(ASI) Barcellona - I risultati del referendum del 1 ottobre erano stati annullati fra la repressione della guardia civil e la severità di Madrid. Dopo tante schermaglie a distanza, la soluzione del Primo Ministro spagnolo Mariano Rajoy, nei confronti di un popolo che reclama il proprio diritto alla sovranità, sono state nuove elezioni regionali. Altre urne, altro giro di voti, questa volta non sconvolto dalle violenze, ma civile e pacifico fra i seggi di Barcellona.  
 Il primo partito ad essere stato votato è stato Ciutadans quello del giovane Albert Rivera e dell’astro nascente del movimento Ines Arrimadas, ma in maggioranza sono tornati, ancora una volta, i separatisti. Ha esultato dal Belgio l’ex presidente della Generalitat catalana Carles Puidgemont, ma senza avere molta voce in capitolo, rispetto a quello che sarà il futuro politico della regione indipendentista spagnola.

La Catalogna è ora alle prese con ben altre crisi rispetto al semplice riconoscimento dell’indipendenza, raggiungibile solo con il consenso di Madrid. Fra il 2 e il 23 ottobre scorso quasi 1400 aziende hanno reso nota l’intenzione di lasciare la Catalogna, secondo le Camere di Commercio spagnole. Fra queste, grandi gruppi come Caixabank e Oryzon Genomics. Quelle economiche sono però esigenze legate alla metropoli di Barcellona, che non corrispondono a quelle di piccoli borghi come Berguedà, Osona, Girona, Lleida o Tarragona. Come accadde per il caso Brexit il 23 giugno 2016, le campagne sembrano aver fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte del nazionalismo, decretandone la vittoria elettorale.

Ancora una volta è la geografia a spiegare il populismo. Dove la globalizzazione e i gangli della finanza hanno meno peso, insieme al turismo e agli investimenti esteri, lì fiorisce il maggior rigetto dello status quo e del potere centrale madrileno. Così avviene anche per l’Unione Europea, con l’euroscetticismo che prevale nelle campagne.
Un meccanismo che in Europa conoscono molti partiti nazionalisti, in Ungheria come in Polonia, in Austria come in Germania e Francia. Londra vorrebbe prendere le distanze dal resto del Regno Unito nazionalista, per mantenere un legame economico stretto con Bruxelles e non isolarsi dalla realtà globalizzata della finanza internazionale.

Il caso catalano è solo l’ultimo di tanti esempi: nel Barcelonés (Barcellona città) il 47% delle imprese e il 51% dell’occupazione nell’intera regione, oltre il 66% ha votato per partiti favorevoli all’unità spagnola. Berguedà e Osona, più estesi della metropoli barcellonese ma principalmente rurali, 7 elettori su 10 hanno votato per i secessionisti. Nei villaggi e piccoli centri sventola la Estelada, la bandiera indipendentista, più di quanto non lo faccia nella città di Barcellona o dentro lo stesso Camp Nou, lo stadio del Barça.
Tarragona, Lleida e Girona sono le roccaforti di un sentimento no global che grida ogni giorno «Madrid nos roba», Madrid ci deruba, come fosse il riadattamento catalano del motto leghista «Roma ladrona».
Oggi la partecipazione politica è caratterizzata da questa spaccatura, a livello nazionale e regionale, in ambito referendario, come in quello amministrativo. Una frattura che non è solo sintomo di un nuovo trend elettorale, ma è segno di una malattia che caratterizza e isola le capitali dalle loro periferie.

Lorenzo Nicolao – Agenzia Stampa Italia

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