Inequilibrio 2016. Gran finale con la Trilogia della provincia di e con Oscar De Summa dedicata a Erchie, città emblematica del nostro Meridione.

(ASI) Castello Pasquini, Castiglioncello). Anche quest’anno il Festival che anima, per due settimane, la costa livornese, si congeda dal suo pubblico.
Un’edizione particolarmente interessante, la XIX, che ha riscosso anche un notevole successo di critica e si spera abbia dissipato, cifre e proposte alla mano, ogni dubbio sul suo valore aggiunto quale Festival della scena contemporanea.  Le ultime tre serate sono state anche l’occasione per vedere l’intera trilogia firmata da uno tra gli autori/attori più interessanti del panorama italiano e, in prima nazionale, lo spettacolo conclusivo, La sorella di Gesucristo.
Ma iniziamo da Diario di provincia, in scena venerdì 8 luglio, spettacolo ormai rodato, nel quale De Summa racconta l’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo meridionale e degli abitanti del suo piccolo paese in provincia di Brindisi. Per raccontare questo Sud di fine anni 70, primi anni 80, l’attore utilizza il grammelot - portato in auge nel teatro contemporaneo da Dario Fo. Il suo linguaggio, in delicato equilibrio tra dialetto e puro rimando fonetico, risulta sempre efficace e suggestivo, comprensibile quanto quello del maestro, grazie alle ottime capacità interpretative e comunicative.
Prendono così vita tutti i personaggi di un presepe teatrale - che sarebbe piaciuto allo steso Eduardo - senza mai scadere nel cabaret (con tutto il rispetto per questa forma di comicità popolare). Il trucco, se di questo si può parlare, risiede probabilmente nel fatto che De Summa non ha bisogno del cappotto di Epifanio per vestire i panni dei suoi vari - e, a volte, avariati - personaggi. Da attore consumato, con un semplice completo nero su sfondo nero, controlla corpo e voce, cadenze e apostrofi, gesti e movimenti, perfino il respiro, con tale perizia da trasformarsi non in una miriade di macchiette che recitano stereotipi, ma in individui a tutto tondo, che interpretano certezze e paure, desideri e ossessioni, perfino i luoghi comuni, di una società atavicamente legata alle proprie radici e a un ordine sociale di matrice patriarcale. E il colpo di pistola che separa l’adolescenza perduta da una maturità incerta, risuona come una denuncia dell’immobilismo, e delle criminalità e connivenze, più forte e lancinante di cento slogan.

Sabato 9 luglio è la volta di Stasera sono in vena. Lo scarto temporale è evidente e sottolineato dalle scelte musicali: siamo nei pieni anni 80. Il luogo è sempre Erchie (la Belleville di De Summa). Mentre l’azione si sposta, dai tentativi maldestri di evadere dal claustrofobico paesino di provincia con lavori improvvisati e piccoli furti per far passare un tempo che sembra infinito perché immobile (di Diario di provincia); in un’escalation di situazioni sempre più tese che sfoceranno nell’ultimo buco, quello dell’overdose.
Il protagonista è lo stesso De Summa che racconta, con una nostalgia accorata per la propria autobiografia, gli anni in cui l’Italia fu invasa da un fiume di brown sugar - che spazzò ideali e critica al potere, oltre alle vite di tanti, troppi che non si resero conto che quell’estasi artificiale li avrebbe condotti dritti alla morte.
Per investire il pubblico con il pathos epico di quegli anni, De Summa sceglie come mezzo teatrale, non più la pantomima e il grammelot, bensì la canzone dal vivo. Come nella nostra vita quotidiana, ogni avvenimento che porterà al climax ha un suo motivo musicale a sottolinearne la forza drammatica. E, nella struggente Hallelujah di Leonard Cohen (e Jeff Buckley), si spegne una vita e un’altra rinasce.

Domenica 10 luglio, in prima nazionale, ecco il terzo capitolo - La sorella di Gesucristo. Dopo la Commedia dell’Arte, e il musical, è al cinema che De Summa rivolge lo sguardo per concludere la sua Trilogia.
Gli abitanti di Erchie, come quelli di Cronaca di una morte annunciata, sono tutti consapevoli di quanto accadrà, quando Maria - la sorella di Gesucristo (soprannome dato al fratello) - impugna la rivoltella e attraversa il paese per uccidere l’uomo che l’ha violentata. Il ritmo del racconto e il paese descritto sono mutuati dall’epopea western. Questo Mezzogiorno di fuoco, però, non scimmiotta personaggi e topoi estranei alla nostra tradizione, bensì fa proprio l’ordito del racconto d’Oltreoceano, intrecciandolo con una trama fortemente italiana. Ed è giusto rivendicare l’aggettivo italiano, e non solo meridionale, perché la violenza contro le donne e il femminicidio sono una piaga infetta in tutto il Paese - da nord a sud.
Con pudore, De Summa non racconta i pensieri di Maria, ma ne incarna il corpo che incede fermo mentre, intorno a lei, si assembra la folla. E dà voce proprio a quella folla di individui, personaggi a tutto tondo e, insieme, esemplari di paradigmi e archetipi sociali. La madre che, prima di essere tale, è donna. L’amica invidiosa che tradisce, in fondo, per amore. Il padre che vede nella sofferenza di Maria, quella delle proprie figlie. L’innamorato, che non potrà più sperare in un futuro. Le ragazze del paese, umiliate da quei complimenti che sono insulti all’intelligenza e alla libertà delle donne, che hanno il coraggio di farsi avanti, esprimendo la propria solidarietà. La maestra che difende la sua alunna dalle calunnie, che si insinuano nella mente degli astanti. Perché basta una parola, un’accusa velata di “esserselo voluto” perché la folla possa dimenticare chi è la vittima e prendere le parti del maschio, rivendicando il suo diritto a ricorrere a quella violenza che sembra giusta solo perché atavica - in un’Italia che solo nel 1981 ha avuto il coraggio di abrogare delitto d’onore e matrimonio riparatore. L’andamento dello spettacolo è quello della marea. Ogni onda porta con sé nuovi personaggi e punti di vista. A ritmare i passaggi, i disegni di Massimo Pastore, che non si incollano in maniera posticcia come certi parrucchini del teatro multimediale, perché congruamente giustificati dalla scelta di De Summa di trattare la materia drammaturgica con un piglio decisamente filmico.
E come in Rebecca di Alfred Hitchcock, ecco che anche nel finale l’autore spiazza, con un cambio di visuale decisamente cinematografico, indossando i panni del carnefice, del maschio stupratore.
Il colpo di pistola, politicamente scorretto, si giustifica nell’arte stessa - che non può né deve derogare dall’essere un cerchio chiuso di luogo, tempo e azione che si compiono, e si giustificano, su quel palcoscenico/mondo che è il teatro. Agli spettatori, tornati a casa, riflettere. Innestare temi e domande nella loro quotidianità. Tentare di scoprire il modo perché questo baratro si chiuda e le donne, domani, possano vivere sicure della loro integrità fisica e psicologica, smettendo di temere l’altra metà del cielo.

Simona M. Frigerio - Agenzia Stampa Italia

 

Foto di Cristina Grazia

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