In un saggio della Laterza l’analisi impietosa sullo stato dei beni culturali in Italia
(ASI) Antonio Leo Tarasco è uno dei giovani manager in servizio oggi al Mibact, dirigente dal 2010 del Ministero dei beni e delle attività culturali, e del turismo nell’ambito della Direzione generale Musei. Oggi si occupa soprattutto di finanziamento e contabilità dei musei statali, concessione d'uso dei beni culturali, "prestiti" internazionali, sponsorizzazioni e promozione delle donazioni, acquisti di beni culturali a trattativa privata, concessione di garanzie assicurative statali, valutazione della performance degli istituti e dei luoghi della cultura statali, contrattualistica.
Insomma, un manager a 360 gradi, che ha alle spalle anni di ricerca e di insegnamento universitario. Ha appena scritto un libro per Laterza dal titolo “Diritto e gestione del patrimonio culturale” ed in cui affronta per la prima volta l’analisi complessa dello stato di salute dei beni Culturali in Italia. Tema questo che lo studioso affronta senza mediazioni e con il taglio classico dell’economista navigato. La sua opinione è infatti senza se e senza ma: “L’emergenza Coronavirus oggi si riflette sul patrimonio culturale in termini fortemente negativi.
La chiusura imposta dai provvedimenti governativi sta infatti determinando, come in ogni altro settore economico-produttivo italiano, perdite ingenti valutabili nell’ordine di 20 milioni di euro al mese nel caso dei beni culturali materiali statali”. Troppo personale? “Sfatiamo un mito: il personale non manca. Si può affermare – spiega lo studioso- che manchi solo se si pretende di continuare a gestire 750 istituti e luoghi della cultura in modo diretto, a tenere aperti tutte le strutture ogni giorno dell’anno, indipendentemente dall’affluenza dei visitatori.
Se invece si individuassero davvero gli istituti essenziali e si affidassero a soggetti terzi (imprese, associazioni, enti locali) la gestione di altri luoghi, si scoprirebbe che il personale ministeriale è finanche sovrabbondante. Si deve pure accettare l’idea che un museo scarsamente visitato (d’inverno, ad esempio) vada chiuso in ragione della stagionalità; e che determinati istituti vadano accorpati in funzione delle collezioni. In pratica, occorre razionalizzare il numero di strutture e il modo di gestirle, in ragione del budget a disposizione e delle preferenze dei visitatori. Se si fa questo si scopre che il personale c’è, eccome.
E poi -aggiunge l’autore-occorre differenziare le figure professionali: occorre coinvolgere giuristi ed economisti. Per gestire il patrimonio culturale occorre comprendere ed applicare le norme, costruire un progetto finanziario, ricercare fondi privati, intercettare i gusti dei visitatori. Cosa che architetti e archeologi, ad esempio, non possono fare”. Ma come fa il patrimonio culturale italiano a essere considerato un patrimonio attivo? Per Antonio Tarasco la risposta sta nei numeri ufficiali del Mibac, gli stessi che ha in mano il Presidente del Consiglio e il Governo.
“Limitatamente al patrimonio culturale statale, ricordiamo che questo è solo il 9,4% del totale italiano, si sono ricavati, al netto, circa 214 milioni di euro nel 2018. E non sono neanche molti se si considera che questo è il risultato di gestione di un patrimonio che vale ben oltre 180 miliardi di euro. Ad oggi il rendimento è di circa lo 0,12% del valore patrimoniale. Se si valutasse meglio il nostro patrimonio, moltiplicandolo per 10, l’attuale rendimento si scoprirebbe ancora più basso: non superiore allo 0,01%. Insomma, un’inezia. Ecco perché dico sempre che produrre reddito con il patrimonio culturale pubblico si può, almeno giuridicamente, si deve farlo, per necessità finanziarie, ed è facilmente realizzabile sul piano pratico”. Come farlo? Sembra semplice ma alla base di un progetto complessivo come questo che io immagino serve soprattutto una nuova concezione del rapporto tra Paese reale e i suoi Beni Culturali.