(ASI) Ancora sorprese alle primarie dell’8 marzo. Il giorno della festa della donna negli Stati Uniti è coinciso con le primarie repubblicane in 4 stati (Hawaii, Idaho, Michigan e Mississippi), e con quelle democratiche in 2 (Mississippi e Michigan).
Ad emergere come trionfatore indiscusso è stato ancora una volta il magnate miliardario newyorkese Donald Trump che si è aggiudicato ben 3 dei 4 stati al voto, lasciando all’ormai eterno secondo Ted Cruz, governatore del Texas, il solo risicato successo nell’Idaho. Gli stati aggiudicati da Trump non sono solo rilevanti per numero,ma anche per peso politico. Il magnate newyorkese è riuscito infatti ad aggiudicarsi gli strategici Mississippi (47,3%), Michigan (36,5%) e le Hawaii (42,4%). Questi tre stati rivestono da sempre una strategica importanza politica. I primi due per densità e peso economico (Detroit, cuore dell’industria automobilistica statunitense è la capitale del Michigan). Mentre le Hawaii, sono spesso state un indicatore delle capacità attrattive di un candidato in virtù dell’eterogeneità della popolazione locale e della forte presenza di militari. In tutti e tre i casi sono state premiate le rivendicazioni anti establishment di Trump, la linea rigorista con l’immigrazione e il richiamo alla ricostruzione del sogno americano e alla lotta contro la globalizzazione ed il liberismo. Lo sfidante Cruz si è aggiudicato la vittoria nello scarsamente rilevante Idaho con il 45,4% delle preferenze staccando di poco Trump. Ancora peggio è andata a Marco Rubio, governatore della Florida, che ancora una volta si è confermato stabilmente terzo e ben staccato tanto dall’inarrivabile Trump, quanto dall’inseguitore di quest’ultimo, cioè Ted Cruz. Le speranze di Rubio e del partito di poter ribaltare le sorti delle primarie, con il governatore della Florida quale campione della linea anti-Trump, sono andate ormai del tutto sfumate ancor prima del 15 marzo, data del voto in Florida. Proprio in virtù dello scarso risultato di Rubio, e forte della propria vittoria nell’Idaho, Ted Cruz ha chiesto ancora una volta a gran voce di ricevere ufficialmente l’investitura di “campione” del partito per fermare Donald Trump. Quest’ultimo, malgrado i travolgenti successi ottenuti, non è però ancora in possesso del 51% dei voti repubblicani, pertanto la strategia di far convergere i voti di tutti gli altri candidati su uno solo per fermare Trump sarebbe ancora attuabile. Il governatore del Texas ha incalzato i vertici del partito repubblicano sottolineando che il fattore tempo gioca a favore del magnate newyorkese. Per ora i vertici del partito repubblicano hanno preso tempo e rimandato la decisione a data da definirsi. La posizione dell’establishment repubblicana è infatti sempre più precaria. Il terreno franoso su cui ora si è venuta a trovare in larga parte a causa della intransigente opposizione a Trump, è diventato un pantano politico reso ancor più pericoloso dal forte consenso che Trump sta riscuotendo tra tutte le fasce della popolazione, e specialmente tra le masse operaie e contadine americane, da sempre tra le categorie con più peso politico in chiave elettorale.
In casa democratica è finita sostanzialmente in parità. Hillary Clinton si è aggiudicata il Mississippi con percentuale “bulgara” dell’82,6% dimostrando ancora una volta la bontà della propria strategia politica. Cavalcando l’ondata del malcontento della comunità afroamericana e fomentando ancora una volta un vero e proprio scontro razziale, le Clinton è riuscita a dimostrare il peso delle grandi “ideologie” massificate in casa democratica. Per contro la Clinton non è riuscita con lo stesso metodo ad aggiudicarsi il Michigan. In quest’ultimo contesto ha infatti prevalso lo sfidante “socialista” Bernie Sanders, governatore del Vermont. Con un risicato 50,1%, Sanders ha potuto ravvivare le sue speranze di restare in corsa per la nomination democratica. Ma il risultato più importante di Sanders è stata la dimostrazione della non infallibilità del metodo Hillary che ha lasciato spiazzata quest’ultima e gli analisti che la davano vincente anche nel Michigan. Dove infatti le comunità afroamericane non assumono un determinante peso politico, Hillary Clinton dimostra ancora debolezza. Quest’ultima è insita nei fin troppi e troppo stretti legami della Clinton con l’alta finanza di Wall Street, responsabile della crisi globale, e nel fatto di rappresentare l’ideale prosecuzione delle politiche del presidente Obama, mal viste dall’ex-ceto medio e dalla classe bianca operaia. Altro fattore di sorprendente debolezza nella strategia politica della Clinton, la non inclusione della comunità ispanica nel quadro della strategia di scontro razziale. La Clinton infatti non ha mai preso forti posizioni a favore delle rivendicazioni della comunità ispanica, come invece accaduto nel caso di quella afroamericana, poiché si è limitata solo a generici proclami e all’opposizione alla costruzione del muro al confine con il Messico voluto da Trump.
Alexandru Rares Cenusa – Agenzia Stampa Italia
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