(ASI) Perugia - L’Open Data Journalism è il tema del DataCamp 2012 che questa mattina si è tenuto presso l’Hotel La Rosetta nella penultima giornata del Festival del Giornalismo. L’incontro, realizzato nella forma del BarCamp, si è svolto grazie alla partecipazione attiva del pubblico in sala, che ha proposto i contenuti di questa sorta di “non conferenza”.
Moderatori dell’incontro Ernesto Belisario e Stefano Epifani, responsabili dell’Associazione Italiana per Open Government, coadiuvati da Francesca Sensini, web content manager.
Cosa sono gli Open Data? E in che rapporto si pongono quest’ultimi con il Data Journalism? Questi alcuni degli interrogativi che hanno dato vita al dibattito, perché in primo luogo è sempre buona regola capire di cosa parliamo. E allora proviamo a rispondere.
Gli Open Data, letteralmente dati aperti, sono alcune tipologie di dati liberamente accessibili a tutti, senza alcuna forma di restrizione che ne limiti la riproduzione.
Non tutti gli elementi della realtà sono però atti a diventare open data. Per essere tali, infatti, questi ultimi devono possedere determinate caratteristiche, quali l’accuratezza, un elevato livello di dettaglio, il tempismo. “Occorrono dati a elevata potenzialità, dotati di qualità, per risultare utili come open data”- afferma uno dei primi relatori, Vincenzo Patruno, nella veste di rappresentante dell’Istat, l’Istituto nazionale di statistica che ad oggi può essere considerato il più grande produttore di dati del sistema nazionale.
Dopo aver brevemente chiarito di cosa si tratta quando parliamo di open data, la discussione si sposta sul rapporto che questi ultimi hanno con il giornalismo: dunque sul Data Journalism.
“È un modo innovativo di fare giornalismo, in grado di stimolare la partecipazione”- così Andrea Fama, collaboratore di Lsd, definisce un fenomeno che ormai ha preso sempre più piede nella nostra società. Si parte dal dato grezzo e lo si rielabora in modo da presentarlo con un nuovo contenuto. Un giornalismo di elite? Certamente no. Solo un giornalismo d’inchiesta che, oltre ai tradizionali criteri di ricerca e lavoro, si avvale in più di database, mappe digitali e software in grado di mettere in relazione tra loro le grandi quantità di dati rese disponibili dalla digitalizzazione. Insomma non una complicazione dell’attività giornalistica, ma solo un metodo che consente di sfruttare appieno le novità tecnologiche attuali. Il tutto in un’ottica di democrazia partecipativa, che consenta ai lettori, cittadini della società civile, di essere considerati parte attiva, e non passiva, di questo processo.
E qui sorgono due altre questioni: vi è un vero interesse dei lettori a conoscere i dati? E ancora: ci sono dei soggetti, come imprese e pubblica amministrazione, in grado di offrirceli?
La risposta di Mario Tedeschini Lalli del gruppo Editoriale L’Espresso è illuminante a proposito: ”Bisogna tornare al dato, seppure questo è stato, e lo è tutt’oggi, storicamente un problema”. Sì, perché al lettore i dati interessano ancora, anche se secondo Alessandro Giglioli, altro giornalista del medesimo settimanale, il racconto di un dato privo di un tentativo di interpretazione personale da parte del giornalista deve essere considerato “riluttante”. Come a dire: occorre la materia prima, ma poi fondamentale è il ruolo del giornalista nel rielaborare il dato; e questo è vero se parliamo di Data Journalism.
“Quanto alla pubblica amministrazione”- afferma poi Belisario- “ non possiamo aspettare che sia pronta ad accogliere questa nuova cultura dell’open data. Dobbiamo lavorare ora, nel presente, per realizzarla”.
Un incontro all’insegna del futuro insomma, anche se in realtà l’open data, che altro non è se non una minima parte della più ampia disciplina dell’open government, è già il presente.
E allora non ci resta che combattere i nemici di questa nuova cultura; nemici che simpaticamente Belisario e Epifani raggruppano in dieci macro-categorie: i c.d. “Saputelli dell’OpenData”.