(ASI) La giuria composta da Francesco Durante (presidente), Masolino D’Amico ed Emanuele Trevi (secondo arrivato allo Strega 2012), ha già reso noti i nomi dei tre finalisti al premio “Il Dio di mio Padre”, VII edizione del Festival Letterario in memoria di John Fante, in programma a Torricella Peligna, in provincia di Chieti, dal 24 al 26 agosto. Sono: Francesco Targhetta, con “Perciò veniamo bene nelle fotografie” (Isbn, 2012), Donatella Di Pietrantonio, autrice di: “Mia madre è un fiume” (Elliot, 2011) e Giuseppe Di Piazza, con “I quattro canti di Palermo” (Bompiani, 2012).
Patrocinato oltre che dal Comune di Torricella Peligna e dalla Provincia di Chieti, dalla Regione Abruzzo e dalla Presidenza della Repubblica, all’edizione di quest’anno, domenica 26, ci sarà anche la scrittrice italo-somala Igiaba Scego, per parlare di letteratura tra due mondi completamente diversi e che si guardano, spesso senza capirsi.
Alla manifestazione vi sarà anche Barbara Di Gregorio, che per “Le giostre sono per gli scemi” (Rizzoli, 2011) ha vinto il John Fante Abruzzo 2012 (la nuova categoria del premio per scrittori esordienti, le cui opere abbiano un legame con l’Abruzzo) ed anche Patrizia Di Donato, menzione speciale per “La neve in tasca” (Duende, 2011). E vi sarà anche il secondogenito del grande scrittore, Dan, che vive in Arizona, scrittore anche lui, che in Italia ha pubblicato, grazie alla casa editrice Marcos y Marcos, Angeli a pezzi nel 1999 (titolo originale Chump Change), Agganci nel 2000 (Mooch) e Buttarsi nel 2010, con protagonista il suo alter-ego Bruno Dante.
E, il 25 agosto, sarà presente anche Goffredo Palmerini, scrittore e giornalista aquilano, da sempre appassionato di “italianità nel mondo”, con la presentazione della sua ultima fatica, “L’Altra Italia”, edita da One-Group, una intelligente selezione di suoi scritti a tutto campo, sull’emigrazione italiana nel mondo, dal 1861 ad oggi, con particolare riguardo a quella abruzzese, già oggetto di numerosi eventi divulgativi a L’Aquila, Paganica, Macerata, Padova, Belluno, Palmanova, Trieste, Roseto e Teramo. John Fante (edito in Italia da Fazi, molto attento alla letteratura in lingua inglese), è stato un WOP, ovvero un "WithOut Passport", una persona che pur essendo nata negli USA non può considerarsi un vero statunitense, perché conserva ancora l’impronta delle origini, che nel caso specifico hanno la forma di un paesello dell’Abruzzo di inizio secolo. E in effetti le pagine di Fante sono brandelli autobiografici e luoghi della memoria mal camuffati dalla nostalgia, dove si aggirano amici e parenti, un padre ubriacone e puttaniere, rude come "rocce della Maiella" e una madre-madonna fervida credente e devota al figlio scrittore.
Morto nel 1983 a 74 anni, Bukowski lo ricorda così: “Andavo a trovarlo in ospedale e a volte anche a casa quando lo rilasciavano per un po’. Era in un ospedale, stava morendo, cieco e con entrambe le gambe amputate; aveva il diabete. Ma andava avanti. Scrisse ancora un libro in quello stato, dettandolo a sua moglie. È stato uno scrittore fino alla fine. Mi raccontò addirittura di un’idea per il suo prossimo romanzo: la storia di una donna, campionessa di baseball. "Forza, John, scrivilo", gli ho detto. Ma subito dopo era finita...”.
Charles Bukowski, negli scritti in prosa e nei racconti, può a buon diritto essere definito un autore che parla al presente, ma nelle raccolte poetiche come Quando eravamo giovani e I cavalli non scommettono sugli uomini (e neanche io), per citarne solo due, dà spazio ai ricordi: l’adolescenza, la scuola, le prime sbronze con gli amici, la precoce consapevolezza di essere un ‘diverso’, un ‘non adatto’ e il misto di orgoglio, la rassegnazione che provava nel constatare quanto il sentimento di rifiuto nei suoi confronti venisse anche dai genitori e soprattutto, da un padre infastidito dalle sue stranezze, perennemente preoccupato per quello che avrebbero detto i vicini nel vederlo tornare a casa ridotto male già da una tenera età, avvezzo ad esprimersi per proverbi e frasi fatte e solerte nel gridare ogni sera “luci spente!” ed imporre l’ora del sonno all’intera famiglia. “(…) a mio padre non piacevano / i libri e / a mia madre neppure / (perché non piacevano al babbo) (…)” scrive in “Primo amore” una poesia che fa parte di Quando eravamo giovani e il primo amore in questione sono proprio quelle opere lette alla luce dell’unica lampada che rimaneva accesa, sotto le lenzuola:
“Ibsen/ Shakespeare/ Cechov/ Jeffers/ Thurber/ Conrad Aiken/ e altri/ mi offrivano una opportunità e qualche speranza/ in un posto senza opportunità/ speranza, sentimento”.
Se sfogliamo il libro di John Fante Un anno terribile (Fazi Editore, 2001) e lo apriamo a pagina 44 vediamo come il protagonista del romanzo ed alter-ego dell’autore, Dominic Molise, descrive l’atmosfera che avvertiva tra le (fredde) mura della sua casa: “(…) Sognatori, eravamo una casa piena di sognatori. La nonna sognava la sua casa nel lontano Abruzzo. Mio padre sognava di essere senza più debiti e di fare il muratore a fianco di suo figlio. Mia madre sognava la sua ricompensa celeste con un marito allegro che non scappava mai. Mia sorella Clara sognava di fare la suora e mio fratello Frederick non vedeva l’ora di crescere per diventare un cowboy. Se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa (…)” (op. cit. pag 44).
In Chiedi alla polvere, il romanzo più famoso e apprezzato di John Fante, pubblicato per la prima volta nel 1939, il terremoto (l’ho riletto dopo il sisma del 2009 è mi sono sentito un morso alla gola ed un groppo sul cuore) coglie il giovane, squattrinato e ambizioso scrittore Arturo Bandini mentre sta tornando a Los Angeles da Long Beach, dove ha appena avuto un’avventura con una donna che non ama e mentre pensa a quella di cui è innamorato, una cameriera messicana, Camilla, che non ricambia i suoi sentimenti e con la quale il ragazzo non riesce ad avere rapporti sessuali. Bandini, in quel momento pensa che sia a causa della sua recente azione, quella che lui vede come una ‘colpa’, un ‘peccato’, che la terra stia tremando e crede che quelle scosse non siano altro che lo strumento di una vendetta architettata da Dio ai suoi danni: “(…) Tutt’a un tratto sentii un rombo che, dopo un attimo, si trasformò in boato (...). Era un terremoto. Si levarono le grida, poi si alzò la polvere, e infine venne il boato delle case che si schiantavano. Giravo in tondo senza sapere dove andare. Ero stato io. Era mia la colpa. Mi fermai a bocca aperta e mi guardai attorno come paralizzato. Mossi qualche passo verso il mare, poi tornai indietro. Sei stato tu, Arturo, e questa è la collera di Dio” (op. cit pag. 123).
Ma la Los Angeles che trema e che è teatro dell’amore impossibile di Bandini, è la stessa che lo scrittore vorrebbe “possedere” fino in fondo, è la città che ospita in sé le donne “ricche e profumate” che il ragazzo sogna di poter un giorno conquistare con la sua abilità e fama di scrittore: “Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.” (op. cit. pag. 6) E il suo fiore nella sabbia è quello in cui non pesa vagabondare per ore ed ore, di giorno e di notte, quello dei ristoranti, delle tavole calde e dei caffè, dove spendere gli ultimi centesimi rimasti dal compenso per i primi racconti pubblicati, è quello dei Sogni di Bunker Hill, delle squallide, polverose, amate e celebrate stanze di motel, dove poter sperare in un riscatto nei confronti di una famiglia che non ha mai accettato il semplice, istintivo rifiuto di trasportare in America il desiderio di una vita uguale a quella che sarebbe stato costretto a condurre in uno sperduto paesino nel cuore dell’Abruzzo.
E a prepararmi ora, alla presentazione del libro di Palmerini, nel luogo sacro che ricorda, grazie ai figli, John Fante, penso che in fondo ha ragione Ilenia Appicciafuoco: Fante e Bukolswi sono le due facce di una stessa medaglia, con il primo, per dirla con Fernanda Pivano, critico nei confronti di se stesso e degli altri, cinico che non sogna e se sogna se ne pente subito e che, nonostante questo, grazie al suo talento e alla sua personalità, riesce ad imporsi tempestivamente nel mondo della letteratura; e il secondo (il nostro), invece pieno di speranza, una speranza inossidabile che gli veniva dal retaggio di una terra dura da piegare. Timothy Leary ha scritto che “la speranza è il sogno di un uomo sveglio” e, in pagine immortali, lo ha dimostrato ieri John Fante, in modo lirico e romanzato e oggi Palmerini, con un giornalismo che non è solo cronaca, ma giudizio e prospettiva oltre la notizia.
A Torricella, fra meno di un mese, spero qualcuno si ricordi anche la relazione fra Fante ed il Cinema, con una lunga carriera di sceneggiatore iniziata nel 1934, quando aveva 35 anni, alla a Metro Goldwyn Meyer, dietro segnalazione dell’amico Ross Wills, capo del dipartimento sceneggiature del colosso cinematografico. E mentre i romanzi sono insuccessi, come sceneggiatore è molto apprezzato e richiesto, sicché, scoraggiato ma non sconfitto, continuò ad alternare l’attività di romanziere al lavoro di sceneggiatore, collaborando anche con Orson Welles per il suo film “All is True” (mai portato a termine) per il quale scrisse ben due diverse partiture. E, come nei romanzi, riconosciuti tardi e postumi, nelle sceneggiature, l’importanza di Fante sta nel fatto che nel suo stile semplice e schietto, sapeva come nessuno raccontare stati d’animo ed emozioni, illustrando storie ambientate nel sottobosco sociale della depressione americana degli anni ’30, descrivendo perfettamente il disagio, la disperazione e la marginalità delle classi sociali medio-basse di quell’epoca.
Così fu, anche nel cinema, un precursore dello stile disincantato e realista di disagio nevrotico ed aperta sfida ai concetti vetusti ed ipocriti dell’ ”American Dream” bellico e post-bellico da parte del movimento social-letterario della Beat Generation. E, a differenza degli autori “Beat”, rappresentati soprattutto da Jack Kerouac e dal suo romanzo “On the Road” del 1957, Fante non prese mai posizione di critica, o di opposizione al sistema sociale americano: gli bastò descrivere, attingendo dai propri ricordi d’infanzia e dalle sue stesse esperienze di vita, l’esistenza vera e l’emarginazione sociale degli immigrati (vissuta in prima persona) rispetto ai poteri egemoni dell’America che conosceva. Anche in questo Palmerini gli somiglia.