(ASI) Lunedì, davanti alla stampa al gran completo, il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato l'atto con cui ha ritirato unilateralmente il Paese dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP), a lungo inseguito dal suo predecessore Barack Obama.
L'accordo tra i dodici partner aderenti era stato raggiunto nell'ottobre del 2015 ad Atlanta. In quell'occasione, Michael Froman, ex rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, lo definì «un importante primo passo» verso la costituzione di un'area di libero scambio tra alcune delle più importanti economie delle due sponde del Pacifico. Stati Uniti, Canada, Australia, Messico, Giappone, Nuova Zelanda, Malesia, Singapore, Vietnam, Brunei, Cile e Perù rappresentano infatti circa il 40% del PIL mondiale, sebbene il peso internazionale dell'accordo fosse piuttosto sbilanciato verso il continente americano. Il trattato, infatti, prese forma nel 2005 come partenariato economico regionale tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore, ma nel 2008 gli Stati Uniti, seguiti da Australia, Malesia, Perù e Vietnam, decisero di prendervi parte, ampliandone le dimensioni e le prospettive.
A dieci anni dalla sua prima comparsa, l'intesa raggiunta ad Atlanta sull'accordo, rimodellato nel frattempo da Washington, sembrava rispondere in pieno alle necessità poste dalla dottrina del Pivot to Asia, presentata da Hillary Clinton sulle pagine del Foreign Policy nel 2011, al fine di contenere la Cina - sempre esclusa dai negoziati - nella regione Asia-Pacifico. Più dettato da ragioni geopolitiche che economiche, dunque, il TPP cercava in particolare di riorientare verso i vettori nordamericani l'intera area del Sud-est asiatico, dove ormai Washington aveva perso molto terreno, fino a scivolare nel 2015 addirittura in quarta posizione nel quadro dell'interscambio commerciale con i Paesi ASEAN, preceduta non solo da Pechino, ma anche da Tokyo e Bruxelles.
Tuttavia, al malcelato scetticismo verso il TPP degli altri sei membri ASEAN, tra cui due mercati di vaste dimensioni e grandi potenzialità come quelli di Indonesia e Filippine, si era aggiunto anche l'attendismo di un alleato storico come la Corea del Sud, che aveva rimandato la sua adesione a data da destinarsi. Inoltre, se l'accordo generale tra le rappresentanze governative dei dodici partner era stato raggiunto, affinché il trattato entrasse definitivamente in vigore era necessario attendere l'approvazione da parte dei parlamenti nazionali dei singoli Stati coinvolti, aprendo una fase sicuramente non priva di ostacoli.
Obama ha perso la sua guerra commerciale
Alla fine, ci ha pensato Donald Trump a sciogliere dubbi e perplessità ritirando direttamente gli Stati Uniti dal trattato, privato così di gran parte del senso e del significato politico ed economico che aveva assunto. In assenza dell'attore principale, infatti, molti degli undici Paesi rimasti coinvolti nel TPP non hanno più gli stessi interessi nella realizzazione di quest'area di libero scambio. La prima economia mondiale, con i suoi 320 milioni di consumatori, avrebbe assorbito una parte considerevole dei beni prodotti nel Sud-est asiatico e in America Latina. Ora, invece, il TPP rischia addirittura di creare insidiose sovrapposizioni di carattere tecnico-giuridico con i trattati già in vigore nella regione. Ad esempio, con Giappone, Australia e Nuova Zelanda l'ASEAN ha già raggiunto da anni accordi commerciali separati (AJCEPA, AANZFTA ecc. ...), la stessa città-Stato di Singapore, col suo porto di rilevanza mondiale, è pienamente interconnessa con tutte le principali aree del pianeta, mentre il Vietnam è ormai prossimo ad inaugurare l'area di libero scambio con l'Unione Europea (EVFTA), un mercato che può facilmente sostituire quello statunitense, simile per tipologia di domanda e posizionamento nella catena del valore. Allo stesso modo, sono in vigore da anni accordi tra Cile e Perù, tra Messico e Canada, tra Perù e Giappone e così via. Gli accordi bilaterali o trilaterali ancora sul tavolo, invece, potrebbero addirittura essere meglio sviluppati scavalcando il TPP, cioè senza dover passare al vaglio di attori terzi.
In patria, le maggiori critiche ad Obama in relazione al TPP riguardavano i settori industriali ritenuti più a rischio negli Stati Uniti e provenivano tanto dalla destra di Trump quanto dalla sinistra di Bernie Sanders e dai sindacati. L'ex presidente, tuttavia, aveva cercato di rassicurare tutti sostenendo che il TPP avrebbe livellato «il terreno di confronto per i nostri agricoltori, allevatori e industriali», dando «ai nostri lavoratori l’equa opportunità di successo che gli spetta». I dettagli dell'accordo, fino a quel momento non ancora rivelati al pubblico, sarebbero stati oggetto di discussione al Congresso, che in seguito avrebbe deciso se recepirlo o bocciarlo. Insomma, malgrado i molti dubbi, per Obama contrastare la Cina era una priorità: «Quando oltre il 95% dei nostri potenziali clienti vive fuori dai nostri confini - aveva detto Obama a margine dell'accordo di Atlanta del 2015 - non possiamo lasciare che Paesi come la Cina scrivano le regole dell'economia globale».
La sconfitta elettorale di Hillary Clinton, probabilmente il vero mastermind della politica estera di Obama sul Pacifico, ha chiuso definitivamente la strategia che ha visto gli Stati Uniti ricercare il protagonismo nella regione, dopo che la precedente amministrazione Bush jr l'aveva trascurata preferendo concentrarsi sul Medio Oriente e sull'Asia Centrale. Il multilateralismo mostrato dai democratici non ha potuto però nascondere l'obiettivo di fondo della sua missione, soprattutto quando il vertice APEC del novembre 2015 a Manila fu di fatto trasformato da Obama in un'arena di scontro sulla questione degli arcipelaghi contesi nel Mar Cinese Meridionale, suscitando non solo la scontata irritazione di Pechino ma anche le perplessità degli altri ospiti internazionali.
La vittoria di Rodrigo Duterte ha infine messo Barack Obama all'angolo. Il nuovo presidente delle Filippine, storico partner di Washington, ha infatti più volte ribadito di voler orientare la politica estera del suo Paese verso Cina e Russia, minacciando di chiudere le basi militari statunitensi presenti sul territorio nazionale e ricorrendo a toni tutt'altro che concilianti nei confronti dell'ex inquilino della Casa Bianca.
La Cina è pronta a colmare il vuoto
Con il ritiro dal TPP deciso lunedì da Donald Trump, ciò che il duo Obama-Clinton temeva potrebbe cominciare a prendere forma nel medio periodo. Il Partenariato Economico Regionale Globale (RCEP) è, assieme al piano Belt and Road (Nuova Via della Seta), il più ambizioso dei progetti di sviluppo e internazionalizzazione presentati da Pechino. Descritto da molti come un vero e proprio antagonista del TPP, il progetto RCEP viene presentato alla fine del 2011 con l'intenzione di racchiudere in un'unica area economica tutti i protagonisti del vertice ASEAN+6: Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, India e, chiaramente, i dieci Paesi del Sud-est asiatico. Questa mastodontica entità ingloberebbe così il 45% della popolazione mondiale, il 40% circa del volume commerciale globale ed un PIL complessivo di quasi 22.000 miliardi di dollari. Gli obiettivi sono molteplici e non riguarderebbero la sola dimensione commerciale e lo scambio di beni e servizi, ma anche gli investimenti, la cooperazione tecnologica, la tutela della proprietà intellettuale e la conciliazione delle contese tra i Paesi coinvolti.
La Cina è entrata da appena un anno nella fase del suo 13° piano quinquennale, che ha annunciato l'introduzione di nuovi paradigmi di sviluppo e di nuove forze-motrici della crescita nel tentativo di coniugare l'imponente ascesa del settore terziario nazionale con l'innovazione e la connettività che stanno caratterizzando gli studi e le sperimentazioni legate al concetto di Industria 4.0. In questo modo, Pechino ha in mano l'occasione di portare avanti una sua specifica terza rivoluzione industriale, evitando gli eccessi che il processo di terziarizzazione ha prodotto in Occidente nel corso degli ultimi trent'anni, a partire da quella deindustrializzazione oggi denunciata, con notevole ritardo e non senza contraddizioni, dallo stesso Donald Trump negli Stati Uniti. Proprio dai ritardi e dalle contraddizioni della politica statunitense, prende evidentemente corpo il discorso che Xi Jinping ha pronunciato la scorsa settimana al Forum Economico Mondiale di Davos. Equivocato da molti in Occidente, l'atteggiamento conciliante e la spinta all'avanzamento del processo di globalizzazione economica hanno stizzito o sorpreso molti osservatori, eppure la posizione assunta dalla Cina è la naturale e prevedibile conseguenza di un percorso che vede la Cina trasformarsi da "fabbrica del mondo", prevalentemente orientata all'export di produzioni a basso o medio contenuto tecnologico, in "mercato del mondo", pronto a vendere e ad acquistare beni e servizi di alta o altissima qualità. La riduzione del carico fiscale sulle imprese, la semplificazione della pubblica amministrazione, la riforma delle aziende statali, il taglio dell'overcapacity manifatturiera, lo stimolo all'innovazione scientifico-tecnologica sono tutti vettori che vanno nella direzione della riforma strutturale dell'offerta, ritenuta necessaria dal governo per un mercato interno dove ormai la classe media ha raggiunto dimensioni uniche al mondo. Questo significa anche che per i prodotti di qualità internazionalmente riconosciuti, come le tradizionali filiere del Made in Italy, potrebbero aprirsi nuove importanti prospettive di inserimento in Cina e nei mercati circostanti dell'Estremo Oriente e dell'Oceania.
è ancora presto per capire quando e come Pechino potrebbe definire con i suoi partner i dettagli di un progetto così vasto e ambizioso qual è il RCEP. Tuttavia è un dato di fatto che l'influenza della Cina sul Pacifico, compresa la sua sponda latino-americana, è ormai destinata a crescere, colmando gran parte dei vuoti che gli Stati Uniti si apprestano a lasciare. Citando il celebre Racconto di due città di Charles Dickens, Xi a Davos ha anche sottolineato, senza fare troppi sconti, ciò che non va nel mondo di oggi: le guerre, il terrorismo, il fallimento delle politiche di controllo e regolazione della finanza internazionale, la povertà e il crescente divario reddituale. Qui, però, è evidentemente Donald Trump a dover fare autocritica per conto del suo Paese.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia