Cina. La questione uigura rialza la tensione ma l'Occidente può solo cooperare

139738046 16130592643011n(ASI) Gli Stati Uniti e la Cina devono trovare un qualche terreno di cooperazione o rischiano di scivolare verso una catastrofe paragonabile alla Prima Guerra Mondiale. A dirlo, lo scorso novembre, in occasione della sessione di apertura del Bloomberg New Economy Forum, è stato Henry Kissinger, non un uomo qualsiasi. Segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale durante l'Amministrazione Nixon, Kissinger fu il tessitore della tela diplomatica che, sviluppando il percorso avviato dalla cosiddetta "diplomazia del ping-pong", portò l'ex presidente statunitense a Pechino nel 1972 nell'ambito di una visita storica, capace di cambiare il corso della Guerra Fredda, che al tempo contrapponeva Washington a Mosca.

In quell'occasione, Kissinger, rilevando come durante l'Amministrazione Trump le relazioni bilaterali abbiano probabilmente toccato il livello più basso della loro storia, ha tenuto a precisare di non farsi troppe illusioni, ma ha sottolineato la necessità di mantenere e coltivare una piattaforma di cooperazione: «Non sto dicendo che noi e la Cina vivremo nella consapevolezza dell'armonia. Intendo che ci saranno sempre pressioni e tensioni. Tuttavia, la domanda che ci dobbiamo porre è: esiste una direzione verso la quale possiamo cooperare?». Secondo l'ex diplomatico, infatti, Biden, appena nominato vincitore tra mille polemiche interne, avrebbe dovuto «aprire un percorso di dialogo con la dirigenza cinese», aggiungendo che entrambe le parti dovrebbero concordare sul fatto che «qualsiasi altro conflitto dovessero avere tra loro, questo non sfocerà mai in uno scontro armato».   

Le sanzioni recentemente approvate dagli Stati Uniti, seguiti da Regno Unito, Unione Europea e Canada, sulla base delle accuse di violazione dei diritti umani nella regione autonoma cinese dello Xinjiang ai danni della minoranza musulmana turcofona degli uiguri, non vanno certo in questa direzione. Le forti tensioni sollevate dalle prime prese di posizione del nuovo inquilino della Casa Bianca lasciano presagire, al momento, una forte linea di continuità rispetto all'Amministrazione Trump. Il dito nuovamente puntato contro la Russia di Putin, che Biden è arrivato addirittura a definire nei termini di un "assassino" durante un'intervista televisiva, non ha fatto altro che polarizzare le diverse posizioni nell'arena internazionale, rafforzando ulteriormente l'ormai venticinquennale alleanza Pechino-Mosca, risorta nel 1996 con la fondazione del Gruppo di Shanghai (trasformato cinque anni più tardi nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) dopo le ruggini della Guerra Fredda.

Respinte con forza da Pechino, le accuse sulla questione degli uiguri, fin qui mai davvero dimostrate, fanno forza sulle teorie di alcuni docenti universitari stranieri e degli esponenti del World Uyghur Congress, organizzazione non governativa che raccoglie la diaspora uigura nei Paesi occidentali, presieduta da Dolkun Isa ma legata alla figura storica di Rebiya Kadeer. L'aura istituzionale del WUC fa da ombrello alle attività di gruppi separatisti che rivendicano l'indipendenza dalla Cina del cosiddetto "Turkestan Orientale", un'entità politica mai esistita nella storia.

 

La verità sullo Xinjiang

Lo Xinjiang è in realtà un plurimillenario crogiuolo di etnie, ben 47 in tutto, di cui 13 principali, dove gli uiguri - che si stanziarono a queste latitudini soltanto nel IX secolo dopo il crollo del Khaganato Uiguro, un regno compreso grossomodo tra il Lago Bajkal, la Valle dell'Orkhon e i Monti Altaj - rappresentano la maggioranza (51,14%) della popolazione locale (circa 25 milioni di abitanti in tutto), in netta crescita demografica rispetto al 2010 (45,84%). Islamizzatisi a partire dal X secolo, con la conversione di Abdulkerim Satuk Bugra Khan, sovrano karakhanide di Kashgar, gli stessi odierni uiguri sono la risultante di una commistione interetnica ed interculturale con popolazioni preesistenti, tra cui i "misteriosi" tocari, di lingua indoeuropea.

La presenza Han (cioè "cinese etnica") in questa regione non è il frutto di una colonizzazione posteriore, come sostengono le principali accuse contro Pechino, bensì risale al II secolo a.C., quando l'Imperatore Han Wudi diede il via ad una serie di missioni nei territori del Bacino del Tarim e della Valle del Fergana, finalizzate a proteggere il traffico delle merci lungo l'antica Via della Seta, verso la Persia e Roma, dalle scorribande degli Xiongnu, una confederazione di tribù nomadi turche, probabilmente antenati degli Unni. Nel VII secolo d.C., dopo il crollo del Khaganato Göktürk e l'indebolimento delle due parti che ne restavano, fu ancora l'Imperatore Tang Taizong a ripristinare il pieno controllo cinese sulla regione e buona parte dell'Asia Centrale.

Senza addentrarci ulteriormente nella storia, le suggestive città-oasi e i regni sorti attorno al temibile Deserto del Taklamakan sono la testimonianza di un crocevia etno-culturale e commerciale che oggi, a distanza di secoli, alla luce dell'iniziativa cinese Belt and Road (BRI), sta riacquisendo la sua importanza e la sua centralità internazionale nel quadro della Nuova Via della Seta. Le politiche di sviluppo economico e di inclusione sociale stanno dando, da diversi anni, frutti importanti, dopo un ventennio di tensioni ed attentati terroristici (almeno 26 tra il 1992 e il 2014) contro mercati di quartiere, bus turistici, sedi diplomatiche e uffici di polizia, rivendicati dall'East Turkestan Liberation Organization (ETLO) e dall'East Turkestan Islamic Movement (ETIM), quest'ultima riconosciuta - specie per i suoi legami con al-Qaeda - come organizzazione terroristica anche dagli Stati Uniti almeno fino allo scorso novembre, quando il Dipartimento di Stato, su decisione di Mike Pompeo, ha deciso di rimuoverla dal famigerato elenco, scatenando le ovvie ire di Pechino.

Grazie in particolare all'agricoltura, alla manifattura e al turismo, oggi la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, con un PIL che nel 2018 aveva raggiunto un dato pari a circa 150 miliardi di euro, vive una nuova fase di crescita. Nel 1995 è stata inaugurata la lunga direttrice stradale di 552 km che attraversa il Taklamakan, stagliandosi perfino al di sopra di tratti di sabbie mobili, e che collega la Contea di Luntai, nella Prefettura Autonoma Mongola di Bayin'gholin, con la Contea di Minfeng, nella Prefettura di Hotan, dove si incrocia con l'Autostrada Nazionale 315, un'arteria di oltre 3.000 km compresa tra Xining, nella Provincia del Qinghai, e la suggestiva Kashgar, dove l'affascinante città antica è stata riqualificata ed è meta di milioni di visitatori ogni anno.

Secondo i dati forniti in una conferenza stampa del luglio 2019 dal governatore regionale Shorhat Zakir, nel 2018 lo Xinjiang è stato raggiunto da oltre 150 milioni di turisti, in prevalenza dal resto della Cina ma sono in aumento anche quelli provenienti dall'estero, in particolare dai Paesi a maggioranza musulmana vicini (Kazakhstan, Uzbekistan ecc. ...) e lontani (Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi ecc. ...), grazie ai 21 aeroporti civili che servono la regione.

 

Occidente contro Cina? Non esattamente

Al di là della durezza, fin qui presunta, dei metodi messi in campo dalle autorità, i penitenziari, che hanno lo scopo di assicurare alla giustizia i responsabili di attentati terroristici, e i centri rieducativi, che cercano di recuperare alla normalità chi è stato affiliato ad organizzazioni terroristiche, non possono rappresentare un reale motivo di scontro tra nazioni che, pur da punti di vista diversi, hanno in comune l'obiettivo della ripresa economica e della lotta al terrorismo.

Guardando ai numeri, il monito di Kissinger assume contorni più definiti. Se la bilancia commerciale tra Pechino e Washington vede ancora quest'ultima in forte deficit nel 2020 (-310 miliardi di dollari), le esportazioni statunitensi verso la Cina sono tornate a crescere (+14,6%) rispetto al 2019, mentre nello stesso periodo le importazioni statunitensi dalla Cina sono diminuite (-3,58%). Questo come risultato - anche se soltanto parziale a causa della pandemia - della Fase 1 dell'Accordo, concluso a gennaio dello scorso anno, e non certo per i dazi approvati in precedenza dall'Amministrazione Trump che, scatenando le logiche ritorsioni cinesi, hanno semmai danneggiato per almeno due anni una quota importante dell'export Made in USA, come denunciato dall'associazione Americans for Free Trade.

Il dato va comunque letto in un contesto più ampio, che vede da qualche anno l'economia cinese trasformarsi da "fabbrica" a "mercato" del mondo, con i consumi interni, e non più l'export, a trainare la crescita. Da Shenzhen a Shanghai, da Pechino a Suzhou, da Guangzhou a Chengdu, in quasi tutte le città cinesi di livello prefetturale innovazione, servizi e manifattura di alto valore aggiunto stanno prendendo il posto delle vecchie industrie, ridimensionate e razionalizzate per motivi sia economici che ambientali.

Con un potere d'acquisto inedito ed un benessere sempre più diffuso, la classe media del Paese asiatico è già oggi la più vasta al mondo (quasi mezzo miliardo di cittadini). Le nuove esigenze di consumo spingono molti cinesi, specie tra le giovani generazioni, grazie anche al boom dell'e-commerce, verso beni e servizi di fascia medio-alta. Più in generale, il processo di trasformazione del modello di sviluppo cinese sta schiudendo nuove opportunità in favore delle aziende straniere che, per effetto della nuova legge sugli investimenti entrata in vigore il primo gennaio dello scorso anno, godono oggi di piena parità di trattamento rispetto alle aziende cinesi. Nel periodo 2011-2019, cioè prima dell'intervento del legislatore asiatico, il flusso di investimenti diretti esteri americani in Cina era cresciuto ogni anno, fino a toccare quota 116,2 miliardi di dollari nel 2019, destinati ad aumentare in futuro considerando che nel Paese asiatico l'ecosistema per le imprese sta migliorando di anno in anno, come attestano gli indicatori del rapporto Doing Business della Banca Mondiale.

Quello cinese, per caratteristiche intrinseche e conformazione sociale, è di fatto un mercato insostituibile ed ineludibile. Nessun altro attore emergente può prenderne il posto, inclusa la popolosissima l'India, ancora indietro, in certi aspetti persino di molto, rispetto ai livelli di sviluppo del potente vicino, dalle infrastrutture alla green economy, dalla digitalizzazione all'inclusione sociale. Anche per questo, le varie strategie "indo-pacifiche" messe in moto nel recente passato, in particolare da Stati Uniti e Francia, per contenere la Cina sono semplicemente destinate al fallimento.

Sebbene molti sembrino non accorgersene si sta già configurando una sfida sotterranea, ancora oscurata da una narrazione mainstream da Guerra Fredda, che non vedrà tanto l'Occidente prepararsi allo scontro con il Dragone quanto piuttosto le economie occidentali competere tra loro (e con gli altri attori avanzati della regione Asia-Pacifico) per cercare di accaparrarsi quote di mercato in Cina. Qui probabilmente si giocherà la partita del futuro e se l'Italia non sarà in grado di ritagliarsi un proprio spazio, fuoriuscendo dalla sua storica posizione di subalternità, sarà destinata alla marginalità.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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