(ASI) Perugia - È stato trovato proprio ieri, 29 luglio, l’accordo parlamentare per l’approvazione della cosiddetta “Riforma della Giustizia”.
Ho fatto il magistrato per oltre 40 anni e ritengo sia mio dovere esporre brevi considerazioni sull’argomento, perché, purtroppo, l’opinione pubblica è in genere disinformata e, soprattutto, esposta a pressioni che tendono a far leva su luoghi comuni e pregiudizi e a stimolarla ad un approccio emotivo e non razionale, come si usa oggi.
Ho già espresso il mio parere (non compreso da qualcuno) sulle proposte di referendum del Partito radicale e della Lega che, a Perugia, sono organizzate da un avvocato di cui sono amico e che stimo, Valter Biscotti, ma con il quale non ci troviamo in sintonia su queste proposte referendarie.
Neppure sulla riforma “Cartabia” sono d’accordo ma non per un atteggiamento anticonformista che, peraltro, mi caratterizza e che rivendico, ma semplicemente perché immagino quali potranno essere le conseguenze di questa riforma, che non tarderemo a vedere.
E, soprattutto, perché ritengo di aver colto il filone di pensiero a cui queste innovazioni si ricollegano, filone di pensiero che pone i mezzi al di sopra del fine della Giustizia, mentre in ogni attività umana, c’è il fine da raggiungere e i mezzi che vanno adoperati per pervenire al risultato. Entrambi debbono essere “giusti” perché né il fine giustifica i mezzi (cattivi) né i mezzi (buoni) possono surrogare un fine “cattivo” o obliterato e trascurato.
Quindi, non si può “parteggiare” per il “giustizialismo”, termine che indicherebbe la dottrina sociale peronista ma che, nella deformazione e manipolazione lessicale del momento che stiamo attraversando, indica l’esasperata ricerca della verità reale o presunta, a discapito delle garanzie processuali.
Non si può parteggiare neanche per il “garantismo” che anch’esso non può non avere un’accezione negativa se contrapposto all’obbiettivo del processo, perché le due realtà vanno di pari passo.
Il fine dell’azione è “il termine primo dell’intenzione e indica lo scopo perseguito nell’azione”. Il “fine” è, quindi, il termine dell’azione, è il bene che ci si aspetta dall’azione intrapresa (vedi Catechismo della Chiesa cattolica, 1752). Ma si è detto che non basta che sia buono il fine. Debbono essere buoni anche i mezzi usati. Osserva il can. 1753, ad esempio, che non si può giustificare la condanna di un innocente come un mezzo legittimo per salvare il popolo.
Fine e mezzi non possono essere disgiunti.
In queste riforme e anche nei quesiti referendari emerge, invece, una visione tutta incentrata sui mezzi, e una scarsissima attenzione al fine da raggiungere che è quello della giustizia.
Sembra quasi che, per i sostenitori di questa tendenza, il fine del processo sia quello di durare il meno possibile, come se ci si dovesse difendere dal processo e non nel processo. Tutto si incentra sull’esigenza di evitare, per quanto possibile, qualunque vincolo che possa contrastare il libero espletamento dei bisogni e dei diritti dell’individuo e uso questo termine perché la matrice illuministico liberale” di questa visione del mondo è palmare.
A questo termine preferisco quello, più concreto e completo, di persona, cioè della “sostanza individuale di natura razionale” che è tale perché è inserita in un contesto di relazioni concrete, come ad esempio, prima di tutto, la famiglia.
Il punto chiave e dolente della riforma sono i termini di durata delle indagini preliminari, come vedremo. Poi vi sono norme volte a rendere più celere il processo, come la digitalizzazione e il processo legale telematico, l’udienza preliminare, la discovery, le impugnazioni, il patteggiamento, il giudizio abbreviato, l’estensione della perseguibilità a querela, le pene sostitutive delle pene detentive brevi, la giustizia riparativa.
Questa, a grandi linee, la “riforma Cartabia”.
Il punto critico, che sarà fonte di guasti inimmaginabili alla giustizia, è l’improcedibilità.
Fermo restando che occorre attendere la stesura definitiva del provvedimento, quello che sconcerta è che in una occasione come questa, il governo abbia praticamente ignorato il parere espresso dal plenum del CSM, secondo cui “con l’improcedibilità migliaia di processi in fumo” e dal componente dell’organo di autogoverno Di Matteo, osannato quando dissentiva da Piercamillo Davigo, ma non ascoltato oggi che, a proposito dell’improcedibilità Cartabia, ha detto: “ Crea impunità, enorme vantaggio a mafie” (Il Fatto quotidiano, 29 luglio 2021).
Vi sarà sì un regime transitorio ma, a regime pieno, i processi dureranno due anni più una proroga di un anno al massimo, in appello, mentre in cassazione dureranno un anno di base più una proroga di sei mesi, con l’eccezione dei reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e mafiosa, senza limiti di proroghe e un binario particolare per i reati con aggravante mafiosa.
Termini fissi con la sanzione dell’improcedibilità in un ordinamento, come il nostro, che ha tre gradi di giudizio (per fortuna), impugnazioni intermedie nel processo penale come quelle sulle misure cautelari, sentenza motivata, garanzie di ogni tipo, mentre altri ordinamenti, come i tanto decantati (impropriamente) ordinamenti a common law e altri, pur essendo, in linea generale, privi di impugnazioni e concludendosi con un verdetto immotivato, non hanno questi termini e non conoscono l’istituto della prescrizione.
Ma non basta. Che rapporto c’è tra chi esercita la domanda di giustizia, gli avvocati e chi deve farvi fronte, cioè i magistrati ?
È presto detto e sono dati che non si discutono.
Secondo http://studiorebellato.it>la – sit.., in “La situazione della giustizia in Italia nel 2020 – pillola n. 1, i magistrati ordinari, alla fine del 2020, erano 9.100, oltre a 259 uditori in tirocinio e 248 magistrati fuori ruolo, per un organico di 10.751 posti.
Gli avvocati invece sono 245.478 (cfr. Aiga sicura, “Quanti avvocati ci sono in Italia ? Infografica 2021, aigasicura.it/2021/03).
È un divario enorme, sempre crescente, perché cresce sempre il numero degli avvocati, anno per anno.
Non si può fare una riforma della giustizia, ignorando il parere dell’organo di autogoverno della magistratura e prendendo posizione, non facciamo gli struzzi, per una delle componenti, attualmente in conflitto, del sistema della giustizia, e cioè l’avvocatura, le cui aspirazioni, specie la difesa a “spada tratta” della prescrizione e l’aspro ostracismo alla riforma Bonafede, sono state ascoltate e soddisfatte, anche se ora la prescrizione si chiama, pudicamente, “improcedibilità”.
Mentre l’avvocatura è l’”eroina” del “garantismo”, la magistratura è l’espressione del “giustizialismo”, con tutto il corteo di termini correlati come “sovranismo” e “populismo”.
“Privato” contro “pubblico”, in definitiva.
Mentre la nostra Costituzione ha esaltato principi di tipo solidaristico e il fine pubblico di giustizia del processo, pur nell’ambito delle imprescindibili garanzie, il modello “anarco liberale”, che domina negli organismi europei e che è diventato egemone a livello di opinione pubblica, vuole eliminare qualunque vincolo pubblico che limiti l’esigenza di soddisfazione dell’individuo e il processo è visto come qualcosa da cui si debba essere difesi.
E in questo quadro, ciò che conta non è il termine dell’azione, il fine, ma le garanzie di “non sofferenza” che debbono essere apprestate soprattutto all’individuo indagato o imputato.
Questa riforma dà tristezza. Dà la misura di come il mondo occidentale si sia, via via, ripiegato verso il più assoluto individualismo e il misconoscimento della Giustizia
Giuliano Mignini per Agenzia Stampa Italia
* Foto di repertorio.