(ASI) La visita di Vladimir Putin in Italia ha conferito al vertice generale dell'ASEM di Milano del 16-17 ottobre scorsi un'importanza che, probabilmente, l'evento non avrebbe raggiunto senza la crisi ucraina e la conseguente riproposizione dello scontro tra la NATO e il Cremlino.
A sei anni dalla guerra russo-georgiana, i riflettori sono di nuovo puntati sull'"estero vicino" di Mosca, su quell'ex periferia sovietica che tanti problemi ha cominciato a creare da quando l'URSS è crollata dando origine a quindici repubbliche indipendenti, spesso sorte sui tavoli di qualche improvvisato leader ancorché su quelli della diplomazia internazionale. La velocità con cui Boris Eltsin accelerò il processo di disgregazione dello Stato sovietico impedì qualsiasi fase transitoria che potesse consentire una seria e ponderata rinegoziazione dei confini, alla luce del mutato assetto istituzionale.
Anche la crisi ucraina, dunque, nasce principalmente da questo vuoto politico e giuridico. Era impensabile, del resto, che uno Stato composto da almeno quattro realtà differenti sul piano etnico, religioso e linguistico potesse mantenere una sua integrità territoriale per lungo tempo. L'Ucraina occidentale, erede dell'antico principato di Galizia-Volinia, vero epicentro dell'uniatismo greco-cattolico e del più acceso e fanatico nazionalismo ucraino (Jaroslav Stetsko, Stepan Bandera e Lev Dobrianski); la Rutenia, regione appartenuta per lungo tempo al Regno d'Ungheria ed "ucrainizzata" soltanto all'inizio del XX secolo; l'Ucraina sud-orientale, tracciata dal corso del fiume Dnepr, erede della regione compresa tra Donetsk e Odessa, "costruita" negli anni della colonizzazione russa avviata da Caterina II e nota già all'epoca come "Nuova Russia"; ed infine la Crimea, la storica penisola al centro di numerosi scontri tra i vari imperi euro-mediterranei, conquistata dalla Russia alla fine del XVIII secolo - dopo le vittorie ottenute in serie sull'Impero Ottomano, di cui la penisola costituiva un protettorato - e col tempo affermatasi quale emblema della potenza navale della San Pietroburgo monarchica, prima, e della Mosca sovietica, poi.
Lo scontro in atto sfrutta diverse bandiere e simbologie storiche, ma il riferimento al passato si aggancia anzitutto alla disputa etnico-culturale che da secoli divide, come e più di qualunque muro in calce e mattoni, le coscienze, gli usi e le abitudini di milioni di persone residenti in quei territori che - come l'Ucraina, la Bielorussia, la Lettonia, la Lituania, l'Estonia, la Moldavia o la Bulgaria - sono stanziati lungo le fasce di confine tra il mondo europeo, "latino-germanico", cattolico e protestante, ed il mondo russo, "greco-bizantino" e ortodosso.
La spaccatura interna al panorama slavo, provocata dall'azione di inserimento del Vaticano (ancora evidente in Paesi quali la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Slovenia e la Croazia), ha lasciato tracce molto pesanti, mai davvero scomparse nel tempo. Lo scontro di "civiltà" innescato dal nazionalismo ucraino, generato dall'humus culturale uniatista, richiama parole d'ordine e slogan che molti europei avevano ritenuto sepolti nel passato del conflitto più cruento del XX secolo. Eppure, il filo conduttore tra il dramma ucraino nella Seconda Guerra Mondiale e il dramma ucraino nella guerra civile di oggi è stato tenuto in vita per decenni da una nutrita componente dell'establishment degli Stati Uniti che, sfruttando le antiche rivalità, ha sapientemente mescolato sentimenti anticomunisti, riferiti al passato sovietico, con sentimenti più propriamente antirussi, riferiti al passato in generale. Su questo leit-motiv di fondo, nel 1993 lo stesso Lev Dobrianski creò, assieme al politologo nordamericano (di origine polacca) Zbigniew Brzezinski, la Fondazione per la Memoria delle Vittime del Comunismo. Sua figlia, Paula Dobrianski, fu per quasi otto anni (dal maggio 2001 al gennaio 2009) Sottosegretario di Stato per la Democrazia e gli Affari Globali al servizio dell'ex presidente George W. Bush. Jaroslav Stetsko, già collaborazionista nei territori occupati dai tedeschi durante la guerra, guidò, fino alla sua morte nel 1986, l'Anti-Bolshevik Bloc of Nations (ABN), un'organizzazione di dissidenti anti-sovietici che ha strettamente cooperato con la World League for Freedom and Democracy, una ONG ancora esistente, creata a Taiwan col supporto del governo degli Stati Uniti.
La connivenza tra l'ultra-nazionalismo ucraino e la Casa Bianca in funzione anti-sovietica, prima, e anti-russa, poi, ha garantito legittimazione politica e copertura logistica a numerosi gruppi paramilitari che ancora oggi seminano il terrore nel Paese. L'inserimento scellerato di queste formazioni (i cosiddetti battaglioni Azov, Ajdar, Dnepr-1, Kiev-1 e Kiev-2) nei quadri militari delle forze armate ucraine hanno peggiorato la situazione, come evidenziato anche da un recente rapporto pubblicato dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti dell'Uomo. Nel documento si fa riferimento esplicito ai massicci bombardamenti e alle brutalità che l'esercito di Kiev ha compiuto ai danni della popolazione civile dell'Ucraina orientale, in particolare presso i centri di Donetsk, Lugansk e Slovjansk. Al 9 ottobre scorso, data di pubblicazione del rapporto, si contavano nel Sud-Est del Paese ben 3.360 vittime, in gran parte civili, e 8.446 feriti.
L'azione della Russia nella crisi ucraina segue due binari: uno indirizzato sul versante del soft-power e l'altro sul versante della diplomazia "attiva". Il primo binario si colloca nel quadro dell'azione politica del Cremlino in relazione alla memoria storica, ed intende allargare il consenso internazionale intorno al documento presentato dalla Russia in sede ONU allo scopo di condannare la "glorificazione del nazismo", sentimento che rianima la vecchia russofobia europea e destabilizza la coesistenza pacifica nelle repubbliche ex sovietiche, dove ancora corpose sono le minoranze russe/russofone. Il secondo binario conduce malcelatamente alla legittimazione della separazione delle regioni di Donetsk e Lugansk, già proclamatesi unilateralmente indipendenti nel maggio scorso a seguito di un controverso referendum popolare. Diversamente da quanto avvenuto in Crimea, regione già autonoma anche sotto il precedente ordinamento ucraino, dove la Russia disponeva (nella città autonoma di Sebastopoli) di un nutrito personale militare in virtù del trattato internazionale del 1994 (rinnovato nel 2010), in questo caso le forze armate di Mosca non hanno voluto varcare i confini ed imporre il disarmo alle forze armate locali.
Vladimir Putin avrebbe potuto ordinare all'esercito di muovere nelle confinanti regioni ucraine, ma ha preferito la via diplomatica, avviando una complessa trama di discussioni, interventi, confronti e scontri con gli Stati Uniti e l'Unione Europea. L'elezione del nuovo presidente ucraino Petro Porošenko, nel maggio 2014, non ha sortito alcun effetto positivo e i confronti avvenuti sin'ora tra i due non hanno fatto altro che ribadire la fermezza delle rispettive posizioni, senza considerare che, come ribadito dal già citato rapporto delle Nazioni Unite, quasi tutti i "cessate il fuoco" concordati tra le parti sono stati sin'ora disattesi. Questo dimostra che da un lato Putin non ha alcun controllo diretto sulle milizie separatiste del Donbass, a differenza di quanto continua a circolare presso alcuni organi di stampa occidentali, mentre dall'altro lato Porošenko non è in grado di far rispettare gli ordini impartiti al proprio stato maggiore.
Nonostante l'appoggio dei Paesi NATO, infatti, il presidente ucraino è stato eletto in un clima di guerra civile e di grave instabilità politica, senza che in tutte le regioni dell'Ucraina fossero garantite le condizioni di sicurezza necessarie ad operazioni di voto regolari e trasparenti. Se per il diritto internazionale non può, allo stato attuale, essere riconosciuto il referendum indipendentista in Crimea, o quelli svolti nelle regioni di Donetsk e di Lugansk, a maggior ragione non esistono le basi per la piena legittimazione democratica del presidente ucraino in carica.
Tuttavia, Vladimir Putin, per evitare un ulteriore deterioramento della situazione nell'Ucraina orientale, ha comunque deciso di riconoscere de facto Porošenko all'atto stesso di incontrarlo e di avviare con lui ed il suo staff un confronto diplomatico per stabilire possibili margini di convergenza e provare a raggiungere un accordo ragionevole tra le parti. A questo punto, compito prioritario del governo russo è quello di proteggere "a distanza" le popolazioni russe del Donbass, quotidianamente minacciate dall'artiglieria ucraina, cercando di congelare la situazione almeno fino a quando l'emergenza economica ed energetica dell'Ucraina non si trasformerà in un dramma sociale vero e proprio, costringendo Kiev ad assumere decisioni drastiche per evitare il collasso definitivo.
Putin continua a muoversi su questo doppio binario allo scopo di garantire il riconoscimento dell'indipendenza per le due regioni russofone ucraine e di estendere il consenso attorno alla causa russa su scala internazionale. L'opinione pubblica europea, mai come in questo momento, è divisa e spaccata nel mezzo. In Italia, ad esempio, la Lega Nord ha da qualche mese operato un riposizionamento internazionale filo-russo. In Francia, è invece il Front National di Marine Le Pen ad aver annunciato svariate volte la propria vicinanza al Cremlino in questo grottesco ritorno alla Guerra Fredda. Tutto ciò ha innescato un gioco delle parti, dove organi di stampa già notoriamente ostili nei confronti del governo russo non si sono fatti sfuggire l'occasione per collegare artificiosamente Vladimir Putin ad ambienti ed ideologie di estrema destra, secondo meccanismi di ribaltamento della realtà già testati in più occasioni, come ad esempio durante la guerra in ex-Jugoslavia.
Associare l'indipendenza della Crimea all'indipendentismo bramato da alcune associazioni culturali del Veneto e sostenere che la Russia sia un possibile alleato in una fantomatica neo-crociata contro l'Islam, va da sé che siano argomentazioni enormemente nocive per l'immagine internazionale di Mosca. In primo luogo, perché è lo stesso Putin ad aver sempre ribadito l'importanza di difendere l'unità multietnica della Federazione, compresi i dodici milioni di russi autoctoni di fede musulmana che convivono da secoli coi cristiani ortodossi nel Tatarstan, nel Bashkortostan o nel Caucaso, ed è lo stesso Patriarca Kirill ad aver più volte condannato lo scontro di civiltà e ad aver ricordato come l'estremismo wahhabita colpisca anzitutto la comunità islamica russa, rappresentata dal Gran Muftì Ildvs Faizov, già finito nel mirino dei terroristi nel corso degli ultimi anni. In secondo luogo, perché l'indipendenza della Crimea non ha visto la secessione di una regione dal suo Stato di naturale appartenenza ma ha sancito piuttosto il ritorno della penisola alla madrepatria, dalla quale un'avventata decisione di Chruščëv nel 1954 l'aveva separata. Durante l'era sovietica, nessuno poteva neppure immaginare che i rapporti tra Russia e Ucraina, cementati da trecento anni di unione (iniziati con la cacciata dei polacchi, guidata dall'atamano cosacco Bohdan Chmel'nyc'kij nel 1654) e da comuni radici slavo-ortodosse, sarebbero mai giunti ai ferri corti come invece avvenuto nel corso degli ultimi venti anni. Eppure, il crollo dell'Unione Sovietica ha risvegliato tutti i micro-nazionalismi e i separatismi che si pensavano definitivamente superati.
La missione di Putin, in tal senso, non è neppure quella di ricostruire l'Unione Sovietica e il comunismo o di "scimmiottare" Stalin, sebbene (e Putin lo sa bene) il leader sovietico goda di un'incontrastata stima tra la maggioranza della popolazione russa che, a seguito di un grande sondaggio televisivo di alcuni anni fa, durato diverse settimane, lo elesse al terzo posto nella classifica degli eroi nazionali, dopo Aleksandr Nevskij e Pietro il Grande.
Al contrario, l'Unione Eurasiatica è uno spazio comune che cerca di ricostruire la capacità di interazione economica, commerciale e culturale perduta dopo i fatti del 1991. Per ora ha abbattuto le barriere doganali e unito i mercati di Russia, Bielorussia e Kazakistan. Servirà a coprire un vuoto geopolitico in quella terra di mezzo che i russi chiamano col nome di "Eurasia" (ossia l'ex URSS, e non l'Europa più l'Asia), un gigantesco buco nero che nei primi anni Novanta aveva spaventato gli Stati Uniti stessi, e a controbilanciare il potere dell'Unione Europea e di altre aree integrate di libero scambio presenti nel mondo, che ormai contraddistinguono la tendenza del XXI secolo (altro che piccolo-nazionalismo!), ripristinando quella diplomazia e quel multilateralismo che Bush ha umiliato e che Obama ha definitivamente distrutto.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia