Gibuti, il nuovo occhio di Pechino su Africa e Medio Oriente?

(ASI) Pechino ha ufficialmente annunciato che sono iniziate le trattative con il governo di Gibuti per l'apertura in loco di un'installazione militare cinese. Creata come porto strategico dai francesi nel XIX secolo, Gibuti è oggi la capitale dell'omonimo Stato, che ottenne l'indipendenza soltanto nel 1977.

Incuneato tra l'Eritrea (Nord), l'Etiopia (Ovest) e la Somalia (Sud), il Gibuti è uno dei Paesi più piccoli e al contempo più strategici dell'Africa e del mondo. E' posizionato, infatti, proprio di fronte al Golfo di Aden, terminale occidentale della grande linea di comunicazione marittima dell'Oceano Indiano, che comincia nello Stretto di Malacca, tra Indonesia e Malesia. Il Gibuti, inoltre, controlla assieme allo Yemen le acque dello Stretto di Bāb el-Mandeb, porta d'accesso meridionale del Mar Rosso che prosegue tra Sudan, Eritrea, Arabia Saudita ed Egitto sino al Canale di Suez.

La popolazione nazionale, di origine prevalentemente somala Issa, ma con una corposa minoranza Afar, conta circa 830.000 abitanti, ancora provati dalla sanguinosa guerra civile (1991-1994) e dalle divisioni sociali e interetniche. Stante la netta predominanza del Raggruppamento Popolare per il Progresso, di orientamento socialista riformista, che guidò il processo di decolonizzazione alla fine degli anni Settanta, il presidente Ismail Omar Guelleh, in carica dal 1999, quando succedette allo zio ed ex presidente Hassan Goulen Aptidon, tiene ancora oggi in pugno la scena politica del Paese. Al di là dei dubbi sollevati dalle organizzazioni umanitarie sulla regolarità delle elezioni politiche gibutiane e sul rispetto dei diritti umani, è senz'altro la paura di una possibile destabilizzazione che induce molti elettori a prediligere la continuità e la protezione da possibili nuove rivolte violente degli Afar.

Francia, Stati Uniti, Giappone e Italia

I francesi non hanno mai del tutto lasciato Gibuti e mantengono sul suo suolo una grande base militare che ospita circa 1.900 uomini, uno squadrone di caccia Mirage 2000 e diversi elicotteri SA330. Per cercare di risollevare l'economia del Paese, in forte difficoltà a causa della guerra civile degli anni Novanta ma anche delle condizioni climatiche desertiche e semi-desertiche, il governo gibutiano ha investito molto sulla forte agevolazione fiscale per i capitali esteri, sulla cooperazione militare e sull'integrazione nel sistema internazionale. Le Forze Armate del Gibuti contano appena 8.000 uomini, pari a meno dell'1% della popolazione nazionale. Di questi, circa l'85% è impegnato nelle forze di terra, che comprendono dieci reggimenti ed un'unità di supporto. La parte restante è suddivisa tra la Marina (12,5%), impegnata nel Golfo di Tagiura, e l'Aviazione (2,5%), che opera presso l'aeroporto internazionale Djibouti-Ambouli e dispone di alcuni elicotteri da combattimento (soprattutto Mil Mi-24 di fabbricazione russa) ma non di aerei da caccia. Nel corso degli ultimi venti anni, l'esercito gibutiano ha inoltre preso parte a tre missioni di peacekeeping dell'ONU: in Ruanda (UNAMIR), a Haiti (UNMIH) ed in Somalia (AMISOM) sotto l'egida dell'Unione Africana.

Nel 2002, Gibuti ha aperto il suo territorio agli Stati Uniti nel quadro operativo della forza Combined Joint Task Force - Horn of Africa (CJTF-HOA), voluta da George W. Bush dopo l'Undici Settembre. Dal 2003 la CJTF-HOA, sottoposta al Comando Centrale dell'Esercito degli Stati Uniti, ha preso possesso dell'ex base francese di Camp Lemonnier, dal 2009 inserita all'interno di AFRICOM, il nuovo Comando degli Stati Uniti per l'Africa che ha base a Stoccarda. Stando ai dati del Pentagono, Camp Lemonnier ospita circa 4.000 unità tra personale militare e civile degli Stati Uniti e dei Paesi alleati, compresi alcuni contractor del Dipartimento alla Difesa americano, occupandosi prevalentemente di fornire un ruolo di supporto al combattimento e alla sicurezza delle navi, degli aerei, dei distaccamenti e del personale per esigenze di comando regionali e operative.

Il terrorismo di al-Shabaab in Somalia e di Ansar al-Shari'a nello Yemen, però, non è l'unico problema che mette a repentaglio la sicurezza collettiva nel Corno d'Africa. Un'altra costante minaccia sulla regione è ormai da anni l'attività della pirateria somala che, malgrado i toni epici e fiabeschi cui il nome potrebbe rimandare in Europa, non ha nulla di suggestivo e costituisce, al contrario, una potente organizzazione criminale capace di assaltare, saccheggiare e terrorizzare decine di cargo mercantili che transitano nelle trafficatissime acque dell'Oceano Indiano. Per questo motivo, nel 2011 anche il Giappone ha richiesto a Gibuti un appoggio logistico per due quadrimotori Lockheed P-3 Orion, destinati al pattugliamento marittimo. Per ragioni analoghe, nel corso del 2013 anche il 6° Reggimento Genio Pionieri di Roma ha costruito a tempo di record una base militare a Gibuti per le nostre Forze Armate. E' stata inaugurata nell'ottobre dello stesso anno alla presenza del capo di Stato maggiore della Difesa, l'ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, che l'aveva definita nei termini di "un avamposto permanente in un'area di enorme importanza strategica". Ad oggi, ospita circa 300 uomini.

E adesso anche la Cina

La Cina si appresta così a diventare il quinto grande partner militare di Gibuti in un contesto geopolitico a dir poco complesso e delicato. Il Ministero degli Esteri cinese ha specificato che le trattative avviate col governo africano riguardano la possibilità di costruire "strutture militari di supporto" - dunque non esattamente una base militare - che avranno la funzione di fornire il sostegno necessario al pattugliamento anti-pirateria e alle missioni di peacekeeping dell'ONU in cui la Repubblica Popolare è attiva.

Eppure, il passo in avanti sarebbe storico. Che sia una base vera e propria, come sostiene insistentemente il comandante di AFRICOM, il generale statunitense David Rodriguez, o una più semplice struttura di supporto, l'installazione militare cinese a Gibuti sarebbe la prima all'estero in assoluto. Andrew Erickson, un esperto di questioni militari cinesi presso lo US Naval War College, citato da Philip Wen in un suo pezzo per il Sydney Morning Herald, ha recentemente osservato che "per decenni la Cina ha fieramente ostentato l'assenza di strutture militari fuori dai propri confini nazionali, perciò la ricerca di un accesso militare a lungo-termine quasi al livello di una base è un'enorme inversione di tendenza". In sostanza, secondo Erickson, "Gibuti sta così aiutando a catalizzare uno slittamento simbolico e sostanziale potenzialmente significativo nella politica estera di sicurezza della Cina".

Non si tratta tanto di conciliare l'eventuale nuovo paradigma della dottrina militare cinese con i Cinque Principi di Coesistenza Pacifica che da Zhou Enlai in avanti hanno ispirato la politica estera di Pechino, quanto piuttosto di stabilire ulteriori regole d'impiego nelle nuove condizioni storiche e geostrategiche. Sul piano politico, infatti, l'installazione militare nascerebbe da un accordo di cooperazione tra Pechino e Gibuti su basi paritarie, non da un'occupazione o da un'imposizione armata.

Per altro, è palese che la strutturazione della Nuova Via della Seta Marittima, pensata dal presidente Xi Jinping nel quadro del piano One Belt, One Road, dovrà procedere di pari passo con reiterate operazioni di polizia miliare per la messa in sicurezza dei traffici navali che attraversano giornalmente l'Oceano Indiano. Il porto kenyota di Mombasa e quello di Gibuti comparivano già nei mesi scorsi sulle mappe diffuse da giornali e televisioni cinesi, venendo indicati come i due hub preferenziali nella linea intercontinentale che, partendo da Hainan, procederà sino al Mar Rosso, per raggiungere infine Venezia attraverso il Canale di Suez. Va poi aggiunto che, come ha ricordato il portavoce del Ministero degli Esteri Hong Lei lo scorso 26 novembre, già nell'ambito delle missioni ONU, a partire dal 2008 "la Cina ha schierato oltre 60 navi nel Golfo di Aden e nelle acque al largo della costa somala in 21 missioni di scorta" e che in queste operazioni il Ministero della Difesa ha riscontrato "effettive difficoltà a rifornire i soldati di carburante e cibo".

Per Pechino, dunque, l'amicizia tra Cina e Gibuti e l'accordo bilaterale per la realizzazione dell'installazione militare cinese in loco andrebbero primariamente incontro a necessità logistiche oggettive, sorte sulla base degli impegni internazionali già assunti, più che per politiche di natura espansiva.

Tuttavia, l'estensione del raggio d'azione diretto dell'Esercito Popolare di Liberazione supererebbe per la prima volta i confini della regione Asia-Pacifico. La riforma militare di Xi Jinping assumerebbe così le caratteristiche di una smart defense 'con caratteristiche cinesi', dove il già annunciato taglio di 300.000 effettivi dalle Forze Armate sarebbe compensato dal dislocamento delle truppe in alcuni punti-chiave delle regioni oceaniche dove la Cina è direttamente coinvolta (Pacifico e Indiano), secondo criteri di razionalizzazione e ottimizzazione.

Andrea Fais -  Agenzia Stampa Italia

 

 
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