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Storia. Capire il 25 luglio: dal diario di Ardengo Soffici

 

(ASI) Ardengo Soffici, uno dei più geniali intellettuali del secolo scorso, vociano, lacerbiano, futurista, rappresentante, secondo Malaparte, del “fascismo georgico”, nonché artista sopraffino, cominciava a scrivere un diario proprio il giorno stesso in cui aveva inizio l'ultima guerra mondiale. Lì, annotava chiaramente tutto ciò che lo potesse impressionare durante la conflagrazione.


Quello che ha visto, è stato inaudito, terribile, disgustoso. Sono parole sue, postume, da far presagire un destino orribile per il nostro Paese. L'Editore Luni ne ha pubblicato degli stralci. L'opera si intitola “Sull'Orlo dell'abisso, diario 1939 – 1943”.

Non sono le splendide pagine di Kobilek (1918), o della Ritirata nel Friuli (1919), tra le più belle mai pubblicate sulla Grande Guerra. “L'artista” Soffici questa volta seguiva con apprensione tutto ciò che stava accadendo dal 1939 al 1943. Ed è forse questa l'opera più significativa, esplicante come si sia potuti arrivare al 25 luglio del 1943. Molte volte si è parlato del mancato rinnovo della classe dirigente Fascista, e del conseguente tradimento di forze nemiche, avulse dal contesto nazionale. Tuttavia, Soffici fa di più. Registra la sofferenza dello stato delle cose. Si stupisce del comportamento di Mussolini, privo di provvedimenti contro i sabotatori. Indica un travaglio intellettuale e politico, del tutto personale, di fronte al crollo di tante e ancora tante illusioni. E per quanto il diario sia incompleto, per volontà dell'autore, in quanto aveva inteso che non fosse ancora giunto il momento (negli anni '50 del secolo scorso) di vederlo nella sua integrità, si tratta di un documento che offre spunti di riflessione del tutto particolari. Sia quando Soffici parla del popolo, sia quando descrive l'ambiguo ambiente della classe dirigente, oppur nelle citazioni sul rapporto Fascismo – Intellettuali.

Gli stralci che ho selezionato e che vedranno la luce tra qualche riga, indicano come si sia giunti drammaticamente al 25 luglio del 1943. Un percorso di anni, e non di una combriccola improvvisata pochi giorni o mesi prima del tradimento, o suicidio collettivo, che dir si voglia.

Il 13 maggio del 1941, Soffici registrava nel suo diario:

«Mussolini fa di tutto per restare all'oscuro di questa situazione, chiara a tutti gl'italiani. Un giorno, anni fa, che gli dicevo come sarebbe bastato lasciar libero qualcuno di denunziare per la stampa le tante malefatte dei suoi, perché egli apprendesse e vi ponesse rimedio, mi rispose ch'egli aveva ogni sorta d'informatori sicuri (sul che gli espressi i miei dubbi), e che, in ogni modo, la libertà non si può dare a spizzico, mentre, concedendola in pieno, si rischierebbe di dover tornare al manganello. Avrà avuto, al solito, ragione; ma gli effetti che oggi si vedono dell'impossibilità di denunziare pubblicamente certi fatti sono preoccupanti» .

Ineccepibile, il Soffici. Ed è doveroso ricordare che l'artista toscano e il Duce hanno avuto un rapporto intenso e profondo, fatto di stima e fiducia reciproca, come confermano siano il memoriale postumo Miei rapporti con Mussolini, che molte altre testimonianze. Questo si era instaurato durante il periodo de La Voce di Prezzolini, e continuava ininterrottamente sino a quelle righe. Sebbene si vedessero sul finale poco, ricordiamo che Mussolini considerava Soffici come l'unico letterato, assieme a Filippo Tommaso Marinetti, degno della qualifica di uomo d'azione, e uno dei pochissimi le cui parole gli rimanessero impresse nel tempo. Sicuramente quindi, il Duce aveva inteso il significato della critica di Soffici. Ancora oggi possiamo interrogarci sul motivo mussoliano dell'assenza di azione.

Soffici continua a registrare le stesse cose corruttele il 28 agosto del 1941:

«Ho parlato con persone del Forte della faccenda delle cartoline di chiamata alle armi cambiate di luogo nelle loro cassette per lasciare a casa certi interessati paganti, di cui mi aveva riferito al Poggio il Galeotti. Mi è stato accertato che anche qui è accaduto lo stesso disordine. Mi si dice anche che questo infame commercio, per cui basta la corruzione di un qualunque piantone del Distretto, è fatto su grande scala in molte parti d'Italia. Cosa da fare rizzare i capelli. Né si sa chi informare dello sconcio; che cosa fare; qual tasto toccare. Ministro della Guerra è Mussolini. Informare lui? Ma come documentare i fatti, saputi da tutti, ma che nessuno può, o vuole (quale complice necessario e volontario) testimoniare? Ne ho parlato a qualche gerarca. “Se ne fregano”» .

Il Forte di cui parla Soffici è Forte dei Marmi, e il Poggio è Poggio a Caiano. L'episodio è lampante e non certo edificante. Tra l'alto, si può così scoprire che anche nella ferocissima dittatura fascista v'era il fenomeno della corruzione, con il beneplacito delle alte sfere. Ma non è tutto. Mussolini è completamente all'oscuro di tutto, e gli uomini di governo, si auguravano la sconfitta bellica dell'asse:

«C. mi diceva giorni fa che più d'un uomo di governo romano guarda senza apprensione alla perdita della guerra da parte dell'Asse, considerando che la stampa inglese non si mostra troppo dura con l'Italia, e che nell'eventualità di una sconfitta l'Italia potrebbe cavarsela assai bene. Siamo a questo punto di cretineria e d'ignominia. Ora, stando a questi indirizzi, si dovrebbe cominciare a credere che l'Italia è indegna della vittoria. L'Italia balcanizzata, levantinizzata e rimbecillita dalla classe dirigente. (“Fascista” e “mussoliniana"!)».

Le ultime parole tra parentesi non sono mie, ma di Ardengo Soffici. Sono doverose nell'esprimere il rammarico di quella situazione, che non è del 25 luglio 1943, ma dell'agosto del 1941. Si può tranquillamente desumere che, salvo eccezioni (che han dimostrato tutto il loro valore), parte della classe dirigente “fascista” era corrotta, incapace di affrontare la guerra di stampo rivoluzionario e persino parteggiante per l'avversario.

Il venti settembre del 1941 Soffici torna ad essere scoraggiato. Vede nell'aria il disfattismo, e la mancanza di capacità dei dirigenti. Il ruolo di persone come l'artista toscano è sempre più complicato:

«Il disagio morale interno continua in Italia. Il disfattismo e l'antifascismo (dovuto questo all'insipienza e alla scarsa rettitudine di parecchi dirigenti) aumentano. E la posizione dei veri fascisti in buona fede, i quali si trovano a dovere spiegare e giustificare cose inspiegabili, e a dare ragione della loro persistente fiducia e speranza, diventa a poco a poco insostenibile. (…)

Pare che in Sicilia siano accaduti, o stiano accadendo, fatti singolari. Mi diceva Gentile, giorni addietro, di aver saputo da un suo amico siciliano che gli abitanti di uno di quei paesi avevano applaudito un aeroplano inglese che volava sull'isola. E' spaventevole. Ma per varie ragioni, dato lo stato delle cose, c'è poco da stupirsene».

In effetti, dopo l'attacco tedesco alla Russia, tutto era possibile. Malgrado ciò, non questo schifo. Soffici esprime il suo dolore proprio quando l'Italia doveva essere al suo massimo apogeo. Ed invece, la rivoluzione di vent'anni prima sembrava esser tradita proprio in questo momento, in particolare quando la guerra, nella visione fascista, doveva provare il cambiamento.

Il 23 settembre Soffici torna sull'argomento:

«Si direbbe che non esistano Comandi superiori, controlli, che soprattutto non esista volontà, coscienza, e senso dell'onore, amor di patria. E' possibile fino a questo punto? O sono menzogne di un irresponsabile? (…) Giorni di grande passione e pietà, questi. La mia fede d'italiano però è incrollabile. Tutto finirà per il meglio. Ma dopo la fine si attende il principio di qualcosa che sia il rovescio di quel che si vede, si sente, si sa».

Sarebbe stata la logica conclusione, visti gli accadimenti. Invece la situazione stava per precipitare sempre di più. Nel dicembre del 1942, Soffici registra il discorso di Mussolini del 2 dicembre. Lo rimprovera, perché auspicava delle frasi diverse. Avrebbe voluto che il Duce, ponendo rimedio ai tanti guai, chiamasse a raccolta tutti i buoni italiani, tesserati o meno, per aiutarlo nel suo sforzo bellico gigantesco. Probabilmente, secondo l'artista di Medardo Rosso, avrebbe avuto di nuovo tutta l'Italia entusiasticamente con sé, come in tanti altri momenti. Invece, oltre ad osservare questa mancanza in Mussolini, Soffici annota:

«Mussolini ha infatti concluso il suo discorso parlando di “guerra fascista”, di resistenza in omaggio ai “caduti fascisti”, quasi che la guerra fosse fatta per il Partito anziché per la salvezza del popolo e della Nazione italiana: quando forse sarebbe stato il caso di dichiarare sciolto il partito, o almeno dissolto nel grande crogiolo delle autentiche forze nazionali».

Un anno dopo e Soffici auspicava la chiusura del PNF. Frase fortissima, riflettente la corruzione, lo sdegno e quanto si verificasse all'interno di quella struttura che aveva ideato una rivoluzione straordinaria vent'anni prima. E quanto soffrisse in prima persona l'artista toscano, che dal 1915 si trovava in prima linea per la nuova Italia, ancor oggi non possiamo comprenderlo appieno. Nel 1943 veniva invaso spesso da uno scetticismo totale, e si rifugiava nell'arte, nella pittura. Per dimenticare. Sin quando però visivamente non poteva più farlo. Ed è questo l'episodio più curioso di tutto il diario di Soffici. Una polemica murale, dove la gioventù fascista, sentitasi tradita, riempiva i muri del suo disagio e dissenso. Il 4 aprile del '43 infatti:

«Da qualche tempo, e cioè dopo i nostri scacchi africani e quelli tedeschi in Russia, si vedono sui muri delle nostre città scritte disfattiste e sovversive dovute alla canaglia che esce dai suoi nascondigli. Anche a Firenze tali scritte abbondano, le quali i fascisti cancellano ogni mattina e coprono con altre scritte di natura opposta. Da ciò è nata a poco a poco una specie di polemica murale notturna da parte dei bolscevichi, e diurna da parte dei fascisti, la quale si palesa particolarmente accanita in certi rioni della città. In uno di questi i sovversivi avevano scritto, notti fa, alcune frasi più odiose ed infami del solito. La mattina dipoi, i fascisti del rione cancellarono la scritta mettendogliene sopra un'altra che diceva: “Vigliacchi, scrivete queste cose di giorno, se ne avete il coraggio”. La mattina seguente, sotto questa sfida si leggeva: “Non possiamo. Il giorno siamo fascisti».

La replica sarebbe stata spiritosa e basta, se non fosse stata invece simbolo di un'amara verità. I patrioti veri stavano a casa, rifugiati nella perdita della loro identità, quelli finti invece, abbondavano. Quelli veri non potevano esprimersi, quelli finti lo facevano eccome, sabotando. Nella notte dell'otto settembre, dopo il famigerato venticinque luglio, una “masnada di tangheri avvinazzati”, come il definirà Soffici, sfilava sotto le sue finestre berciando:

Fratelli d'Italia,

l'Italia s'è desta

dell'elmo di Scipio

s'è cinta la testa....

Tra le mostruose notizie egli avvenimenti assurdi a cui assisteva l'artista, mancava solo questo. Egli voleva sparire, forse. Invece sceglierà anch'egli la Repubblica Sociale Italiana. Ora, tramite il suo diario, fors'è più chiaro come si sia giunti al 25 luglio. Una cosa è certa. Né lui, né i migliaia della sua generazione, hanno lottato invano.

Valentino Quintana Agenzia Stampa Italia

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