, che proprio il prossimo 11 dicembre vivrà un passaggio fondamentale. Entro quella data, infatti, l'Unione Europea sarà chiamata a rispettare gli impegni assunti nel 2001, all'atto dell'ingresso della Cina nel WTO. Sia molti rappresentanti dell'establishment, trasversali al PPE e al PSE, che le forze anti-establishment, come ad esempio la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle in Italia, chiedono che alla Cina continuino ad essere applicate procedure sostanzialmente inique, nonostante le riforme già in essere e quelle delineate nel nuovo piano quinquennale stiano già traghettando il Paese verso il taglio dell'overcapacity nei settori più controversi (acciaio in primis), la semplificazione e lo snellimento della pubblica amministrazione, la significativa riduzione del peso dello Stato nel processo di allocazione delle risorse, la riforma delle aziende pubbliche e la riforma di legge sulla proprietà intellettuale. Trasformazioni per ora del tutto ignorate dagli oppositori del riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina, che continuano a parlare del Paese asiatico come se il tempo fosse fermo agli anni Novanta.

Politica estera semi-isolazionista

Il tema del "ritiro" è uno dei più discussi e dibattuti tra la stampa statunitense e internazionale anche per quanto riguarda la politica estera. Se da un lato Trump contesta ad Obama un ritiro giudicato troppo frettoloso dall'Iraq e corresponsabile dell'emersione dell'ISIS nel contesto locale, dall'altro ha più volte annunciato di voler rivedere l'intero quadro degli impegni assunti all'estero dal Paese, concentrando le risorse destinate alla difesa su questioni di stretto interesse nazionale. La probabile nomina al Dipartimento di Stato del conservatore Newt Gingrich, un ex luterano convertitosi nel 2009 al cattolicesimo, e la sicura presenza dell'altro conservatore cristiano Mike Pence alla vicepresidenza lasciano supporre che la cooperazione internazionale di cui parla Trump nel suo programma si focalizzerà principalmente sulla lotta al radicalismo islamico e al terrorismo internazionale.

Per quanto riguarda il resto, qualche mese prima del voto, Gingrich era stato molto chiaro sulla NATO e sulle altre alleanze tradizionali, come Giappone e Corea del Sud: se vorranno ancora il supporto militare di Washington dovranno sostenerne le spese. Nell'ambito delle relazioni internazionali, dunque, è plausibile che Trump non rispolvererà il pragmatismo di Nixon né l'attivismo reaganiano. Dal presidente che vinse la Guerra Fredda con un mix di intransigenza militare e soft-power, Trump mutuerà più che altro le ricette di politica economica puntando su una nuova riforma dell'offerta, fondata sulla riduzione delle imposte per imprese e famiglie. Data quasi per certa la definitiva disintegrazione politica dei neoconservatori, che si sono esposti in campagna elettorale a favore di Hillary Clinton, resteranno presumibilmente fuori anche vecchi repubblicani di tradizione realista, come John McCain o Condoleezza Rice. Sebbene la squadra di Trump sarà sicuramente distante pure dal paleoconservatorismo di Pat Buchanan, mutuerà da questo una certa tendenza a non inserirsi in tutti gli archi di crisi del pianeta.

Questo, unito al possibile abbandono del TPP, sarà un tratto ovviamente molto apprezzato dalla Cina, che negli otto anni del doppio mandato di Obama ha dovuto più volte ricorrere alle comunicazioni di emergenza per mettere in allerta le proprie navi da guerra e i propri aerei da caccia in risposta alle incursioni statunitensi nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale. La sentenza della Corte internazionale de L'Aja di pochi mesi fa, a conclusione di un arbitrato iniziato nel 2013 e mai riconosciuto dal governo cinese, aveva già messo in serio imbarazzo il nuovo presidente filippino Rodrigo Duterte che, con uno strappo senza precedenti, ha umiliato pubblicamente Barack Obama, accusandolo di aver volutamente soffiato sul fuoco dello scontro regionale tra Pechino e Manila e rivolgendosi a Cina e Russia come nuovi partner del suo Paese.

Le ragioni addotte dalle Forze Armate degli Stati Uniti per le loro incursioni nelle acque degli arcipelaghi in discussione, appellandosi alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare, richiamavano la garanzia della libertà di navigazione ma venivano puntualmente bollate come «pretesti» dal Ministero della Difesa cinese. Con Trump, probabilmente, verrà meno l'internazionalismo richiamato da Obama per legittimare le mosse navali davanti alle coste cinesi ma andrà valutato se il nuovo presidente intenderà ricorrere o meno allo strumento militare per ottenere da Pechino alcune concessioni nell'ambito delle politiche commerciali e di quelle monetarie, le uniche cose che sembrano davvero preoccuparlo nel quadro dei rapporti con la Cina.

La cooperazione anti-terrorismo, invece, sarà un campo aperto e potrebbe segnare una svolta importante per Pechino, se Washington, anche in virtù del loro coinvolgimento in Siria e Iraq, riconoscesse definitivamente tutte le sigle dell'estremismo uiguro attive nello Xinjiang come terroristiche, consegnando inoltre alle autorità cinesi l'esule miliardaria Rebiya Kadeer, madrina della causa separatista-islamista, oggi residente in Virginia.

Per quanto riguarda la questione tibetana, andranno valutate le pressioni che l'attivismo indipendentista all'estero, molto influente nelle sfere politiche occidentali, eserciterà sull'amministrazione Trump, ma di certo sarà ancora complicato per il nuovo presidente rompere i rapporti con il Dalai Lama.

Resta aperta, invece, la possibilità di imprimere una svolta costruttiva alla questione di Taiwan. In questo caso, la Cina si attende, anche in coerenza con quanto espresso da Gingrich, che il Pentagono cominci a rispettare seriamente gli impegni presi a partire dal 1979 (Taiwan Relations Act), riconoscendo il principio di "una sola Cina" e cancellando progressivamente le forniture militari a Taipei.

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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