(ASI) «Erdoğan ha sfruttato il golpe per mettere in pratica la sua agenda estremista, che è la stessa dei Fratelli Musulmani, una setta diffusa in tutto il mondo e pericolosa non solo per la Turchia ma anche per gli altri Paesi vicini, tra cui la Siria». Così il presidente siriano Bashar al-Assad si è espresso ieri nel corso di un'intervista rilasciata all'agenzia cubana Prensa Latina. Dunque, cade definitivamente l'ipotesi, ventilata nei giorni scorsi, sul presunto riavvicinamento tra Damasco ed Ankara, che aveva portato diversi osservatori a ritenere che dietro il tentato golpe di venerdì scorso vi fosse la mano degli Stati Uniti proprio per impedire che la Turchia operasse cambiamenti sostanziali nella sua politica estera.In realtà, come è ormai chiaro da anni, esiste un egemonismo regionale turco autonomo, che va al di là degli interessi dell'amministrazione Obama. La convergenza tra i due governi durante le cosiddette "primavere arabe" è stata pressoché completa ma il rapido fallimento delle leadership sorte tra il 2011 e il 2012 da quella generale destabilizzazione ha evidentemente portato la Casa Bianca ad un profondo ripensamento della sua posizione nell'area. Già nei mesi scorsi, la normalizzazione dei rapporti con l'Iran aveva scatenato la reazione furiosa dei tradizionali partner sunniti di Washington, in particolare dell'Arabia Saudita e della Turchia stessa, tutt'ora impegnate rispettivamente sul fronte yemenita e su quello siriano proprio in contrapposizione con Tehran.
Cade, al contempo, anche l'ipotesi dell'autogolpe, diventata popolare fra chi pensava che il presidente turco avesse bisogno di un casus belli per rafforzare il proprio potere interno. Anzitutto perché la repressione di Erdoğan si è impietosamente abbattuta sui militari golpisti, alcuni dei quali lasciati in balia di piccole folle inferocite, legate agli ambienti più estremisti del partito di governo. In secondo luogo, perché proprio il pesante giro di vite che il presidente sta compiendo otterrà presumibilmente l'effetto opposto a quello sperato. Oltre 6.000 militari, più di 2.700 magistrati, 30 prefetti su 81 totali, quasi 8.000 poliziotti, 47 governatori provinciali, 257 impiegati della Presidenza del Consiglio, 36.200 docenti tra pubblici e privati, 1.500 dipendenti del Ministero delle Finanze, 492 tra imam e insegnanti di religione sono stati "epurati" in appena sei giorni. Questi numeri ci consegnano il quadro di un Paese profondamente spaccato ed in piena crisi politica.
Da parte sua, Erdoğan continua a puntare il dito contro Fetullah Gülen, l'imam turco che dal 1999 risiede in Pennsylvania, artefice della potente confraternita Hizmet, favorita dal clima di riconciliazione diffuso dalla dottrina della sintesi turco-islamica negli anni Ottanta. Dopo un lungo sodalizio, i due sono da tempo ai ferri corti e lo scontro in atto si riproduce drammaticamente nello scenario politico turco. Gülen, ovviamente, nega qualsiasi responsabilità ma trema all'idea di dover tornare in Turchia, dopo la richiesta di estradizione avanzata da Erdoğan a Obama. «Daremo agli Stati Uniti - ha detto Erdoğan nel corso di una recente intervista ad al-Jazeera - tutti i documenti sulle responsabilità di Gülen e aspetteremo la loro decisione». Sicuro che Obama sia «dalla nostra parte e ci sostiene contro il tentato golpe», Erdoğan non ha messo in dubbio le relazioni e la solidarietà con Washington ma ha ricordato che «sarebbe un errore grave se gli Stati Uniti si rifiutassero di consegnarci Gülen».
Spunta, così, quella che sarà evidentemente una delle prime patate bollenti di politica estera per il prossimo inquilino della Casa Bianca. Dallo status dei rapporti con la Turchia, difatti, dipende la stabilità della NATO ed Erdoğan potrebbe continuare ad utilizzare il ruolo determinante del suo Paese negli equilibri dell'Alleanza Atlantica come un'arma per avere mano libera sul piano interno e su quello regionale. Tuttavia, molto dipenderà proprio dalle elezioni presidenziali statunitensi del novembre prossimo perché, qualora dovesse vincere Donald Trump, per il presidente turco sarebbero guai seri. Parzialmente influenzato dal pensiero paleo-conservatore e neoisolazionista di Pat Buchanan, il candidato repubblicano si è già espresso più volte per una significativa revisione degli impegni militari all'estero portando l'esempio dei costi per la protezione dei Paesi baltici dalla Russia. Trump ha anche affermato di non volersi intromettere negli affari interni della Turchia nel caso fosse eletto presidente. Questo, però, non deve affatto rassicurare Erdoğan, perché proprio il potenziale disimpegno da parte statunitense nell'ambito degli oneri fin'ora assunti nel quadro della NATO ridurrebbe il peso geopolitico della Turchia, spuntando l'unica carta che il leader dell'AKP può ancora giocarsi di fronte alla comunità internazionale.
Smentite ufficialmente le voci di una supposta inversione ad U di Ankara verso Mosca e Damasco, infatti, le parole di Assad sono un macigno sulle speranze che il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu possa eventualmente nutrire da qui in avanti per una soluzione concordata della guerra in Siria. Dopo cinque anni di scontri più o meno diretti tra i due Paesi, Assad, grazie anche al supporto militare di Mosca, è ora in una posizione di consenso internazionale mai ricoperta in passato. Dal picco più basso di popolarità all'estero, toccato tra la seconda metà del 2012 e la prima metà del 2013, il presidente siriano è oggi leader riconosciuto dalla gran parte della comunità internazionale, che ha ormai compreso gli elevati fattori di rischio nascosti dietro una sua eventuale deposizione. Non soltanto Russia, Cina o Iran, ma anche Stati Uniti ed Europa, soprattutto dopo la lunga scia di sangue che ha scioccato la Francia e il Belgio, sono perfettamente consapevoli, pur senza ammetterlo esplicitamente, che la presenza di Assad in Siria rappresenta, ad oggi, la principale linea del fronte contro la proliferazione del terrorismo internazionale.
Erdoğan, invece, responsabile di aver trasformato per lungo tempo il confine turco-siriano in un canale di accesso per jihadisti e mercenari provenienti da gran parte del mondo islamico, oggi rivolge quella stessa acredine riservata alla Siria e ai siriani, verso il proprio Paese, mettendo all'indice decine di migliaia di presunti cospiratori. I deficit politici e democratici che si registreranno da qui in avanti in Turchia non passeranno inosservati. Malgrado l'evidente debolezza della posizione europea rispetto ad Ankara e a controversi partner come Arabia Saudita e Qatar, i consolidati investimenti esteri presenti nel Paese anatolico rischiano di subire quello che potremmo già definire come l'effetto Gomez, il centravanti tedesco che ha annunciato di non voler rientrare in Turchia, dove gioca con la squadra del Besiktas, per motivi politici e di sicurezza. Se anche la politica, per opportunità, dovesse continuare ad abbozzare o a protestare a voce bassa, il business non può farlo. Deve seguire percorsi stabili, raggiungere approdi sicuri, avvalersi di garanzie ambientali credibili. Tutti fattori che in Turchia, con la condotta di Erdoğan rischiano di venire meno.
Fais Andrea - Agenzia Stampa Italia