(ASI) Gli Usa hanno annunciato il trasferimento di 15 prigionieri detenuti nel carcere lager di Guantanamo, enclave statunitense sull’isola di Cuba, verso gli Emirati Arabi Uniti. Si tratta del più grande trasferimento di detenuti da Guantanamo da quando, gennaio 2009, Barack Obama è divenuto presidente degli Usa anche grazie alla promessa, poi non mantenuta, di chiudere il carcere.    

Per la cronaca il gruppo è composto da 15 cittadini yemeniti e da tre afgani.

Dando la notizia gli Usa hanno spiegato che la scelta rientra nell’ambito delle iniziative intraprese per chiudere il carcere, dove ora rimangono ancora 61 prigionieri, 20 dei quali in attesa di rilascio e che potrebbero tornare in libertà già nelle prossime settimane, secondo i media a stelle e strisce. Washington ha anche ringraziato le autorità di Abu Dhabi ad accogliere i prigionieri aiutando gli Usa a chiudere il carcere. Il Pentagono ha specificato che il trasferimento di questi detenuti è avvenuto in base ad un accordo con le autorità emiretine.
Nel 2003 il mondo scoprì l’esistenza di questa prigione, inizialmente segreta perché coloro che vi veniva rinchiusi solitamente erano sottoposti ad un trattamento non conforme alle norme del diritto internazionale, in special modo quelle della Convenzione di Ginevra. Quell’estate infatti si diffuse la notizia che all’interno di questa base, in una zona speciale chiamata in codice Campo Delta, erano rinchiusi circa 700 detenuti di ben 42 diverse nazionalità. I primi prigionieri giunti qui erano stati rinchiusi nelle gabbie del Campo Raggi X, mentre dall’aprile precedente erano stati spostati in celle in muratura appositamente costruite, più piccole ma più confortevoli, almeno secondo le intenzioni del Pentagono. Il 16 febbraio del 2006 l’Onu, tramite l’allora segretario Kofi Annan, intimò agli Usa di chiudere il carcere.

Citando il rapporto stilato da cinque osservatori indipendenti, Leandro Despouy, relatore speciale sull’indipendenza della giustizia, Paul Hunt, salute fisica e mentale, la signora Asma Jahangir, libertà di culto, Manfred Nowak, tortura, e la signora Leila Zerrougui, detenzione arbitraria, il numero uno del Palazzo di vetro chiese a Washington anche di evitare qualsiasi pratica che potesse essere considerata tortura o atto crudele, inumano e degradante. Nel documento di oltre cinquanta pagine, si affermava che il ricorso eccessivo alla violenza o l’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame erano comportamenti da considerare come “equivalenti alla tortura.” Gli autori precisavano di non aver potuto recarsi nella base ma citavano informazioni secondo le quali, in varie circostanze, i detenuti sarebbero stati vittime di violazioni del diritto della “libertà di culto o di fede”.

Questo pronunciamento inoltre giungeva dopo la pubblicazione di una serie di foto che documentavano abusi ai danni dei detenuti. All’Onu si aggiungeva subito il Parlamento europeo che rinnovava l’invito alla chiusura. La reazione della Casa Bianca fu stizzita, tanto da polemizzare a distanza con l’Onu, accusata di screditarsi pubblicamente redigendo un simile rapporto. Secondo i dati ufficiali resi noti dal Pentagono dall’apertura della prigione al momento in cui venne stilato il rapporto all’interno di questo carcere speciale erano transitati circa 800 detenuti, e nel 2006 ve erano ancora circa 450; di questi però erano solamente dieci i detenuti formalmente incriminati e rinviati a giudizio di fronte alle Commissioni militari, i tribunali speciali creati dal Pentagono su ordine dell’ex presidente George W. Bush dopo i fatti dell’11 settembre 2001, la cui legittimità è stata però bocciata ben due volte dalla Corte Suprema.

Fabrizio Di Ernesto -  Agenzia Stampa Italia

 

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