Cina-UE, cinquant’anni di partenariato che ora richiedono una svolta definitiva

1746499928019 649(ASI) Cinquant’anni fa, la Comunità Economica Europea e la Repubblica Popolare Cinese davano il via ufficialmente alle loro relazioni diplomatiche. L’anniversario cade in un momento cruciale in una fase più generale di ricomposizione degli equilibri internazionali, accelerata dalle decisioni di Donald Trump. Pur continuando a trattare con Washington, Bruxelles deve nuovamente riorientare la sua strategia globale per cercare di non restare schiacciata tra i dazi statunitensi e il conflitto russo-ucraino. A questo riguardo, il collaboratore di ASI Andrea Fais è intervenuto sulle “colonne” di China Radio International (CGTN) per la rubrica “Opinioni”. Proponiamo qui di seguito la versione integrale dell’articolo.

 

Il 6 maggio 1975, Europa e Cina stabilirono ufficialmente le loro relazioni diplomatiche. Quel giorno fu raggiunta la prima storica intesa a riguardo tra l’allora ministro degli Esteri cinese Qiao Guanhua e l’allora commissario per le Relazioni Esterne, il britannico Christopher Soames, aprendo la strada alla visita di Roy Jenkins a Pechino, avvenuta quattro anni più tardi, la prima di un presidente della Commissione Europea nel Paese asiatico.

A mezzo secolo esatto di distanza, quasi tutto è cambiato. La Comunità Economica Europea (CEE), che allora racchiudeva 9 Paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda e Regno Unito), dopo essersi trasformata nell’Unione Europea in base al Trattato di Maastricht, allargando e rafforzando il processo di integrazione, conta oggi 27 Stati membri. La Repubblica Popolare, a quel tempo impoverita ed arretrata, è ora diventata, dopo aver imboccato la strada delle riforme e dell’apertura indicata da Deng Xiaoping, la seconda economia mondiale, la prima potenza commerciale del pianeta e il secondo mercato di consumo su scala globale.

Tra crisi di vario genere e notevoli squilibri interni, negli ultimi quindici anni Bruxelles si è trovata a dover affrontare una serie di problemi di portata storica, che ne hanno più volte messo in discussione la tenuta. Dal debito sovrano, con l’eclatante e drammatico caso greco, ai nuovi massicci flussi migratori, dal referendum sulla Brexit alla guerra in Ucraina, l’Unione Europea è ormai da tempo entrata in una fase di profonda incertezza. Un’incertezza che è aumentata esponenzialmente da quando alla Casa Bianca è tornato Donald Trump, intenzionato a regolare i conti con Bruxelles su una serie di dossier, a partire dalle relazioni commerciali e dalle spese militari.

Secondo le statistiche della Dogana cinese, nel 2024 il volume totale degli scambi commerciali di beni tra la Cina e l’Unione Europea ha raggiunto 785,8 miliardi di dollari USA, registrando un aumento annuo dello 0,4%. Nello specifico, le esportazioni cinesi verso l’UE sono state pari a 516,4 miliardi di dollari (+3,0% su base annua), mentre le importazioni dall’UE hanno totalizzato 269,4 miliardi di dollari, con una diminuzione del 4,4% rispetto all’anno precedente. L’Unione Europea si conferma come il terzo maggiore destinatario delle esportazioni cinesi e la seconda fonte di importazioni per la Cina. Parallelamente, secondo i dati statistici europei, la Cina mantiene la posizione di principale fonte di importazioni per l’UE e terzo mercato di destinazione delle esportazioni europee.

Fra le categorie di prodotti cinesi acquistati dall’UE sono tre, e tutte tecnologiche, quelle più significative al punto da coprire quasi il 40% del totale: macchinari elettrici, elettrodomestici e componenti elettrici; apparecchiature per telecomunicazioni e audio; macchine per ufficio e macchine per elaborazione dati.

Al momento, dunque, non sembrano affatto funzionare le politiche di de-risking adottate più di due anni fa dalla Commissione UE, a seguito dell’introduzione del Critical Raw Materials Act, con lo scopo di diversificare le catene di approvvigionamento e ridurre la dipendenza dalla Cina nelle produzioni ritenute strategiche per la transizione digitale ed ecologica dell’Europa. Del resto, già da tempo, il gigante asiatico si è messo alla testa di questi processi trasformativi, acquisendo una posizione di leadership nelle industrie emergenti. L’inasprimento della guerra commerciale voluto da Trump, inoltre, sta ulteriormente ridefinendo la geografia economica del pianeta. Con il ritorno ad un forte protezionismo da parte degli Stati Uniti, infatti, il baricentro della globalizzazione si sposterà sempre più verso l’Asia, accelerando una tendenza evidente da almeno un decennio.

Lo scorso 15 novembre, secondo i dati di China State Railway Group, il servizio ferroviario di trasporto merci China-Europe Railway Express (CRE) ha superato i 100.000 viaggi totali dal suo lancio ufficiale nel 2011, trasportando complessivamente beni per più di 11 milioni di TEU ed oltre 420 miliardi di dollari. Nel corso degli anni, la rete si è estesa a macchia d’olio, raggiungendo 227 città in 25 Paesi europei e collegando più di 100 città in 11 Paesi asiatici. Tutto ciò dimostra che la Nuova Via della Seta tra Europa e Cina non è un miraggio o una fantasia geopolitica, ma una realtà già consolidata.

Sullo sfondo restano diverse incognite, tra cui il destino dell’Accordo Globale sugli Investimenti (CAI), congelato da Bruxelles nel 2021, e il significativo aumento dei dazi imposti dall’UE sui veicoli elettrici di produzione cinese, sino ad un massimo del 48,1%.

Per uscire dall’impasse, Bruxelles dovrà cominciare seriamente a cambiare rotta. Prima di tutto sarà necessario abbandonare l’eurocentrismo che, strumentalizzando le questioni relative ai diritti umani e civili, ancora attanaglia la visione internazionale delle principali cancellerie del Vecchio Continente: una distorsione mai del tutto scomparsa, nemmeno dopo le tragedie delle due guerre mondiali e la fine del colonialismo.

In secondo luogo, l’UE dovrà ricollocarsi in modo paritario nel nuovo ordine multipolare facendo leva sulla migliore tradizione diplomatica del secondo Novecento, sull’elevato know-how scientifico-tecnologico, su una classe media che comprende mediamente il 64% della popolazione [contro il 51% degli Stati Uniti – Pew Research Center] e sulla posizione privilegiata nel Mediterraneo, una regione che negli ultimi anni sta godendo di una rinnovata centralità in materia di commercio, energia, infrastrutture e sicurezza rispetto ad un Baltico sempre più esposto al rischio di ulteriori escalation militari.

Senza rinunciare a tutelare gli interessi dei Paesi membri, ma anzi rafforzandone la competitività sui mercati oggi più aperti e avanzati, l’UE può cogliere l’opportunità di abbandonare definitivamente un’obsoleta concezione rigidamente atlantista della sua politica estera e volgere seriamente lo sguardo all’Asia. Tutto ciò, però, dovrà essere frutto di una scelta consapevole, strutturata e strategica, non banalmente dettata dall’istintiva ed affrettata ricerca di una sponda temporanea, in attesa che a Washington cambino le cose.

 

Andrea Fais - CRI (CGTN)

 

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