(ASI) Roma – La rivista Ridare, specializzata nel risarcimento del danno, propone all’attenzione dei suoi lettori un interessante articolo di Giuseppe Sileci, dedicato alla spinosa questione dei danni provocati da cose in custodia, ampio genus che racchiude altrettanto ampie fattispecie concrete.
Il caso posto in esame riguarda un automobilista che, all’alba, viaggiando su di una strada dritta, si scontra con due bovini fuggiti da un allevamento della zona e ne rimane ucciso per le conseguenze delle lesioni personali.
I familiari fanno causa ai proprietari degli animali e all’Ente proprietario della strada, invocando gli artt. 2043 e 2051 del nostro italianissimo codice civile. L’articolo non ci informa dell’esito della vicenda giudiziaria ma ci accompagna all’interno di un pregevole excursus sullo stato dell’arte della responsabilità da cose in custodia, sempre in fermento negli ultimi anni e foriera di mutevoli orientamenti e prese di posizioni da parte della giurisprudenza più attenta, in primis la Suprema Corte di Cassazione.
Trattandosi di cose in custodia, in questo caso la strada, abbiamo più volte avuto modo di ricordare che il danneggiato deve allegare e provare il danno e il collegamento causale tra la cosa e il nocumento subito. Il custode dell’oggetto si può liberare soltanto dimostrando che fatto dal quale origina il danno è frutto del caso fortuito. Quest’ultimo elemento può sussistere in presenza di qualcosa di imprevedibile o inevitabile e, per antica tradizione giuridica, può essere integrato dal fatto doloso-colposo del terzo o dal fatto doloso-colposo dello stesso danneggiato.
Ricordiamo ai nostri lettori che la previsione dell’art. 2051 del codice civile rappresenta un’eccezione al regime ordinario della responsabilità civile che è regolata, in generale, dall’art. 2043, il quale prevede una maggiore difficoltà per il danneggiato di dimostrare le sue ragioni.
Nell’art. 2051 il proprietario-custode è trattato più duramente perché il legislatore del 1942 scelse di sottolineare il rapporto privilegiato con la cosa, nel senso che chi trae beneficio dal possedere un oggetto è anche tenuto ad esercitarvi un potere di controllo, sia attuando una regolare manutenzione, sia intervenendo anticipatamente, prevenendo eventuali anomalie che potrebbero portare l’oggetto a danneggiare i terzi.
Alla luce di queste considerazioni dobbiamo fare cenno a quelle teorie, cha hanno purtroppo preso piede nell’interpretazione dei casi concreti, che limitano la responsabilità del custode quando il bene è troppo grande, troppo vasto o particolarmente articolato per potervi esercitare un potere di controllo, sia in termini di riparazioni, sia in termini di attenta prevenzione. Queste ipotesi dimenticano che sempre, alla vastità del bene, corrisponde l’ampiezza delle risorse e che spesso le difficoltà di comportarsi da custode virtuoso, nascono dalla mala gestio e non dall’impossibilità di provvedere.
Questo il caso dei beni del pubblico demanio che, pur avendo a disposizione enormi risorse per poter esercitare una loro corretta gestione, vengono gravemente trascurati anche a danno dei cittadini. La giurisprudenza, purtroppo, anche con recenti sentenze, ha avvalorato questa interpretazione, sancendo che non si possa applicare l’art. 2051 quando sia impossibile esercitare sul bene il potere di controllo. I giudici, in pratica, consentono al proprietario di grandi dimensioni di approfittare dei vantaggi dei beni, come il poterli alienare o affittare, esonerandoli dagli obblighi previsti dalla legge. È come se queste sentenze dicessero, più sei ricco e possidente e meno risponderai della trascuratezza con cui ti occupi dei beni, più sei un piccolo proprietario e più verrai chiamato a rispondere dei danni causati involontariamente dal tuo patrimonio.
Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia