Oceano Indiano. La rotta marittima tra Europa e Cina

(ASI) Nel novembre del 2011, dal palco del vertice APEC (Asia-Pacific Economic Forum) di Honolulu, Hilary Clinton sosteneva di ritenere «sempre più chiaro che nel XXI secolo il centro di gravità strategico ed

economico del mondo sarà la zona dell'Asia-Pacifico, dal subcontinente indiano alle coste occidentali delle Americhe». Secondo l'allora segretario di Stato, infatti, «uno dei compiti principali del governo americano nel prossimo decennio sarà quello di chiudere nella regione un investimento sempre maggiore, a livello diplomatico, economico e strategico». Lodando il vertice APEC come la «porta dell'America verso l'Asia», la Clinton chiosava sottolineando l'importanza del processo di distensione con la Cina nel quadro di una «forte, sostenuta e bilanciata futura crescita globale».
A distanza di quasi quattro anni, l'auspicio espresso verso Pechino è stato pesantemente compromesso dalla ratifica della Trans-Pacific Partnership (TPP), una vittoria di Pirro per l'amministrazione Obama che, dopo una lunga semina nel tentativo di mettere d'accordo quanti più partner regionali attorno all'asse Washington-Tokyo, ha raccolto le firme di appena 12 Paesi, dei quali solo 5 asiatici. La conventio ad excludendum operata ai danni della Cina è stata dunque pagata a carissimo prezzo, dal momento che l'ASEAN si è sostanzialmente spaccato in due di fronte all'aut-aut di Obama e che alcuni partner storici degli Stati Uniti, come la Corea del Sud, Taiwan e le Filippine, hanno deciso - almeno per ora - di restare fuori dal trattato di libero scambio.

Le tensioni ridimensionano il Pacifico
L'evidenza di questo insuccesso politico americano mette senz'altro in luce i gravi limiti della strategia del Pivot to Asia, promossa ufficialmente come tutela degli interessi dei Paesi più piccoli nella porzione orientale della regione Asia-Pacifico ma in realtà pensata per contenere l'ascesa cinese, anche tentando di ostacolarne le direttrici geopolitiche. Eppure, la "vittoria dimezzata" del TPP smentisce anche e soprattutto la chiave di lettura della Clinton, probabile prossima candidata democratica alla Casa Bianca. Il tentativo di individuare una politica capace di dialogare con la Cina è rimasto vittima delle contraddizioni della dottrina del congagement, la formula che, dalla fine degli anni Novanta, ha preso piede in molte scuole diplomatiche americane per definire un approccio che preveda allo stesso tempo il "contenimento" (containment) ed il "coinvolgimento" (engagement) del gigante asiatico.
In un mondo in trasformazione, dove numerosi Paesi non occidentali continuano ad emergere, tale tendenza a controllare pedantemente lo sviluppo di tutti gli attori mondiali e a considerare ossessivamente l'ascesa di nuove potenze alla stregua di una costante minaccia per la propria "sicurezza nazionale", chiude di fatto ghiotte aree di mercato, annulla molte opportunità di investimento ed innesca divisioni e scontri. La massiccia presenza militare statunitense in Giappone, in Corea del Sud, in Australia e nelle Filippine, oltre che nelle Isole Hawaii (americane), punta di diamante del sistema MUOS, e nel protettorato dell'Isola di Guam, ha di fatto militarizzato la regione creando tensioni che, come il TPP ha dimostrato, si sono ripercosse necessariamente sui canali economici e diplomatici.
La prima conseguenza di questo processo è che l'Oceano Pacifico non sarà affatto il baricentro esclusivo del mondo. Anche se gli sviluppi futuri quasi certamente eviteranno che i suoi mari possano diventare la cortina di ferro del XXI secolo, la multipolarizzazione degli equilibri mondiali favorirà la tendenza a promuovere il dialogo e il confronto, ed a coinvolgere un numero sempre maggiore di nazioni e regioni in progressiva ascesa economica. Escluso il proibitivo punto di contatto tra le propaggini nord-orientali della Siberia (Chukotka e Kamchatka) e l'Alaska, con le sue Isole Aleutine, nella sua porzione settentrionale, l'Oceano Pacifico, il più grande della Terra, presenta un vasto spazio centro-meridionale che resta "vuoto", privo di terre ferme per molte migliaia di chilometri, rendendo più impegnativi e dispendiosi i collegamenti e i trasporti intercontinentali. L'unico "scalo" naturale di rilievo è rappresentato dalle Isole Hawaii, che però sono un territorio degli Stati Uniti e non garantiscono dunque l'imparzialità di un attore sovrano ed indipendente, terzo tra le parti.
Per intenderci, San Francisco e Shanghai sono separate da quasi 10.000 km di mare aperto. Basta confrontare queste cifre con le distanze in linea d'aria dell'Oceano Atlantico, dove poco più di 6.500 km di acque separano la capitale portoghese Lisbona dal porto brasiliano di Salvador de Bahia, o dell'Oceano Indiano, dove la capitale somala Mogadiscio dista appena 4.500 km da Nuova Delhi, che a sua volta ne dista poco più di 5.000 da Jakarta, per capire la differenza del potenziale logistico tra i tre oceani principali.

La nuova ascesa strategica dell'Oceano Indiano
Del tutto opposta è la situazione nell'Oceano Indiano, il più piccolo fra i tre pincipali, ma anche quello più chiuso e "raccolto". Le sue acque non arrivano direttamente ai nostri mari ma attraverso il Canale di Suez, recentemente ampliato dal governo egiziano, raggiungono il Mediterraneo, fornendo all'Italia e alla Grecia, in prima linea, uno sbocco eccezionale per il commercio e la cooperazione internazionale.
Nella tradizione cartografica coloniale europea, la regione dell'Oceano Indiano cominciava nel Golfo di Aden, al largo delle coste yemenite, e finiva nello Stretto di Malacca, tra Indonesia e Malesia (dove attualmente transita circa il 25% delle rotte commerciali mondiali), con la penisola indiana incuneata lungo la porzione oceanica settentrionale, come un grandissimo porto naturale.
Al giorno d'oggi, però, l'area oceanica comprende 16 tra mari, golfi, baie e stretti, e collega tra loro alcuni tra i più importanti porti del mondo quali Durban (Sudafrica), Zanzibar (Tanzania), Mombasa (Kenya), Maputo (Mozambico), Port Sudan (Sudan), Port Said (Egitto), Gedda (Arabia Saudita), Aden (Yemen), Muscate (Oman), Mahshahr (Iran), Karachi (Pakistan), Gwadar (Pakistan), Calcutta (India), Mumbai (India), Yangon (Myanmar) e Singapore, disposti in senso latitudinale e a distanze relativamente brevi l'uno dall'altro.
La catena logistica che questi porti riescono a formare mette in comunicazione non solo i mercati più dinamici dell'Asia, dell'Africa Orientale e dell'Oceania, ma crea un sistema di connessione tra i "sette mari" più importanti al mondo sia per la rilevanza strategico-commerciale sia per l'approvvigionamento di materie prime: Golfo Persico, Mar Rosso, Mar Nero, Mar Caspio, Mar Mediterraneo, Mar Arabico e Mar Cinese Meridionale.

 

Dopo oltre un secolo di ridimensionamento - durante e dopo la fase di progressiva decolonizzazione che aveva lasciato al loro destino i vecchi porti e gli stretti dominati, a più riprese e per almeno tre secoli, da britannici, olandesi, francesi, portoghesi e spagnoli - l'Oceano Indiano torna ad essere protagonista nel processo di sviluppo e crescita di popoli un tempo destinati a subire passivamente un innaturale processo di modernizzazione esogeno che, una volta scomparso e superato dalla storia, ha lasciato loro ben poco.
Oggi l'Oceano Indiano non è più una gigantesca via di transito commerciale per navi straniere ma coinvolge direttamente circa 2,62 miliardi di persone, pari a circa il 36% della popolazione mondiale. Prendendo soltanto in esame i Paesi più avanzati di questa regione oceanica, cioè India, Sudafrica, Indonesia, Egitto, Singapore, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Malesia, Sudan e Pakistan, il PIL nominale complessivo si aggira intorno ai 6.450 miliardi di dollari, cifra che lievita di molto se calcolata a parità di potere d'acquisto nei singoli contesti, e che è destinata a crescere se si pensa a due realtà in particolare, come l'Indonesia e l'Iran, forti di popolazioni giovani e di ritrovate capacità di appeal diplomatico - con la rinnovata Conferenza di Bandung la prima e con quella dei Non-Allineati il secondo.
La pirateria somala nel Golfo di Aden e la pirateria locale nello Stretto di Malacca costituiscono dunque ben più di un semplice problema di illegalità, ma un esteso fattore di rischio nel campo della sicurezza marittima in una delle più promettenti e dinamiche regioni del mondo. Proprio lo sviluppo organico di Paesi che cercano di emergere complessivamente dalle vecchie condizioni di arretratezza, fa sì che l'indotto economico generato dai traffici marittimi vada oltre la normale attività portuale e amministrativa, stimolando anche l'industria dei trasporti di terra e di aria, e non soltanto il sempreverde settore della cantieristica navale, non a caso oggi trasmigrato in larga parte in Cina (che da sola produce il 41% delle navi nel mondo), Corea del Sud e Giappone.

La Cina e la Via della Seta Marittima
Proprio la Cina sarà il fattore determinante per comprendere i futuri equilibri oceanici. Affacciata sull'Oceano Pacifico, in realtà la potenza asiatica ha interessi economici e strategici enormi nella regione dell'Oceano Indiano. Appena 2.195 km separano in linea d'aria Haikou, capoluogo della provincia insulare cinese di Hainan, e Singapore, dove i due oceani si incontrano. Il voluminoso flusso navale cinese che attraversa quotidianamente lo Stretto di Malacca ha ingenerato uno dei più grandi dibattiti degli ultimi anni a Pechino, alla ricerca di un piano di diversificazione delle rotte commerciali. Una prima soluzione studiata si è tradotta nell'ambizioso progetto proposto dalla Repubblica Popolare alla Thailandia per l'apertura di un canale artificiale attraverso l'istmo di Kra, nel punto più stretto della Penisola Malesiana, che consentirebbe alle navi da e per la Cina di risparmiare parecchia strada prima di sfociare nell'Oceano Indiano, le prime, e nel Pacifico, le seconde.
L'ottimizzazione dei tempi di navigazione su questa tratta sarebbe, però, soltanto il primo passo di una strategia molto più ampia che in Cina, nel corso degli ultimi anni, ha preso il nome di "Collana di Perle". Si tratta della costruzione di una vera e propria catena di porti e basi logistiche dislocate in territorio estero con il consenso e la partecipazione degli Stati sovrani coinvolti, lungo l'intero corso costiero dell'Oceano Indiano. Il progetto, che ripropone in chiave moderna l'antica proiezione navale dell'Ammiraglio Zheng He, è ancora in cantiere e non sarà del tutto definito fin quando non saranno concluse le trattative con i governi locali. In questo senso, molto dipenderà anche dal nuovo approccio diplomatico tra Cina ed India, notevolmente migliorato dopo l'elezione di Narendra Modi a Nuova Delhi. In base alle eventuali concessioni dell'India, qualche altro porto potrebbe aggiungersi o addirittura sostituirne altri.
Al momento, la prima "perla" sarebbe dunque l'isola di Hainan, la seconda sarebbe invece l'Isola Yongxing (nota anche come Isola di Woody) nell'Arcipelago delle Xisha, la terza l'intero Arcipelago delle Nansha (conteso), e via di seguito Kanpong Som in Cambogia, le isole Coco e la città-isola di Sittwe in Myanmar, il porto bengalese di Chittagong, Hambantota nello Sri Lanka, Marao nelle Maldive, il porto di Gwadar in Pakistan, Bagamoyo in Tanzania, Lamu in Kenya e Port Sudan nel Sudan, dal quale poter entrare nel Mar Rosso e, attraverso il Canale di Suez, sin nel Mediterraneo, dove raggiungere dapprima Atene ed infine Venezia.
Proprio come ai tempi di Marco Polo, il capoluogo veneto sarebbe dunque il punto di arrivo/partenza di una Nuova Via della Seta che, secondo i piani del governo cinese, si dipanerebbe sia su terra che su mare, sfruttando il moderno potenziale ferroviario e navale.
Già dal marzo 2014, il continente è attraversato dal nuovo corridoio ferroviario eurasiatico che dalla megalopoli cinese Chongqing arriva fino alla città tedesca di Duisburg in appena 16 giorni, passando attraverso la regione autonoma cinese dello Xinjiang, il Kazakhstan, la Russia, la Bielorussia e la Polonia. La nuova tratta si è aggiunta al già esistente corridoio ferroviario eurasiatico che dalla città costiera cinese di Lyanyungang arriva sino a Rotterdam, sfruttando per gran parte del percorso le rotte della Transiberiana. Secondo quanto stabilito dal piano cinese 'One Belt, One Road', si dovrebbe aggiungere in futuro una terza tratta principale che collegherà Xi'an - punto di partenza dell'antica Via della Seta - all'Europa, passando per l'Asia Centrale, l'Iran, la Turchia e parte dell'Europa Orientale per poi riagganciarsi a Mosca e quindi al Nord Europa.

 

A questo punto, l'Oceano Indiano potrebbe presto diventare un nuovo corridoio navale eurafrasiatico, dove Venezia, adeguatamente collegata a Rotterdam e Duisburg attraverso l'alta velocità, andrebbe a costituire un'eccellenza unica: il punto di incontro tra la nuova Via della Seta terrestre e quella marittima.
Appare persino inutile rimarcare che i benefici per l'Italia intera sarebbero enormi sul piano economico, infrastrutturale e turistico. Eppure, anche sul piano scientifico e tecnologico, Venezia, Trieste, Palermo, Bari o qualsiasi altra città italiana affacciata sul Mediterraneo, potrebbe ospitare convegni internazionali dedicati alla salvaguardia dei mari, per condividere competenze ed esperienze con i maggiori istituti oceanografici non solo della Cina, ma pure dell'Africa Orientale, del Medio Oriente e dell'Asia Meridionale, mettendo anche a frutto i positivi risultati ottenuti da Expo Milano 2015 in materia di sostenibilità e biodiversità.

Andrea Fais –Agenzia Stampa Italia

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