(ASI) Qualche giorno fa, in Cina è stato inaugurato il più grande mercato delle emissioni al mondo. Si tratta di un sistema collaudato da anni su scala internazionale, che prevede la quotazione monetaria e lo scambio fra Stati delle emissioni di gas serra e altre sostanze dannose per contenere e ridurre l'inquinamento, rientrando nei parametri fissati dal Protocollo di Kyoto.
Dopo alcuni esperimenti-pilota avviati fra il 2013 e il 2014 in cinque città e due province del Paese, tra cui Pechino e Shanghai, il governo cinese ha dunque esteso questo sistema a livello nazionale.
Secondo quanto annunciato martedì scorso da Zhang Yong, vicepresidente della Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, il trading avverrà sulla piazza di Shanghai coinvolgendo 1.700 aziende dell'energia elettrica per un totale di oltre 3 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio all'anno, pari ad un terzo del totale delle emissioni cinesi: un dato importante che supera, per volume, il mercato delle emissioni dell'Unione Europea e che fa della Cina il leader mondiale nel quadro del contrasto ai cambiamenti climatici, dopo essere stata per lungo tempo il primo investitore al mondo in energia rinnovabile, con la più alta capacità installata e 3,5 milioni di posti di lavoro nel settore green.
L'estensione geografica del Paese, il suo altissimo dato demografico e le trasformazioni legate al processo di industrializzazione hanno creato numerosi problemi in materia ambientale tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. C'è ancora molto da fare in questo senso, come sottolineato dal presidente Xi Jinping nel corso della relazione che ha aperto il 19° Congresso del Partito Comunista Cinese lo scorso ottobre. Eppure, i passi in avanti compiuti nel corso degli ultimi quindici anni ed il rinnovato impegno ecologico per (ri)creare quella che la stessa leadership cinese ha definito «una Cina meravigliosa» con «cieli azzurri, paesaggi verdi e acque limpide», hanno di fatto confermato gli impegni che Pechino ha voluto assumere a livello internazionale, aderendo gli Accordi di Parigi nel dicembre del 2015.
Il contemporaneo disimpegno degli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump ha duramente criticato i vincoli ambientali internazionali, aveva già messo la Cina nelle condizioni di guidare, assieme all'Europa, le politiche mirate al contenimento e alla riduzione delle emissioni nocive. Ora, con questa novità, Pechino prende in mano le redini della sfida globale ai cambiamenti climatici. La Cina è anche il primo Paese emergente a compiere una svolta simile, nonostante il buon impegno finora messo in campo anche dal Brasile. Una mossa nient'affatto scontata, considerando che la vicina India, a quasi parità di popolazione, versa in ben più gravi condizioni. Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, nel 2016, delle 30 città più inquinate al mondo ben 14 - quasi la metà - erano indiane e soltanto 6 - un quinto - cinesi. Ve ne erano poi 3 in Arabia Saudita, 2 in Iran, 2 in Pakistan, 2 in Africa ed una in Bangladesh.
L'impegno per la salvaguardia dell'ambiente si inserisce in un generale processo di responsabilizzazione che coinvolge anche la diplomazia, l'economia e la governance finanziaria internazionale. Il discorso di Xi Jinping a Davos, in occasione dell'ultimo Forum Economico Mondiale nel gennaio di quest'anno, ha fatto il giro del mondo e ha probabilmente rappresentato una chiave di volta. Nulla di inedito o particolarmente nuovo. Di fronte alla platea di politici, economisti e giornalisti riuniti nel celebre centro vacanziero svizzero, il presidente cinese non fece altro che ribadire le intenzioni e gli obiettivi della visione globale cinese costruita nel corso degli ultimi dieci anni. Eppure, la percezione dell'opinione pubblica internazionale, soprattutto quella occidentale, nei confronti del Paese asiatico cominciò a cambiare. L'Europa, in particolare, dopo gli inaspettati scossoni della Brexit e della vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, cominciò ad inquadrare Pechino in un'ottica diversa.
Tra la Cina e l'Unione Europea non mancavano i punti di contatto prima di allora, così come non mancano le incomprensioni ancora oggi. Eppure, l'interesse per l'iniziativa Belt and Road, lanciata nel 2013 da Xi Jinping con l'obiettivo di ricostruire in chiave moderna le antiche direttrici terrestri e marittime della Via della Seta, è entrato con sempre maggior forza nell'agenda di politica estera di molti Paesi europei, senza distinzioni sostanziali fra Ovest ed Est del Vecchio Continente.
In un editoriale per Xinhua di venerdì scorso, Liu Chang si è interrogato sul futuro della politica mondiale, prendendo in esame le contraddizioni delle leadership occidentali negli ultimi venti anni. «Un esempio - ha scritto Liu - nella storia recente è la guerra in Iraq» dove «per garantire la loro presenza strategica nella regione, gli Stati Uniti avviarono le operazioni militari sulla base di un'informazione inventata e della falsa promessa di liberare il Paese dalla tirannia». «A quattordici anni dall'inizio di quel conflitto - ha proseguito l'analista cinese - l'Iraq ancora soffre una crisi su più fronti e le prospettive di pace nell'intero Medio Oriente non potrebbero essere più oscure».
L'apparente contraddizione generata dalla politica di Trump, dunque, non farebbe che riproporre l'unilateralismo americano, traslandolo da una dottrina "internazionalista", quella neo-conservatrice del passato, ad una "isolazionista", di pari passo con il ridimensionamento del peso e dell'influenza mondiale degli Stati Uniti. «Reclamando lo slogan 'America First' - scrive Liu Chang - [Trump] ha accusato molti partner commerciali, se non tutti, del suo Paese di aver sfruttato gli Stati Uniti, minacciando di voler rinegoziare per ottenere quelli che ha definito accordi "più giusti"». «Una simile dottrina unilaterale ha generato timori sempre maggiori in un'era in cui il multilateralismo è necessario al fine di conciliare gli interessi profondamente intrecciati di tutte le nazioni».
Per Xi Jinping, invece, la «diplomazia da grande Paese con caratteristiche cinesi» non si traduce in un China First ma in un'assunzione di responsabilità. Come ricordato durante la sua relazione alla Conferenza Annuale del Forum di Boao del 2015, secondo la visione del presidente cinese, la crescita del Paese non è finalizzata a piani egemonici ma «implica farsi carico di maggiori responsabilità per la pace e lo sviluppo su scala regionale e mondiale». Emblematica, in questo senso, è senz'altro la posizione assunta dalla Cina nella crisi nucleare della Penisola Coreana, di fronte alla quale non ha esitato a recepire i provvedimenti indicati dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU per esercitare pressione su Kim Jong-un ma al contempo ha frenato le pulsioni interventiste di Donald Trump e della sua amministrazione.
La visione della globalizzazione della leadership cinese è dunque diametralmente opposta a quella nordamericana emersa negli anni Novanta, rigettando l'idea di una potenza-guida che imponga il proprio modello di sviluppo e la propria cultura in tutto il resto del pianeta. Nutrendosi ancora dei cinque principi di coesistenza pacifica e dello spirito della Conferenza di Bandung del 1955, la politica internazionale cinese miscela sapientemente un forte patriottismo con un marcato senso di responsabilità verso il resto del mondo. Non va mai dimenticato, infatti, che in molte regioni del Sud del globo è largamente diffusa l'opinione che Pechino rappresenti ancora un "ambasciatrice" mondiale dei popoli emarginati, oppressi o colonizzati. Sebbene abbia abbandonato qualsiasi dogmatismo ideologico, lasciandosi alle spalle il fanatismo distruttivo della Rivoluzione culturale per costruire un percorso riformista del tutto peculiare - quello, per l'appunto, del socialismo con caratteristiche cinesi - la Cina non ha mai perso di vista il nocciolo di una missione storica che non concepisce il riscatto nazionale e la prosperità interna al di fuori della pace e della stabilità mondiale.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia