In ognuno di noi c’è nel filo della memoria una continuità, che dà come prima sensazione quella di essere senza interruzione, e che tiene uniti tutti i fatti che si sono dipanati a partire dalla prima età della coscienza. Ma poi alla distanza quella percezione scompare e ne subentra un’altra altrettanto marcata, quella di aver vissuto diverse vite, o di essere più persone, completamente distinte seppur legate da quel filo continuo di memoria.
Per me il tempo che mi vide iniziare il liceo Benedetto Croce a Torre Annunziata e poi proseguirlo fino alla maturità segna il momento della nuova consapevolezza, quasi un nuovo inizio come nuova e originalissima fu l’esperienza esistenziale. Così alla stessa maniera mi pare ugualmente unitaria la serie di vicende del vissuto svolto a partire dall’esame di quinta ginnasiale: un unico secondo volume della storia della mia vita che, sulla scia dei ricordi, prosegue con gli anni di università, quelli del lavoro in ferrovia a Napoli, il trasferimento a Verona, il matrimonio e la nascita in pochi anni dei tre figli; con gli altri spostamenti, prima a Pompei, da lì a Roma, e in ultimo quello che allora poteva sembrare il definitivo, l’insediamento a Bressanone conseguente al cambiamento di lavoro: da ferroviere ad insegnante.
E invece non era finita. Pur essendo passato in quegli anni da Bressanone a Bolzano e da Bolzano a Vipiteno, anche questo periodo per il fatto di vivere sempre nella stessa regione, appare relativamente monotono e omogeneo in quelle forme che la memoria si fingeva e andava registrando ed archiviando per quando avrebbe dovuto ripescare, ripensandolo, il trascorso della vita. Omogeneo e continuativo; forse unitario, sebbene, esaminato nei particolari con una lente di ingrandimento, apparirebbe formato da tanti segmenti; o, addirittura, quando questi fossero singolarmente sottoposti ad un virtuale microscopio, ancora più frazionati: da lasciar intravvedere tanti e tanti numerosi motivi di differenti varietà con infinite variazioni: elementi assortiti che si caratterizzano per la loro peculiarità.
Senza dire che poi, andando avanti, si sono aggiunti ancora gli anni di Lussemburgo e quelli di Clermont-Ferrand: altrettanti capitoli imprevisti e imprevedibili caratterizzati da ulteriori stravolgimenti; fino al rientro definitivo a Bressanone, dopo la morte di Patrizia, mia moglie, e questi ultimi anni da pensionato che saranno anche quelli definitivi.
La vita, si sa, è una sola: unica, originale, unitaria. Sia che uno ci pensi, sia che non ci pensa. Ma quando, attraverso le nebbie della stagnazione nel mare calmo di una più consapevole nostalgia, avverto forte lo stacco tra una “vita di prima” e “quella di dopo”, in mezzo si installa l’esame di 5^ ginnasiale. Come se per me le vite fossero state due, oppure come se le persone che io sono stato fossero ameno due.
Avevo frequentavo una scuola media parificata. Una di quelle scuole private riconosciute dallo Stato: condizione che rendeva valido a tutti gli effetti il diploma da esse rilasciato. Prima che si formasse nel corso degli anni la nostra classe, era stata una scuola di tipo ginnasiale, e pertanto dopo la terza media proseguiva col biennio di 4^ e 5^ classe, a cui si estendeva pienamente la parifica; ma al momento della nostra iscrizione sebbene funzionasse, oltre al biennio ginnasiale, anche una classe di 1^ liceo, la parifica era limitata solo alla terza media. Così, quella che fu la nostra classe, conseguita la licenza di terza media, dovette continuare le due classi del biennio ginnasiale senza la copertura dell’istituto giuridico della “parifica”, cioè il riconoscimento da parte dello Stato degli studi effettuati.
Secondo gli ordinamenti dell’epoca, gli studenti che si avviavano agli studi classici – dove erano fondanti le materie latino, greco, filosofia, letteratura ed arte, integrate in maniera interdisciplinare da una visione storicistica caratteristica di quell’epoca – dopo i tre anni di scuola media inferiore si continuava il conteggio delle classi con la 4^ e la 5^, per cui la denominazione delle cinque classi del secondo grado di scuola media, che negli altri indirizzi scolastici normalmente era: 1^, 2^, 3^, 4^, e 5^, stranamente si presentava così: 4^ e 5^ (ginnasiali), 1^, 2^, e 3^ (liceali). La vera differenza però era che il percorso degli studi liceali d’indirizzo classico che, come ho detto, aveva un diverso modo di chiamare le classi, in sostanza comportava – unico tra gli indirizzi scolastici – uno sbarramento alla fine del primo biennio, cioè alla fine della 5^ ginnasiale, sbarramento costituito dal cosiddetto “esame di ammissione al liceo”, spauracchio di tutte le famiglie, in particolare di quelle più modeste qual era la mia.
Fu così che l’anno che toccò alla nostra classe di frequentare la quinta, l’anno scolastico 1958-59, la scuola, venutasi a trovare priva di quel riconoscimento che la rendesse equiparata ad una scuola statale, per l’esame di ammissione al liceo dovette preoccuparsi di presentarci in qualità di privatisti presso una scuola riconosciuta. Ciò allo scopo pratico (nell’interesse degli studenti e delle famiglie) di non lasciarci senza un certificato “riconosciuto valido” che attestasse l’esito positivo del biennio, considerato anche il fatto che le tre classi liceali, qualora le avessimo intraprese in quella scuola, sarebbero rimaste in seguito senza riconoscimento statale. Quindi per non mettere a rischio il successivo percorso scolastico in caso di interruzione forzata o di cambiamento di indirizzo scolastico, ci iscrissero in blocco come privatisti presso il liceo parificato S. Anna di Sorrento, tenuto dalle Suore d’Ivrea, il cui edificio si trovava (e si trova ancora) in fondo alla stretta stradina chiamata via di Marina Grande, la quale, dopo un ultimo tratto a gradini scendeva a mare proprio sulla banchina della piccola e coloratissima baia di Marina Grande, il rione dei pescatori ai piedi di un costone su cui è fondata la città. Angolo di mondo meraviglioso e spettacolare che in seguito, per la naturale nostalgia che da quei giorni si era insinuata nel mio animo di preadolescente, cominciai ad amare. E al quale, per la caratteristica bellezza che rende idilliaco il paesaggio sarei tornato spesso nel corso degli anni, e al quale sempre volentieri ritorno quando me ne capita l’occasione nelle mie periodiche visite in Campania.
Per quanto a volte – come dicevo – mi sembra di aver trascorse tante vite seppur legate da un sottilissimo filo, due di esse sono veramente staccate tra di loro tali da sembrare veramente diverse, quasi vissute da due persone diverse: quella di prima e quella di dopo l’esame di 5^ ginnasiale.
L’esame, svolto a Sorrento in una settimana di mezzo giugno, nel palazzone grezzo a mattoni di tufo dell’Istituto S. Anna, senza intonaco neppure alle cornici delle tante finestre, posto in cima al costone, a picco sulla chiusa spiaggia sottostante circondata dalla variopinta linea di case basse, capace di catturare così la mia fantasia, veramente ha segnato la barriera, lo spartiacque, il passaggio, ad una seconda vita, specialmente se mi volto indietro a guardare i mie trascorsi anni da quest’alto strapiombo che sono i miei settant’anni di oggi.
Di tutta la durata dell’esame ricordo vivamente due fatti, momenti o aspetti di quella esperienza. Primo, la mattina della prova scritta d’italiano. Non ricordo esattamente la traccia del tema, ricordo solo che in quel quadrato di cielo azzurro che la finestra presso cui ero seduto incorniciava, segato da voli e trilli di rondini, tagliato in due dalla tenue linea d’orizzonte in lontananza sul mare dove l’azzurro del cielo all’altra estremità sbiadito si fondeva con la luminosità del mare, là, dove le onde increspate avevano perduto il contrasto chiaroscurale e il loro scintillante gioco che altrove si muoveva tutto intorno, volò anche la mia fantasia a raccogliere materiale per la scrittura. Ma più ancora a fissare riflessioni per la seconda parte della mia vita. Se veramente così fu, oggi sono portato a credere che quella prova d’esame avesse per tema un soggetto che richiedesse qualche riflessione sul domani, sulle aspirazioni di un giovane e sulla costruzione del proprio avvenire.
La seconda cosa che ricordo è il clima di avventura che noi ragazzi vivemmo in quei giorni. Partivamo da Pompei di prima mattina, una dozzina di studenti, dopo la colazione, integrata e sostanziata da un cubetto di cotognata, forse per rendere più energetica la dieta a ragazzi in crescita che affrontavano esami. A portarci a Sorrento era un furgone che abitualmente era utilizzato per il trasporto di derrate, le provviste alimentari della comunità del convitto che ci ospitava, o altro genere di merci necessarie alla comunità. Lo stesso mezzo ci riportava indietro alla fine della prova d’esame, “a casa”, in maniera che nel primo pomeriggio potessimo pranzare senza eccessivo ritardo rispetto all’orario in cui il pranzo veniva generalmente servito agli alunni più giovani, delle classi che rimanevano in sede.
Luigi Casale
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