Perché Benedetto XVI è vivo e lotta in mezzo a noi (dal mio archivio a futura memoria)

(ASI) A distanza di diciassette anni, sottoscrivo, parola per parola, quanto scritto nel lontano 2008, oggi più attuale di ieri. Benedetto XVI ha aperto la strada, dopo la via tracciata da Giovanni Paolo II - si pensi soltanto all’enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998) - del cattolicesimo come esperienza e conoscenza integrali del Mistero di Dio fattosi carne nella storia, quell’ “avvenimento” di cui parla il Vangelo di Luca, 2,15, che costituisce la salvezza dell’uomo di ogni tempo.

La ragione diventa così la finestra spalancata di fronte al mondo voluto, creato, amato e salvato da Dio, uno scandalo per la razionalità costruttivistica e illuministica dominante nella modernità. Benedetto XVI, seguendo Guardini e poi Giovanni Paolo II, pensa a una ragione allargata. Soltanto Tommaso d’Aquino aveva introdotto il problema della natura della ragione in termini così completi e radicali. Il Papa teologo sviluppa e prosegue l’avventura umana, spirituale e teologica del Doctor Angelicus, pur provenendo dal solco teologico di San Bonaventura. Ma il problema è sempre lo stesso: la ragionevolezza della fede. Oggi, nel deserto nichilista, la questione è addirittura vitale, perché è in gioco la sopravvivenza dell’umano in quanto tale. E l’umano, deprivato dell’essenziale, ovvero del senso, è destinato ad abitare lo scenario descritto dal profeta Ezechiele: una “pianura piena di ossa”. Per far uscire l’uomo da questo mondo spettrale, la retorica sui migranti e perfino quella sulla pace è un’arma a dir poco spuntata. Solo l’Avvenimento di un Dio che nasce, vive, muore e risorge è capace di ridestare l’uomo nella sua interezza.Una nuova nascita, con un senso della nascita, appunto, il Natale del Dio Bambino, per cominciare, al quale si è dedicato il teologo Ratzinger, prima di diventare Papa, portando a compimento la trilogia dedicata a Gesù durante il pontificato.

Dunque, Benedetto XVI è più vivo che mai. Di più: è vivo e lotta in mezzo a noi.

 

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Laico, cioè cristiano (Fonte:L'Occidentale, 27 gennaio 2008)



di Raffaele Iannuzzi

Commentavo quasi a caldo il pasticciaccio brutto della Sapienza, che ha coinvolto non soltanto il Papa, ma anche l’Italia tutta, evidentemente, con un amico ciellino ed entrambi, insieme, abbiamo detto: il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Mai motto fu più rigorosamente vero, come nel caso dell’oltraggio del laicismo totalitario a Benedetto XVI. Intendo spiegare, se mi riuscirà, perché.

Visto che i motti antichi funzionano, ve ne sarebbe un altro ancor più suggestivo: Dio scrive dritto sulle righe storte.

In chiave di sapienza storica, abbiamo imparato almeno due cose: 1) sul Soglio di Pietro siede un autentico laico, un filosofo laico, di profilo direi erasmiano;
2) nell’universo laicista e cattolico progressista si usano due pesi e due misure: mentre, da un lato, a Benedetto XVI si impedisce di parlare all’università, nella città di cui egli è Vescovo, dall’altro, al presidente della Camera, Bertinotti, viene conferita una laurea “cattolica” che egli riceverà non prima di aver tenuto una solenne lectio magistralis, di fronte alle autorità ed agli studenti della Pontificia Università cattolica di Quito, in Ecuador. Naturalmente Bertinotti è stato invitato, guarda un po’, come si conviene, dal rettore, il gesuita Manuel Corrales Pascual. Non mi pare che vi siano stati sommovimenti di piazza per la disparità di trattamento fra il Pontefice e il Presidente della Camera, e si tratta di un’università pontificia, come dice l’aggettivo qualificativo: del Papa.

Dunque, i laicisti sembrano quasi invitati a svillaneggiare il Papa, laddove i gesuiti dell’università di Quito usano il guanto di velluto con un personaggio politico italiano agnostico e leader di una formazione politica che si autoqualifica ancora con l’aggettivo “comunista”. Segni dei tempi? O Nuovi segni dei tempi? Sia come sia, dal momento che ho sempre pensato che un certo laicismo avesse gioco facile con il progressismo cattolico, vieppiù proveniente dal Sud-America, non mi scompongo e provo a mostrare che la qualifica di “filosofo laico di profilo erasmiano” affibbiata al Papa sia del tutto adeguata alla sua persona ed alla sua opera intellettuale.

Il Card. Bagnasco, nella sua prolusione al Consiglio permanente della Cei, del 21 gennaio scorso, in un passaggio ha richiamato una caratteristica del lavoro intellettuale di Benedetto XVI che vale la pena riprendere: Osserva Bagnasco riferendosi all’enciclica Spe salvi: “Con uno stile felicemente personale, il Papa elabora una proposta sorprendente che va al cuore e alla mente dei fedeli e dei Pastori. Attraverso una tessitura testimoniale, egli conduce un serrato ragionamento in cui storia, filosofia e teologia si intrecciano per decodificare il desiderio di vita buona e felice che c’è nel cuore dell’uomo e di ogni epoca”.

Ecco, qui c’è tutto Ratzinger: da un lato, l’invenzione di un linguaggio originale e personale, dall’altro, la tessitura stratificata di storia, filosofia e teologia. E, si badi, vengono menzionate, prima della teologia, la storia e la filosofia.

Scelta ermeneutica non casuale. Perché anche nel discorso della Sapienza, mai pronunciato ma presto pubblicato, la sconfessione della furia fondamentalista dei laicisti avviene proprio sul terreno più caro alla laicità intellettuale, la filosofia, assai radicata nelle trasformazioni storiche ed epocali che stiamo vivendo.

Papa Ratzinger, dopo aver richiamato, in questo discorso, le radici laiche e quindi cristiane di un “nuovo umanesimo per il terzo millennio”, qualifica accuratamente l’autonomia intellettuale dell’università, accostando quindi la missione del Papato, quasi in una sorta di opposizione polare, e ciò per far spazio al cuore della sua riflessione, sintetizzabile in una precisa domanda: può, il Papa, parlare a tutti in forza di una ragione etica che non sia condannata ad essere “ancilla” della fede?

La risposta a questa domanda è positiva perché, se non vi fosse ragionevolezza etica, non vi sarebbe neppure discorso universale e universalmente intelligibile.

Il Papa non cita neanche il suo amato Agostino, ma Rawls, che, nell’economia del suo ragionamento, diventa lo strumento dialogico per riqualificare la ragion etica come razionalità adeguata al discorso pubblico. Anche la ragion etica sostanziata di religiosità. Dunque, la riflessione in oggetto non si estranea dal discorso pubblico e dalla temperie storica, ma la ricomprende e insieme la trasvaluta, fino al punto di spostare in avanti la cornice complessiva della riflessione sull’università e sulla missione educativa della stessa. Erasmo da Rotterdam avrebbe applaudito scoltando una così fine argomentazione. Merleau-Ponty, nel suo famoso discorso al Collège de France, osservò: “Il filosofo è colui che si risveglia e che parla”. Ecco, il Papa-filosofo si risveglia di fronte alla storia, con umiltà, e parla, rende la parola universale ragion critica e profezia. Discorso spirituale fondativo di un altro ordine del discorso. Tant’è vero che il passo successivo, subito dopo la domanda circa la missione specifica dell’università, la cui “intima origine” riposa “nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo”, serra fra le mani la questione della verità e la scandaglia a partire dalla filosofia di un altro grande agnostico, Habermas, che si interroga oggi sulla natura del discorso pubblico in una democrazia, giungendo al punto di qualificarlo come un “processo di argomentazione sensibile alla verità”.

A questo punto, il tema della verità e dell’essere sensibili alla verità, diventa dirimente e il discorso del Papa può ricapitolare la tradizione in chiave nuova. Se è vero, come è vero, annota Benedetto XVI, che la verità è l’oggetto della contesa e della ricerca dell’uomo, quale luogo più idoneo alla ricerca di essa potrà mai esservi se non l’università? E, ancora: se è vero, come è vero, che la filosofia possiede uno statuto logico ed epistemologico proprio, specifico, quale sarà il suo rapporto con la teologia, che dispone anch’essa di un suo specifico statuto logico ed epistemologico? Il nesso sarà, conclude Ratzinger, cosiffatto: “senza confusione e senza separazione”. Qui si riprende la formula cristologia di Calcedonia, traducendola in chiave epistemologica, un altro colpo da maestro. “La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino”.

La sostanza della laicità è tutta condensata in queste frasi. La ricerca dell’uomo non sarà mai ridotta e censurata dalla fede e dalla teologia, anzi essa, dipartendosi dal cuore dell’uomo stesso, cioè dall’io, si alimenterà costantemente delle contraddizioni della vita come anche delle luci della sapienza.

In ciò, in questo felice impasto di storico ed eterno, di ricerca e di intuizione illuminata, consiste la vita della laicità intellettuale e spirituale (perché la laicità ha una dimensione spirituale, dal momento che ogni problema culturale è, insieme, un problema che lo spirito dell’uomo si trova ad affrontare). In formula: laico, cioè cristiano.

Raffaele Iannuzzi per Agenzia Stampa Italia

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