(ASI) Tra una settimana, stando alle decisioni del governo, l'Italia dovrebbe finalmente chiudere la fase 1 dell'emergenza sanitaria ed avviare quella fase 2 di cui da giorni si parla e si discute intensamente, sia tra i corridoi di Palazzo Chigi che sulla stampa. Sono ancora forti le contrapposizioni sulle modalità di questa ripartenza, non soltanto tra le componenti della maggioranza di governo ma anche tra Roma e le singole regioni. Sullo sfondo appare un po' più solido e compatto, ma comunque ancora piuttosto incerto sul da farsi, il comitato tecnico-scientifico che l'esecutivo ha voluto al proprio fianco in questi due difficilissimi mesi. Una cosa è sicura: ripartire non sarà facile. Vista la complessità della situazione, stavolta nessuno è intenzionato a ripetere gli errori commessi, a vari livelli, nazionali e locali, tra Febbraio e Marzo.
A questo proposito sono già scattate le prime indagini della Magistratura sulla gestione dell'emergenza in alcune RSA di varie regioni d'Italia, a cominciare dalla Lombardia e dall'Emilia-Romagna, le più colpite da decessi interni alle strutture assistite. Al di là di quanto potrebbe emergere nelle prossime settimane dalle perquisizioni e dagli accertamenti decisi dall'autorità giudiziaria, fin'ora un dato appare indiscutibile: il pericolo della cosiddetta "infodemia", cioè della diffusione incontrollata di notizie non verificate, incomplete o del tutto false, paventato nei primi giorni dell'emergenza dalle autorità politiche e sanitarie del nostro Paese, non è stato affatto scongiurato.
Questa confusione informativa ha coinvolto addirittura il tema dell'origine dell'agente patogeno responsabile della pandemia, cioè il SARS-CoV-2, su cui, nonostante gli illustri responsi della comunità scientifica internazionale, a partire dalle prestigiose riviste britanniche Nature e The Lancet, si è preferito continuare a veicolare insinuazioni e dicerie del tutto infondate, portando molti lettori a convincersi ostinatamente di una presunta origine artificiale del virus, sfuggito - secondo la vulgata complottista - dal famigerato laboratorio biologico di Wuhan.
Malgrado le ripetute smentite del mondo scientifico, complici anche i rilanci social di alcuni leader politici del tutto irresponsabili, questa diffusa falsa credenza è direttamente legata ad un'altra, ancor più pericolosa, secondo cui, proprio in quanto manipolato dall'intervento umano, questo virus si dissolverebbe in pochi mesi per poi scomparire del tutto. Il rischio è evidentemente che, sulla base di queste ed altre fake news, molte persone in Italia possano sottovalutare i fattori di pericolo anche nella fase 2, dopo i gravissimi deficit informativi emersi nella prima gestione della fase 1, quando per circa tre settimane (dal 21 Febbraio al 10 Marzo) milioni di persone, al di fuori delle due minuscole zone rosse stabilite nel lodigiano e nel padovano, hanno continuato a muoversi in tutto il Paese, totalmente indisturbate e prive di qualsiasi dispositivo di protezione, per futili motivi.
La distorsione di molte delle informazioni giunte dalla Cina sin dall'inizio dello scorso mese di gennaio ha pesantemente contribuito a sottostimare i rischi della malattia, tutt'altro che minimi. Quando, tra fine Febbraio e fine Marzo, il contagio è progressivamente emerso in Europa e negli Stati Uniti, paradossalmente, ma nel più classico ed infantile degli scenari, ha preso il via una violenta campagna mediatica trasversale - da destra a sinistra - contro l'OMS e Pechino, accusate, senza alcun riscontro oggettivo, di aver nascosto informazioni fondamentali o di averle comunque comunicate in ritardo.
Insinuazioni gravissime che hanno convinto non pochi lettori (ed elettori) di una fantomatica connivenza tra l'organizzazione sanitaria dell'ONU, in particolare il suo direttore generale Tedros Adhanom Gebreyesus, e il governo cinese, per altro già smentita dalla semplice osservazione dell'elenco dei principali Paesi finanziatori dell'OMS (l'intero budget è quasi interamente coperto da Stati e fondazioni private occidentali) e dal passato politico dello stesso Tedros Adhanom, appartenente alla vecchia leadership tigrina in Etiopia, ormai scalzata dal governo democratico guidato dal giovane leader Oromo, Abiy Ahmed: un passaggio - molto caldeggiato anche da Pechino - che ha consentito, un anno e mezzo fa, di chiudere la ventennale crisi politica e militare con l'Eritrea del presidente Isaias Afewerki per giungere ad uno storico accordo, valso ad Abiy Ahmed il Premio Nobel per la Pace.
Ora che l'Italia si avvicina sempre più rapidamente alla delicatissima apertura della fase 2 di questa inedita emergenza sanitaria è fondamentale non ripetere gli stessi errori, smettendo di sfornare post sensazionalistici ed insinuazioni prive di fondamento al solo scopo di eccitare le reazioni pavloviane di un pubblico chiaramente spaventato ed angosciato dalla situazione che stiamo vivendo, dunque mentalmente più fragile e volubile. Il clickbaiting è uno dei veri problemi del nostro tempo, l'altare sul quale non pochi siti web o pagine e gruppi social a carattere divulgativo sono disposti a sacrificare la correttezza e il buon senso, confondendo la libertà di espressione con l'arbitrio indiscriminato e la presunzione di poter maneggiare gli argomenti più disparati (e delicati) con supponenza e superficialità, senza averne le competenze.
In Cina, le misure di contenimento dell'epidemia di Covid-19 hanno seguito una dinamica logicamente diversa dall'Italia. Le catene di contagio si sono estese in un'area geografica ben precisa, quella dello Hubei, in particolare del capoluogo Wuhan, posizionato a distanze ragguardevoli da gran parte delle altre grandi metropoli del Paese (le "vicine" Changsha e Chongqing distano rispettivamente 350 e 860 km da Wuhan). Il blocco decretato dal governo cinese lo scorso 23 gennaio, due giorni prima del Capodanno lunare, aveva isolato un'area di quasi 60 milioni di abitanti sottoponendola a disposizioni molto rigide: sospensione totale di attività industriali e commerciali, con la sola eccezione dei servizi ritenuti essenziali (sanità, pubblica sicurezza, supermercati, farmacie e consegne a domicilio di generi alimentari); limitazione estrema degli spostamenti; regime di chiusura, autocontrollo e auto-organizzazione dei blocchi (aree) di ogni singolo quartiere della città; contingentamento degli ingressi nei supermercati (solitamente cinque persone alla volta); obbligo per tutti di indossare mascherine in pubblico anche in assenza di sintomi.
Questo ha consentito di raggiungere il traguardo degli zero nuovi contagi giornalieri nell'intera provincia dello Hubei il 18 marzo scorso, cioè quasi due mesi dopo, riavviando gradualmente le attività anche nella stessa Wuhan, che proprio ieri - a quattro mesi dai primissimi casi di contagio e a tre mesi dal blocco della città - ha segnato l'azzeramento completo degli attualmente positivi. In ogni caso, i 76 giorni di quarantena attraversati dalla metropoli cinese hanno costituito una prova durissima per la popolazione, tanto che il governo, già nelle fasi cruciali dell'emergenza, alle linee telefoniche sanitarie per l'emergenza aveva affiancato decine di numeri verdi dedicati al sostegno psicologico per chi era costretto a restare chiuso in casa, tra cui diversi cittadini di altre aree del Paese rimasti bloccati a Wuhan presso le abitazioni di amici o parenti. Lo scorso 8 aprile, la rimozione dei blocchi verso l'esterno è stata salutata come una vera e propria liberazione, ma le conseguenze psicologiche di questa esperienza sono destinate a lasciare il loro segno per settimane, forse mesi o addirittura anni, rendendo necessario il supporto di terapeuti specializzati.
Nel frattempo, già tra la fine di Febbraio e l'inizio di Marzo, le province più lontane dallo Hubei, meno colpite dal contagio, avevano cominciato a ripristinare gradualmente le attività industriali e commerciali, ripartendo però in un contesto di normalità soltanto relativa: permane ancora in tutta la Cina la disposizione di indossare mascherine protettive in strada e nei luoghi di lavoro, mentre sono state da tempo introdotte nuove e più efficaci modalità di controllo degli spostamenti attraverso sistemi di geolocalizzazione e riconoscimento facciale per tracciare possibili nuove catene di contagio e bloccarle così sul nascere.
Lo scorso 29 marzo, durante un'ispezione al porto di Ningbo, nella provincia dello Zhejiang, affacciato di fronte a Shanghai sulla Baia di Hangzhou, il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che le cose sarebbero tornate alla normalità solo di fronte ad una tendenza positiva e consolidata nel controllo dell'epidemia. «Sebbene la stragrande maggioranza delle province del Paese sia ora a basso rischio - aveva detto Xi in quell'occasione - non è ancora tempo di pensare che tutto vada bene», invitando ad essere «attenti e pazienti».
L'approccio diversificato, «regionalizzato e multilivello», stabilito da Xi Jinping a Febbraio, in base alla situazione specifica del contagio nelle diverse aree del Paese e agli standard di sicurezza garantiti dai singoli comparti industriali, ha dunque consentito finora di armonizzare l'interesse primario della salute pubblica con quello, tutt'altro che irrilevante, della ripresa economica. Chiaramente, in Cina è lo Stato a farsi carico, almeno indirettamente, dei pesantissimi colpi inferti dal Covid-19 al tessuto produttivo, e in particolare alle tantissime piccole e medie imprese presenti nel Paese, le più colpite dalle misure restrittive dei primi due mesi di emergenza.
Pechino ha preferito non tanto distribuire denaro, mirato essenzialmente ad alleviare i problemi nelle comunità meno abbienti delle aree rurali, quanto piuttosto puntare su altre misure di stimolo: da un lato ha ridotto i coefficienti di riserva obbligatoria in seno alle piccole banche, spinte così a venire incontro alle esigenze creditizie delle PMI; dall'altro ha notevolmente alleggerito gli oneri fiscali per queste attività. Alla metà di aprile, cica l'84% di loro aveva già ripreso le normali attività di business.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia