(ASI) Nel 1974, Nina Simone appariva come un’ombra di sé stessa. Seduta in disparte all’Hippopotamus Club di New York, cercava un po’ di tregua da uno dei periodi più complessi della sua esistenza.
Eppure, solo pochi anni prima, Nina era stata una delle voci più limpide, amate e riconoscibili del jazz mondiale: un prodigio del pianoforte classico trasformato in icona della musica nera, capace di attraversare con naturalezza gospel, blues e soul, riempiendo teatri, classifiche e cuori con interpretazioni magnetiche come Feeling Good, I Put a Spell on You, Mississippi Goddam e tante altre che l’avevano consacrata come una leggenda vivente.
Ma in quel momento, tutta quella gloria sembrava lontana: processi, delusioni, fratture personali e un lungo addio alla scena musicale ne avevano logorato l’anima, riducendo al silenzio quella voce indomita che aveva infiammato un’intera epoca.
Quella sera, quasi per istinto, Nina era andata a seguire un concerto di David Bowie. Non si aspettava nulla, forse solo un diversivo. E invece accadde qualcosa che nessuno avrebbe potuto prevedere.
Bowie la notò tra la folla. Si avvicinò con gentile sicurezza, la salutò e le chiese il numero. Un gesto semplice, ma che univa due mondi lontanissimi: da un lato la sacerdotessa del soul, simbolo delle battaglie civili; dall’altro il visionario britannico che stava ridefinendo le regole del rock e dell’identità artistica. Eppure, tra loro scattò un’intesa immediata, quasi istintiva.
Alle tre del mattino, il telefono di Nina squillò. Era Bowie. La sua voce, calma e partecipe, sembrava attraversare ogni barriera. “La prima cosa che voglio dirti è che non sei folle”, le disse. Per Nina, abituata a sentirsi giudicata, fraintesa e spesso etichettata come instabile, quelle parole furono un colpo al cuore. Bowie le spiegò che la sua sensibilità profonda non era una maledizione, ma un dono raro che pochi erano in grado di comprendere.
Da quella notte iniziò un periodo di conversazioni intense e affettuose. Parlano di musica, di paure, di vita. A volte restavano semplicemente in silenzio, un silenzio che non pesava ma univa. Suonavano, si confidavano, si ascoltavano davvero. Per Nina, Bowie divenne una presenza capace di vedere ciò che molti ignoravano: la sua verità interiore, fragile e potente insieme.
Fu grazie a quel rapporto inatteso che ritrovò lentamente il coraggio di riaffacciarsi alla musica. Non per obbligo verso l’industria o per compiacere qualcuno, ma perché qualcuno le aveva ricordato che la sua voce possedeva ancora un valore immenso. Bowie, con la sua naturalezza aliena e il suo sguardo che andava oltre le superfici, riuscì a restituirle fiducia, dignità, respiro.
Per il resto della vita, Nina portò con sé il ricordo di quelle notti fatte di parole e note. In un momento in cui il mondo sembrava non volerla più ascoltare, David le diede qualcosa che nessun applauso avrebbe potuto offrirle: la sensazione di essere finalmente compresa. Una scintilla che cambiò la traiettoria della sua anima, come la fede.
*Immagine generata da Chat Gemini di Google.


