(ASI) Quindici anni fa la Cina fece ingresso, sei anni dopo l'India, nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Si trattò di un passaggio storico epocale, perché in quella fase le due potenze asiatiche tornavano ad essere protagoniste dell'economia mondiale circa 150 anni dopo l'inizio del loro declino politico e delle incursioni coloniali
europee. Fino a quel momento, secondo le stime degli storici, i due grandi imperi orientali avevano contribuito per un lungo periodo quasi alla metà del PIL mondiale dell'epoca. Da lì, attraverso la Via della Seta, erano giunti per secoli i tessuti più preziosi, la manifattura più pregiata, le invenzioni tecnologiche più innovative, i poemi e le saghe più avvincenti. Soltanto l'Europa, scossa dalla rivoluzione industriale ancor più che da quella francese, sembrava poter reggere - a fatica - il loro passo, malgrado le divisioni e le contese tra Londra, Berlino, Parigi, Mosca, Madrid, Lisbona e Amsterdam. Gli Stati Uniti, da poco tempo indipendenti, non erano ancora nemmeno l'ombra della potenza economica e militare che avrebbe dominato il XX secolo. Il Giappone si accingeva ad entrare nell'era Meiji, che trasformò il Paese in una potenza molto avanzata ma al caro prezzo di una forte occidentalizzazione.
Segno del mondo che torna a cambiare è dunque la riemersione della Cina, seconda economia mondiale, prima potenza commerciale e terza potenza militare al mondo. Malgrado il rallentamento della crescita ed anzi, proprio in virtù di questo, oggi il gigante asiatico si accinge a compiere un nuovo giro di boa e a riformare il proprio sistema economico secondo i criteri della "nuova normalità" individuati dal presidente Xi Jinping e dal governo. Vero e proprio spartiacque, questo 2016 sarà l'anno in cui l'Unione Europea, ormai primo partner commerciale della Cina, dovrà decidere in merito al riconoscimento dello status di economia di mercato (MES) alla potenza orientale, grazie al quale potrebbe, fra le altre cose, godere di un regime uguale a quello degli altri Paesi in materia di import/export.
I conti in sospeso
Gli accordi sottoscritti tra Pechino e il WTO nel 2001 prevedevano una fase di transizione di quindici anni durante i quali la Repubblica Popolare avrebbe avuto il tempo ritenuto necessario per adeguare definitivamente la sua economia alle regole del commercio mondiale e vedersi così universalmente riconosciuto il MES. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea chiesero espressamente che durante questo periodo di aggiustamento fosse mantenuta la cosiddetta procedura di selezione del paese di riferimento, per conservare i prezzi delle merci allo stesso livello del mercato interno.
Sul piano teorico, questo meccanismo anti-dumping serve ad impedire che un produttore esporti in un mercato estero un bene proponendolo a prezzi più bassi rispetto al prezzo dello stesso bene nel suo mercato interno. Tale normativa dovrebbe dunque bloccare i tentativi di "predazione" e monopolizzazione dei mercati e tutelare la libera concorrenza, ma in realtà - se abusata o distorta - può addirittura ostacolarla. Vi è infatti la possibilità che aziende ormai incapaci di innovarsi e competere sui mercati internazionali ricorrano a procedure legali, chiedendo il sostegno della politica o della magistratura per stroncare la concorrenza straniera attraverso l'imposizione di forti dazi sulle merci provenienti dall'estero.
L'Art. 15 dell'accordo del 2001 sull'adesione della Cina al WTO stabiliva che al termine del periodo transitorio, cioè il prossimo 11 dicembre, l'applicazione della procedura anti-dumping sarebbe inderogabilmente cessata. Questa disposizione nasceva dalla consapevolezza di molti analisti internazionali che un periodo di quindici anni sarebbe stato più che sufficiente alla Cina per proseguire sulle via delle riforme interne in materia industriale, commerciale, giuslavoristica ed occupazionale, adeguando le normative nazionali a quelle internazionali, incrementando i criteri di qualità e di sostenibilità della produzione ed innalzando i livelli salariali medi. La Legge sul Lavoro e la Legge sul Contratto di Lavoro approvate nel corso del 2007, l'XI (2006-2010) ed il XII (2011-2015) Piano Quinquennale, le numerose campagne anti-corruzione per aumentare i livelli di trasparenza nella complessa funzione pubblica cinese e gli obiettivi stabiliti nel quadro dell'INDC sulla lotta ai cambiamenti climatici in seno alle Nazioni Unite (UNFCCC) sono solo alcuni esempi dei grandi impegni legislativi che Pechino ha assunto e onorato nel corso degli ultimi dieci anni.
Tuttavia, Manfred Weber, capogruppo del PPE al Parlamento Europeo, ha recentemente ribadito che «la Cina non è un'economia di mercato», ignorando il fatto che 81 Paesi membri del WTO hanno già riconosciuto da tempo questo status alla Cina ed altri lo faranno nei prossimi anni. Dietro una polemica di natura apparentemente giuridico-commerciale, si nasconde in realtà un pregiudizio politico molto forte nei confronti di una teoria, quella dell'economia socialista di mercato, lanciata in Cina alla fine degli anni Settanta e praticata - ufficialmente o di fatto - da molti Paesi nel mondo, ma che viene sistematicamente respinta negli Stati Uniti e in Europa, dove pure lo Stato e le banche centrali non mancano di intervenire, a volte anche in modo invasivo, nell'economia.
Il "mito" del lavoro a basso costo
Per quanto riguarda la concorrenza sleale nello specifico, se si volesse realizzare un regime di dumping realmente vantaggioso, considerando anche le spese per il trasporto all'estero e i passaggi doganali, sarebbe necessario che i costi di produzione fossero talmente bassi da consentire comunque un ricavo sulla vendita del bene deprezzato. Allo stesso tempo, anche le sovvenzioni statali compensative, tirate spesso in ballo dai sostenitori dei dazi, sarebbero comunque una strategia a perdere, che nel medio-lungo periodo andrebbe a pesare in modo insostenibile sul debito pubblico e dunque sull'affidabilità generale del Paese esportatore.
Ragionando in termini produttivi, è impensabile che un Paese che, come la Cina, ha raggiunto un livello di sviluppo tale da essere la prima potenza commerciale mondiale, possa ancora costruire la sua competitività sull'alta intensità di manodopera a basso o bassissimo costo, come avviene nei Paesi in via di sviluppo. Questa macro-tendenza generale era stata già confermata da un rapporto dell'Asian Development Bank (ADB) del 2013, in cui si affermava: «La manifattura a basso costo e ad alta intensità di manodopera è stata riallocata verso località a costi inferiori, tra cui il Sud-est asiatico, che ha registrato un intenso aumento nella sua quota di investimento globale». L'annunciata riforma, finalizzata alla ristrutturazione del mercato interno e ad un più spinto riorientamento industriale verso l'hi-tech e i servizi, poggia infatti sulle basi del generale miglioramento delle condizioni salariali registrato nel corso dell'ultimo decennio in Cina: «I salari minimi - proseguiva il rapporto dell'ADB - sono cresciuti addirittura più velocemente di quelli medi. Nel 2011, i salari minimi sono aumentati mediamente del 17% in tutto il Paese, dove province come Anhui e Henan hanno visto un incremento di oltre il 30% soltanto in quell'anno. Inoltre, i costi non-salariali come quelli relativi alle assunzioni e alle liquidazioni sono aumentati con l'entrata in vigore della Legge sul Contratto di Lavoro nel 2008». Lo stesso rapporto della banca a guida nipponica, citando la classifica della competitività globale diramata dal Forum Economico Mondiale nel settembre del 2012, notava come la Cina fosse scesa, per la prima volta da sette anni a quella parte, dal 26° al 29° posto a causa soprattutto dell'aumento del costo del lavoro e di una minore flessibilità salariale.
A dimostrazione dell'impatto concreto che gli aumenti salariali degli ultimi anni hanno impresso sul potere d'acquisto della popolazione, il dato del reddito medio disponibile è in costante crescita (+7,4% nel 2015), estendendo la classe media cinese a decine milioni di persone in più ogni anno. Secondo McKinsey&Company, fino al 2000 soltanto il 4% delle famiglie cinesi residenti nelle aree urbane rientrava nella fascia reddituale compresa tra i 9.000 e 34.000 dollari all'anno (ovviamente, da commutare a parità di potere d'acquisto), ma nel 2012 questa percentuale è schizzata al 68%.
Tensione nociva per l'Europa
Al momento, i principali contenziosi tra Europa e Cina riguardano due settori: il fotovoltaico e l'acciaio. A partire dal 2013, i pannelli solari provenienti dalla Cina sono stati penalizzati dall'imposizione di dazi (anti-dumping e anti-sovvenzioni) fino al livello massimo del 47,6%, su iniziativa di alcune aziende europee che hanno fatto fronte comune creando la EU Pro-Sun, presieduta da Milan Nitzschke, portavoce del CdA del colosso tedesco SolarWorld nonché capofila della protesta andata in scena qualche giorno fa per le strade di Bruxelles con l'obiettivo di chiedere alla Commissione Europea di innalzare la soglia dei prezzi minimi all'importazione per i prodotti cinesi e fare pressione sul commissario europeo al Commercio Cecilia Malmström. Già piuttosto scettica sulla completa rimozione della legislazione comunitaria vigente nei confronti della Cina, la Malmström stima in 188.000 il numero dei posti di lavoro che andrebbero persi in Europa se l'anti-dumping verso la Cina fosse eliminato. In Europa, c'è addirittura chi - e tra questi anche il Movimento 5 Stelle - paventa la perdita di 2,7 milioni di posti di lavoro e del 2% del PIL.
Il bailamme di cifre, soprattutto in una materia così delicata e fitta di conflitti di interessi, dimostra che queste stime sono del tutto aleatorie e non tengono nella giusta considerazione gli svantaggi per i consumatori europei e per le stesse piccole e medie imprese del settore estranee alla lobby pro-antidumping sostenuta da SolarWorld, che subirebbero le conseguenze più dirette della perdita di competitività del fotovoltaico europeo. Stime opposte, infatti, già indicavano tre anni fa il pericolo per le tante aziende europee che lavorano con quelle cinesi, tra cui riconosciuti leader mondiali quali SunTech Power, Yingli Green Energy, Hanwha Solar One o Jinko Solar. Il prezzo minimo di importazione imposto fino ad oggi ai pannelli cinesi è infatti di 0,56 euro per watt, molto più alto del prezzo medio mondiale. Inoltre, dopo un indagine di otto mesi circa, pochi giorni fa le sanzioni europee hanno colpito anche Taiwan e la Malesia, accusate di aver importato pannelli solari cinesi e di averli riesportati verso l'Europa per consentire alla Cina di aggirare i dazi.
Insomma, questa guerra commerciale sta seriamente rischiando di danneggiare l'Europa, anziché difenderla, come vorrebbe invece far credere EU Pro-Sun, e di precluderle importanti fette di mercato in Asia. Molti produttori europei lo hanno capito e si sono riuniti nell'Associazione Europea dell'Industria Fotovoltaica (EPIA), nota anche come SolarPower. Nel 2015, SolarPower aveva già chiesto l'eliminazione dei dazi, affermando esplicitamente che «la metà circa dei 265.000 posti di lavoro nel fotovoltaico che si contavano in Europa nel 2011 sono andati perduti, e la gran parte dei licenziamenti è avvenuta nel comparto installazione, ad alta intensità di manodopera».
In pratica, dall'inizio dell'applicazione dell'anti-dumping e del prezzo minimo di importazione nei confronti dei pannelli solari cinesi, gli effetti negativi riscontrati sul mercato europeo del fotovoltaico dimostrano l'esatto contrario di quanto affermano i sostenitori dei dazi. Non è difficile prevedere, dunque, che lo stesso fenomeno possa estendersi anche al settore siderurgico, dove l'Unione Europea ha già applicato dazi provvisori sull’acciaio laminato a freddo, che vanno dal 13,8% al 16% per le società cinesi e dal 19,8% al 26,2% per quelle russe.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia
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