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I Radicali hanno partecipato all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2014, presso la Corte d’Appello di L’Aquila

(ASI) Nel quadro delle decisioni assunte dal Comitato nazionale di Radicali Italiani, Ariberto Grifoni ha chiesto nei giorni scorsi di partecipare all’inaugurazione del corrente anno giudiziario con il proprio intervento da rendere durante la cerimonia che si è svolta sabato 25 gennaio, presso la sede della Corte d’Appello a L’Aquila.

Il positivo riscontro rappresentato dall'invito ricevuto dal Presidente della Corte, permetterà, da un lato, una più diretta conoscenza delle problematiche particolari vissute nella circoscrizione giudiziaria abruzzese per come esse verranno esposte nel corso degli interventi e consentirà, dall’altro, di richiamare alla responsabilità dei magistrati i fenomeni d’illegalità del “pianeta giustizia” italiano, sanzionati ripetutamente dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e di cui la situazione delle carceri (in particolare di Castrogno - Teramo) non è che un drammatico aspetto.

A seguire le linee guida dell'intervento che è stato svolto svolto.

Sig. Presidente della Corte d’Appello di L’Aquila, Sig. Procuratore Generale, Signore e Signori:

Quest’anno, più che in passato, come Radicali del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e come Radicali Italiani abbiamo deciso di chiedere d’intervenire in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, leggendo pressoché lo stesso testo in ogni Corte d’Appello, con lo spirito di dialogo e confronto con le istituzioni che hanno la responsabilità di occuparsi della giustizia. In particolare, nel passato qui a L’Aquila, si è potuto intervenire, sempre in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, sebbene, il precedente del 28 gennaio 2012 annoveri un fuor d’opera, per la perquisizione subita da Orazio Papili*, che allora rappresentava il Partito Radicale, così come io oggi.

La straordinaria emergenza - sia per durata, sia per estensione - in cui versa la giustizia in Italia ce lo impone, poiché il senso di responsabilità non consente oramai di risparmiare alcuno sforzo per tentare di porre argini a quel che possiamo definire un dilagare di violazioni dei diritti umani fondamentali che in Italia è prodotto dalla mancanza di giustizia giusta.

La cifra mostruosamente alta dei processi arretrati, sia penali - che sarebbe ancor più corrispondente al vero se solo si ricomprendesse, come il Ministero non fa, anche la fase delle indagini preliminari – sia civili e che si concludono, gli uni e gli altri, ben oltre la durata ragionevole fissata dall’art. 6 individuato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ci permette di fotografare decine di milioni di cittadini ai quali non si rende il servizio giustizia, se è vero com’è vero che una giustizia ritardata è una vera e propria giustizia negata.

Allo stesso modo, com’è noto a tutti, almeno dopo la sentenza Torreggiani che abbiamo ottenuto anche grazie al lavoro del Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei”, occorre interrompere la vera e propria flagranza in corso; anche oggi che siamo qui ad inaugurare l’anno giudiziario, oltre 62mila persone sono private del diritto umano fondamentale della dignità della persona. 62mila non persone, 62mila zombie, sessantaduemila torturati che abitano le nostre prigioni.

Non è, per noi Radicali, tanto il problema economico cui lo Stato dovrà far fronte da qui a breve se non verrà interrotta questa flagrante violazione dei diritti umani fondamentali, e neppure un problema di bilanci e risarcimenti, ma il problema enorme è quello del diritto e della legalità, cioè della civile convivenza, che voi, proprio e soprattutto voi, dovreste ogni giorno preoccuparvi di far rispettare e che ogni giorno invece viene palesemente violata.

E’ triste, tristissimo, per un Partito come il PRNTT, nato in Italia ma che opera nel mondo lottando con la nonviolenza per salvaguardare i diritti umani fondamentali degli ultimi della terra, in paesi dove il valore delle persone e il “prezzo” della vita umana è spesso pari a zero, dover constatare come oramai la nostra Italia di Cesare Beccaria, di Piero Calamandrei, l’Italia ispiratrice dopo la Seconda Guerra Mondiale dei trattati costitutivi della CEE, poi Unione Europea, questa povera penisola mediterranea sia ridotta ad essere considerata a livello internazionale, persino peggio di molti di questi Paesi economicamente arretrati, ex coloniali e ancor oggi sfruttati.

E qui non mi appello a un inconcludente spirito compassionevole, ma alla volontà di lasciar cadere i privilegi acquisiti per subito aprirsi al cambiamento, perché, illustri interlocutori, troppo spesso, per poter sostenere sistemi di violazione dei diritti umani o di sfruttamento di classe si è fatto ricorso alla giustificazione storica che questi sistemi avrebbero elevato lo sviluppo delle forze produttive a nuovi livelli, prima non conosciuti.

Non uno Stato di diritto è quello italiano, ma uno Stato senza Diritto perché senza diritto e senza legalità è il Paese nel quale è consentito, ogni giorno, di calpestare la dignità umana, di cancellare lo status di persona per decine di migliaia di reclusi.

Ce lo ha ricordato più volte anche il Presidente della Repubblica, il quale qualche mese or è, all’inizio del suo secondo mandato ha, per la prima volta, utilizzato lo strumento costituzionalmente previsto del messaggio alle Camere per richiamare il corpo legislativo ai propri doveri anche evocando, se non invocando, come auspicato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 279 del 2013, gli unici strumenti eccezionali capaci di determinare un immediato rientro nella legalità, l’amnistia e l’indulto, quali pre-condizioni per poter procedere ad una non più rinviabile profonda riforma del sistema giustizia.

Ma ci sono le accecanti responsabilità della politica dei populisti che cavalcano il feticcio della sicurezza, ci sono le accecanti responsabilità di una informazione asservita ai partiti che, censurando qualsiasi ampio dibattito pubblico sul tema, impediscono ai cittadini di conoscere e di sapere che è questo sistema anzitutto a produrre insicurezza; e ancora, ci sono soprattutto - questo il luogo dove ribadirlo - le responsabilità della giurisdizione.

Non ci riferiamo solo all’abuso conclamato della custodia cautelare in carcere, ma anche e soprattutto, al fatto che ogni giorno si continuano ad eseguire pene illegali, tecnicamente illegali, pene altre e diverse dalla reclusione, dalla privazione della libertà personale.

L’art. 3 della CEDU, l’art. 27 della Costituzione, il Codice penale, l’ordinamento penitenziario, il regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario, impongono un modello di pene assolutamente altro e diverso da quelle che quotidianamente vengono eseguite.

Anche a prescindere - ma non saremo proprio noi a farlo - dalle 675 diffide inviate dal PRNTT e dal Comitato Radicale per la Giustizia ad altrettanti destinatari individuati tra tutti coloro che hanno responsabilità sul punto, è chiaro che quando oggi viene emesso un ordine di esecuzione della pena v’è quantomeno l’elevata probabilità con la conseguente accettazione del rischio, se non la sicura certezza, che quella pena che si ordina di eseguire sarà inumana e degradante, sarà privazione della dignità dell’essere umano, sarà altro dalla pena della reclusione, sarà illegale.

Di fronte a questo stato di cose, la giurisdizione può continuare a far finta di nulla? No! Può essa forse supplire alle colpevoli inerzie della partitocrazia in nome della Ragion di Stato, dell’arroganza di uno Stato senza diritto e senza legalità? Ancora no! Voi, illustri giudici, ritenete di poter fare ancora leva sulla giustificazione storica secondo cui questo sistema eleverà lo sviluppo delle forze produttive a nuovi livelli, anche davanti a una crisi così patente come quella che viviamo? O ritenete di poterlo fare ancora per molto, prima che si scardini tutto? Non credo.

Noi affermiamo, come ha già fatto la Corte Costituzionale tedesca, che la potestà punitiva dello Stato deve arrestarsi allorquando v’è la consapevolezza che questa potestà si trasforma in altro e diventa strutturalmente violazione della dignità dell’essere umano. V’è un dovere di arrestare, in fatto, la potestà punitiva trasportata avanti dalla Ragion di Stato e affermare, al contrario, il Senso dello Stato imposto da altre norme giuridiche inderogabili ed incomprimibili che tutelano il diritto di ogni essere umano ad essere trattato per quel che è, e non come schiavo nella galera: un dovere rilevante anche ai sensi dell’art. 51 c.p. che impedirebbe di perseguire l’omessa emissione di un ordine di esecuzione di una pena detentiva.

Calpestare la dignità dell’uomo per motivi etnici, razziali, religiosi, di orientamento sessuale non è diverso dal calpestare la dignità dell’uomo per motivi di ‘opportunità’, perché non sapete come fare o perché “non potete permettervi di bloccare il sistema”, ben sapendo che così facendo alimentate, giorno dopo giorno, un sistema che non merita in alcun modo di essere tutelato perché si regge sulla conclamata illegalità, perché è uno Stato senza diritto.

Consapevoli dell’irrinviabile assunzione di responsabilità da parte del Parlamento italiano, riportandoci a quell’atto di significazione e diffida notificato a 675 responsabili che siedono anche tra voi, ecco che oggi invochiamo, come ieri abbiamo fatto all’ONU con la pena di morte, una moratoria di fatto nell’esecuzione di pene illegali perché eseguite mediante trattamenti inumani e degradanti.

Lo facciamo oggi a L’Aquila, per l’Abruzzo e contestualmente, da ogni palco di ogni Corte d’Appello della Repubblica italiana, per la vita del diritto e della legge, quella legge che deve essere uguale per tutti, per ogni essere umano, lo facciamo oggi celebrando l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 con l’auspicio che sia l’anno in cui il diritto e la legalità tornino a vivere in nome del popolo italiano.

Dott. Ariberto Grifoni

 

* INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/18243 presentata da ZAMPARUTTI ELISABETTA (PARTITO DEMOCRATICO)   http://dati.camera.it/ocd/page/aic.rdf/aic4_18243_16

 

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