(ASI) «Il più grande - e forse il solo - risultato in politica estera dell'amministrazione Trump è stato lo sviluppo di una politica coerente e genuinamente bipartisan verso la Cina di Xi Jinping». A dirlo è stato l'anti-Trump per eccellenza, il celebre finanziere George Soros, in un commento pubblicato lo scorso 8 settembre dal Wall Street Journal, riferendosi in particolare alla decisione della Casa Bianca di aver dichiarato Pechino «un rivale strategico» e alle restrizioni imposte al gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei. A questo proposito, Soros ha più volte invitato il presidente statunitense a non cedere su alcun punto, ignorando le richieste di distensione con la Cina che provengono da numerose associazioni industriali americane - non ultima Americans for Free Trade - in difficoltà a causa della guerra dei dazi.
Noto a molti in Europa per il più recente supporto ad alcune delle ONG che si occupano di immigrazione, Soros è uno dei più celebri speculatori di Wall Street ma soprattutto uno dei più agguerriti intellettuali liberal del panorama politico statunitense, a tal punto che il suo attivismo internazionale si è spesso incrociato ed intrecciato con la strategia di politica estera che, di volta in volta, gli inquilini della Casa Bianca hanno adottato.
Intervenuto all'ultimo vertice del Forum Economico Mondiale a Davos lo scorso gennaio, già da quel palco Soros aveva apertamente attaccato la Cina, indicandola come «la principale minaccia al mondo libero», ed il suo presidente Xi Jinping, accusato di voler instaurare un regime fondato sul monopolio del 5G e dell'intelligenza artificiale per aumentare la capacità di controllo dello Stato sugli individui e comprimere le libertà personali. Dito puntato anche contro l'iniziativa Belt and Road, il progetto della Nuova Via della Seta con cui - a detta di Soros - la Cina vorrebbe di fatto conquistare il mondo. Lo scenario prefigurato dall'anziano magnate, in realtà, somiglia molto da vicino al fantasioso copione di un film distopico post-apocalittico americano degli anni Ottanta, ma tanto è bastato per catturare l'attenzione degli osservatori e dei giornalisti.
Personaggio da sempre controverso, Soros cominciò ad accumulare denaro alla fine degli anni Sessanta, con il suo primo fondo speculativo: Double Eagle. Dopo qualche anno di operazioni sui mercati finanziari, insieme al socio Jim Rogers, decise di creare il Quantum Fund, con cui concluse le operazioni più consistenti e spericolate della sua carriera, come quella che ruota attorno al famigerato "mercoledì nero" del 16 settembre 1992, quando il fondo di Soros, sfruttando debolezze monetarie ed incertezze politiche, portò a termine due distinti attacchi speculativi contro Lira e Sterlina. Copione analogo cinque anni più tardi nel Sud-est asiatico, colpito da una pesante crisi finanziaria. Oggi, il Quantum è un gruppo di fondi con sedi sparse fra Londra, New York, Caraibi Olandesi (ex Antille Olandesi) e Isole Cayman, ma nel 2011, dopo aver subito consistenti contraccolpi dalla crisi di Wall Street del 2007, Soros ha annunciato la fine della sua attività di gestione di fondi altrui, limitandosi a curare il proprio patrimonio, che qualche anno fa indiscrezioni stimavano intorno ai 24 miliardi di dollari. Secondo il Sole24Ore, la ragione di questa decisione, che ha chiuso un'epoca d'oro per il magnate, risiede nei nuovi e più restrittivi regolamenti di ispezione e controllo introdotti in borsa negli Stati Uniti dalla legge Frank-Dodd proprio in risposta al disastro del 2007.
Nel corso degli anni, una parte significativa - si parla di circa 8 miliardi di dollari ma forse la cifra è più alta - dei guadagni ottenuti in borsa è stata così riversata nelle attività delle fondazioni legate al suo Open Society Institute (OSI). Fra queste, indubbiamente, un ruolo strategico è stato giocato dalle cosiddette "rivoluzioni colorate", azioni di protesta e sommossa, ispirate di volta in volta ad un tema floreale o ad un colore simbolico, tentate in vari Paesi dell'Europa Orientale, dell'Asia e dell'America Latina e riuscite in almeno quattro contesti, che hanno fatto scuola: la rivoluzione del "pugno bianco" in Serbia (2000), guidata dal movimento Otpor per costringere il presidente Slobodan Milošević alla resa; la rivoluzione delle rose in Georgia (2003), che defenestrò Eduard Shervadnadze e incoronò Mikheil Saak'ashvili; la rivoluzione arancione in Ucraina (2004), che costrinse Leonid Kučma all'abbandono per far posto a Viktor Juščenko; e la rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan (2005), che provocò la caduta di Askar Akayev portando al potere Kurmanbek Bakiyev. In questi ed altri casi, l'Open Society agì congiuntamente alla National Endowment for Democracy (NED) e all'International Republican Institute (IRI), due organizzazioni no-profit nate in seno al Congresso degli Stati Uniti e finanziate da personalità o strutture rispettivamente riconducibili al Partito Democratico e al Partito Repubblicano. Al di là della facciata ideologica o delle stesse convinzioni politiche di Soros, infatti, l'obiettivo di quegli sconvolgimenti politici era semplicemente la sostituzione (regime-change) di leadership filo-russe con leadership filo-americane.
L'idea di "società aperta", che dà il nome alle fondazioni create da Soros a partire del 1993 - le Open Society Foundation, con 37 "agenzie" regionali e diramazioni in un centinaio di Paesi nel mondo - per diffondere più capillarmente la "missione democratica" portata avanti dall'Open Society Institute, trae la sua ispirazione dal pensiero del filosofo ed epistemologo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Popper, che nel 1945 pubblicò il celebre saggio La società aperta e i suoi nemici. Il suo primo terreno di lotta fu l'Europa Orientale, dove sostenne gruppi dissidenti come il sindacato cattolico polacco Solidarność e il movimento libertario Charta77 nell'allora Cecoslovacchia. Naturalizzato statunitense ma originario di Budapest, negli anni Ottanta George Soros aveva concentrato molti dei suoi sforzi politici proprio in Ungheria per minare alle basi il regime comunista di János Kádár, finanziando l'apertura di circoli culturali, università e centri di ricerca. Sino ad entrare più di recente in contrasto con Viktor Orbán, un tempo "alleato" nel comune fronte antisovietico ma ormai orientato verso un conservatorismo euroscettico ed una politica estera piuttosto China-friendly.
Lo scorso 13 luglio, lo Xinmin, un quotidiano di Shanghai, non ha usato mezzi termini tirando in ballo direttamente George Soros e le sue fondazioni nell'ambito dei disordini in corso ormai da quasi quattro mesi a Hong Kong. Secondo la testata cinese, la Fondazione Soros ha tentato di «infilare i suoi artigli da coccodrillo in Cina sin dal 1986», quando propose la fondazione di un Istituto per le Riforme Economiche, modellato sull'esempio ungherese. Nel 1989, dopo che Pechino sventò un altro celebre tentativo di regime-change, quello di Piazza Tienanmen, la Fondazione Soros si ritirò completamente dal Paese asiatico, tornando tuttavia nel 2004 «attraverso canali privati, mezzi finanziari e sostegno economico a ONG cinesi e istituzioni correlate, in ambiti quali assistenza legale, contenzioso di interesse pubblico, tutela ambientale e prevenzione dell'AIDS».
Nel caso dell'ex colonia britannica si fa esplicito riferimento ad una sistematica opera di infiltrazione congiunta da parte della Fondazione Soros e della NED all'interno dell'Università di Hong Kong, oltre al sostegno che queste avrebbero garantito alla Scuola di Diritto del dissidente Dai Yaoting, fondatore di Occupy China, e all'organizzazione di seminari presso il Centro di Ricerca sul Diritto Costituzionale e il Centro di Ricerca Giornalistico riguardo temi quali "Leadership Civile" e "Diritti Umani".
Si va delineando così un quadro complesso nel cuore di una protesta a tratti molto violenta che, recuperando la propagandistica immagine degli ombrelli (cinque anni fa gialli, oggi neri), si configura come uno scontro politico ben più ampio per testare la reazione della Cina, costretta a mantenere i nervi saldi per evitare di intervenire militarmente in una regione che dal 1997 è tornata ad essere parte integrante del suo territorio nazionale, sebbene con la forte autonomia legislativa, giudiziaria ed economica garantita dalla dottrina Un Paese, due sistemi, pensata da Deng Xiaoping anche per Macao e Taiwan.
Eppure, il vento è ormai cambiato. Lo sventolio di bandiere statunitensi e britanniche da parte dei manifestanti anti-Pechino avrebbe potuto rappresentare un'immagine forte, dal punto di vista simbolico, venti o trent'anni fa, quando Washington e Londra disponevano di una vasta gamma di strumenti politici, economici, finanziari, militari e culturali per esercitare pressione sulla Cina. Oggi, invece, Donald Trump, sebbene esortato dallo stesso Soros a non mollare la presa, e Boris Johnson restano per lo più indifferenti alle richieste che gli attivisti di Hong Kong hanno rivolto ai loro governi. In realtà molto più prudenti di quanto appaia in pubblico, i due leader "populisti" misurano attentamente qualsiasi parola per evitare dichiarazioni incaute. Trump, infatti, non vuole pregiudicare la possibilità di riaprire i negoziati commerciali con la Cina, mentre Johnson non può permettersi alcuna frizione con la potenza asiatica, tanto più di fronte al sempre più concreto scenario di una Hard Brexit.
Gran parte della società di Hong Kong, cioè i circa 6 milioni di abitanti mai scesi in strada fin'ora, non condivide né i metodi né gli obiettivi delle proteste che - ormai è evidente - non mirano certo alle mere dimissioni della governatrice Carrie Lam, eletta nel 2017, o ad una fantomatica "democrazia civile", ma puntano alla destabilizzazione politica e sociale per ottenere l'indipendenza della regione dalla Cina continentale. Imprenditori e uomini d'affari sono in gran parte schierati nel maggioritario campo pro-Pechino, rappresentati da forze politiche come il BPA e il locale Partito Liberale, centinaia di migliaia di giovani nati poco prima o poco dopo la riunificazione hanno ormai acquisito un'identità nazionale che la colonizzazione britannica aveva snaturato e distorto. Dati alla mano, con un PIL di circa 363 miliardi di dollari, la ricca Hong Kong è la 33a economia al mondo ma importa dalla Cina continentale ben 255 miliardi di beni, pari al 42% del totale, seguita a lunga distanza da Singapore con 60,8 miliardi (10% del totale). In pratica, più della metà delle importazioni di Hong Kong arrivano da Pechino e da una città-Stato a maggioranza etnica cinese che, pur tendenzialmente neutrale, non si schiererà mai contro la Cina.
Ritirata ufficialmente la proposta di legge sull'estradizione, oggetto delle prime contestazioni di piazza, le proteste continuano e i manifestanti più violenti proseguono a devastare stazioni, metropolitane ed edifici, come nella consueta tradizione delle "rivoluzioni colorate", ma il loro rumore è inversamente proporzionale al favore che sono in grado di raccogliere in patria e nel mondo. Neanche un Soros potrà aiutarli.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia