Dibattiti ed Approfondimenti. Verità e disinformazione sulla Giustizia

(ASI) Riceviamo e Pubblichiamo -  Faccio una premessa. Non parlerò di Nordio, l’attuale ministro della Giustizia. La Giustizia è argomento di scontro con la Politica, o, almeno, una parte di essa e, con un altro soggetto collettivo, a cui raramente si pensa quando si parla di riforma della Giustizia, vale a dire una parte dell’Avvocatura. Perché metto insieme questi due soggetti ? Perché è notorio che la gran parte dei “politici”, cioè uomini di governo o parlamentari, sono, per l’appunto, avvocati.


Dico “una parte” perché non voglio cadere in quell’errore logico che si chiama generalizzazione indebita.
Sembra ovvio, ma non lo è. Per avere contrastato questo errore logico, ho combattuto tutta una vita e ho addirittura rotto definitivamente vecchie amicizie perché si pretendeva da me un errore logico ed un atto di ingiustizia, cioè generalizzare indebitamente e, quindi, attribuire a più persone difetti di comportamento che erano invece di altri, legati ai primi solo per l’identità di funzioni svolte.
Allora, torno al problema, quello dei rapporti conflittuali, in genere, tra Giustizia e Politica.
Mi chiedo come possano esservi conflitti tra due istituzioni facenti parte dello stesso ordinamento.

Premetto anche che non affronterò tematicamente, per ora, i temi d’attualità ma cercherò di riflettere e di contribuire a far riflettere i lettori sui temi ricorrenti, sui “mantra” delle riforme giudiziarie.
Ho trovato un interessante articolo sui conflitti, ormai datati, tra queste due istituzioni su “Famiglia Cristiana”, Elisa Chiari, 17.10.24.
E ciò non mi ha stupito. Il mondo genericamente cattolico ha i suoi difetti e lo riconosco da cattolico quale sono ma, in questo problema, si dimostra generalmente equilibrato e abbastanza obbiettivo.

Una storia iniziata in Francia tre secoli fa, inizia Famiglia Cristiana, ma io mi limiterò a partire dalla Costituzione italiana che, memore dell’esperienza del Ventennio fascista, “ per prevenire il dilagare dell’esecutivo come in quelle che oggi chiameremmo “democrature”, ossia democrazie formali progressivamente scivolanti verso tendenze autocratiche, la Costituzione italiana disegna un complesso sistema di contrappesi, perché nessun potere, neppure l’esecutivo, possa fagocitare gli altri e dilagare.
Si spiegano così tra le altre cose: l’indipendenza della magistratura, compresa quella requirente e la sua soggezione soltanto alla legge; la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica; la centralità del Parlamento, la composizione mista della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura”, aggiungo io in quella sua caratteristica composizione mista, tra togati, i magistrati dell’ordine giudiziario, che hanno un’investitura “concorsuale” ma vengono eletti dai loro colleghi alla funzione di membri del CSM, salvo quelli che lo divengono in base alle loro funzioni apicali e i “laici”, cioè i membri eletti dal Parlamento.
Continua Famiglia Cristiana, sottolineando il passaggio che si verifica nella magistratura, grosso modo, dopo il 1968: “Per prassi e per abitudine tende a lavorare nel solco della tradizione e per decenni non spinge la propria indipendenza fino a indagare nelle stanze del potere. Questo fa sì che fino ai primi anni Settanta non si evidenzi tensione con altri poteri.  Anche se dai primi anni Sessanta, all’interno della magistratura si è aperto un ampio e a volte molto acceso dibattito (simboleggiato dalle due correnti progressista Magistratura Democratica e conservatrice Magistratura indipendente)
Nascono attorno a questo problema, nei primi anni Sessanta, le prime “famigerate” correnti all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati, sciolta dal fascismo e ricostituita con la Repubblica. “
Questa Associazione è, va sottolineato, un’associazione privata, come una bocciofila o un’associazione culturale di qualunque tipo. Nessuno scandalo, quindi, che in essa possano esprimersi tendenze anche di tipo ideologico sulla Giustizia.
Questo il grosso pubblico tende a dimenticarlo o, addirittura, a ignorarlo e allora trova scandaloso che l’”organo rappresentativo” dei magistrati, così crede che sia l’ANM, sia diviso in correnti.
I problemi sono altri e, dato che ho quarant’anni di esperienza in magistratura, qualche contributo di riflessione posso e debbo darlo.
Tutto nasce, come si vede, dalla successione ad un regime, quello fascista, di tipo autoritario corporativo, di un regime liberal democratico, quale quello attuale, in cui, più che la provenienza sociale, l’articolazione del pluralismo ideologico fa sì che “ Per la prima volta le indagini entrano anche nei cassetti in cui si esercita il potere. Ed è qui che, in realtà, cominciano le tensioni che oggi alcuni fanno risalire alla stagione berlusconiana e a quella che una certa vulgata ha chiamato con malevola intenzione “la guerra dei trent’anni”, tensioni che nascono già nel gennaio 1972 con i “pretorini d’assalto”, come li chiamò la Stampa in un articolo del 2 gennaio 1972, riferendosi allo “scandalo dei petroli”, Durante gli anni di piombo, la magistratura subisce l’attacco terroristico dell’estrema sinistra e del neofascismo e in quel periodo non vi sono se non violenze e omicidi in danno di magistrati. Io sono entrato in magistratura in quel periodo e ricordo che i pericoli, allora, venivano dal terrorismo.
Allora, la popolazione appoggiava la magistratura ed era solidale con essa e la guardava quasi come un manipolo di eroi.
Col caso “Tortora”, la “musica” cambiò. Ancora oggi quella vicenda mi amareggia e m’incuriosisce non poco. Mi chiedo come sia stato possibile un errore del genere, anche perché, a quanto ne so, in quel processo o, almeno, nella vicenda Tortora, non vi furono intercettazioni telefoniche, coi risultati che conosciamo.
Nella mia prima destinazione come uditore giudiziario con funzioni, venni destinato, come pretore, alla Pretura mandamentale di Volterra (PI) e, nell’attività d’ufficio che dovetti svolgere in quella Casa di Reclusione, nel “Maschio” di Volterra, dovetti interrogare il principale accusatore del presentatore televisivo, Giovanni Pandico che, si vedeva lontano un miglio, aveva una personalità, diciamo così, eufemisticamente, “alterata”e appariva inaffidabile.
Seguì la vicenda di “Mani Pulite” con l’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992 e ho sempre avuto la netta impressione che parte della classe politica, in maniera aperta, quasi sfacciata, gli appartenenti ai settori governativi, specie i socialisti e i democristiani, abbiano provato un autentico terrore in quegli anni e abbiano poi meditato una sorta di vendetta contro la magistratura, che occorreva indebolire, dividere e contrastare in tutti i modi per prevenire iniziative giudiziarie di quel tipo.
Continua Famiglia cristisana: “Se è vero che il sostegno dell’opinione pubblica all’azione della magistratura in quel momento si caratterizza anche per un improprio tifo da stadio, è vero che chi si appresta a coprire il vuoto di potere, lasciato dalla cosiddetta prima Repubblica, si unisce a quel sostegno sgrammaticato.
Le Tv di Silvio Berlusconi sono in prima linea nel raccontare e nel sostenere l’azione giudiziaria. Non solo, nel momento della cosiddetta discesa in campo offrirà a due dei tre magistrati impegnati in Mani pulite un ministero del suo primo Governo ottenendone un rifiuto. È una storia che si ripete, da decenni si accusa la magistratura di politicizzazione, ma la stessa politica che l’accusa quando la magistratura fa il suo lavoro, non esita a candidare magistrati quando ritiene che questo torni utile alla causa o ai voti.
Ne abbiamo visti negli anni di reclutati tanto al centrosinistra quanto al centrodestra, cosa che basterebbe da sola a smentire qualsivoglia omogeneità politica della magistratura.
La stessa politica che accusa la magistratura di politicizzazione, mostrando sintomi di sindrome nimby (non nel mio giardino) ogni volta che un’indagine urta un politico del suo schieramento, poi mette in lista o al ministero magistrati che ritiene amici. Gli ultimi due magistrati ministri della giustizia (Nordio e Nitto Palma), per esempio, sono stati al centro destra (mentre Sergio Napolitano nel 2014 non ha accolto la proposta di Matteo Renzi per Nicola Gratteri Guardasigilli), prova che la pretestuosa generalizzazione “toghe rosse” non regge.”.
Se ne potrebbero citare di magistrati, anche appartenenti all’ala considerata “ostile” alla magistratura, cioè dapprima il PSI, poi Forza Italia e, infine, tutto il “centro destra”, Lega e Fratelli d’Italia ora in testa, ad avere ricoperto ruoli nel parlamento e nel governo, che erano notoriamente di orientamento, come dire, “conservatore”. Da Alfonso Papa ad Alfredo Mantovano, persona irreprensibile, addirittura magistrato segretario del Consiglio dei Ministri, delegato ai servizi di sicurezza, con precedenti anche con Gianfranco Fini, a Giacomo Caliendo, già membro del CSM, di cui ricordo gli interventi poneridiani agli incontri studio del CSM di cui era membro, a Enrico Ferri, l’uomo dei “110” all’ora, che ricordo con simpatia perché, quando ero uditore giudiziario, apparteneva a Magistratura Indipendente, la corrente a cui un tempo aderivo anch’io. Lo stesso Luciano Violante, con un passato da “toga rossa”, è ormai divenuto un politico di grande moderazione.
Il problema che torna sistematicamente d’attualità è quella particolare forma mentis molto diffusa in Italia in base alla quale qualunque categoria lavorativa deve fare gli interessi del cittadino. Ciò succede per i professionisti: avvocati, medici, notai (con delle particolarità, peraltro), geometri, commercialisti, ragionieri fino a tutte le categorie legate al privato da un contratto di prestazione d’opera professionale. Questi ricevono l’incarico dal privato che li paga e devono fare gli interessi di questo.
Quando si dice, ad esempio, che gli avvocati debbono perseguire la verità processuale, si commette un grave errore. Debbono rendere conto, per i loro risultati, al loro “datore di lavoro” che è il cliente che li nomina e li paga e unicamente i suoi interessi debbono curare.
In questi casi, può avvenire che l’obbligazione contratta dal professionista sia solo di mezzi, o di risultato, a seconda che il professionista sia solo tenuto a svolgere una determinata attività, senza la garanzia di un risultato, oppure se debba assicurare un certo esito dalla sua prestazione, ma il discorso non cambia.
Questi sono i professionisti o, comunque, quelli che sono legati ad un soggetto da un contratto di prestazione d’opera e che questo debbono rispondere, non ad altri
Ma vi sono soggetti che debbono risolvere autoritativamente un conflitto di pretese, come, appunto, i magistrati o che debbono formulare un giudizio di idoneità su candidati in un concorso o esame, ad esempio.
Qui il discorso cambia radicalmente. Questi non debbono fare altro che operare una scelta, preferendo il soggetto la cui pretesa è conforme all’ordinamento giuridico. Questo vincerà e l’altro soccomberà. Non possono “vincere” entrambi. Analogamente l’insegnante o il membro di commissione di concorso o di esame dovrà attribuitre a ciascun esaminando il punteggio che riterrà giusto, sulla base dei risultati dell’esame.
Qui, il parametro non è l’interesse che il professionista deve garantire nel modo migliore possibile a colui che gli ha conferito l’incarico professionale, ma l’aderenza alla legge che deve risolvere un conflitto o al livello di preparazione in forza del quale attribuire il punteggio all’esaminando. Nella fattispecie, il magistrato dovrà operare in modo imparziale e, sia esso giudice o pubblico ministero, dovrà tendere all’accertamento imparziale della verità, cioè di quella ricostruzione del fatto che è supportata dalle prove e su questo accertamento dovrà far calare la decisione conforme alle risultanze, dando ragione ad uno e torto all’altro.
Questa profonda diversità dei due ruoli, di quello dell’esercente un’attività autoritativa, come il magistrato e di quello di chi svolga un servizio al privato come il professionista, è fondamentale in tema di responsabilità civile e in tema di “separazione delle carriere”.
Nel primo caso, come si fa a mettere insieme un istituto che mira alla tutela contro gli errori professionali di cui il cliente può lamentarsi nei confronti del professionista, in cui il parametro è la correttezza dell’attività svolta, in relazione all’utile del cliente e che si è voluto estendere anche a quella “autoritativa” in cui il parametro è l’aderenza dell’attività svolta alle norme e alle risultanze processuali e in cui il parametro dell’utile, per chi ?, non può essere invocato perché le parti contendenti non possono “vincere” entrambe, come si fa, dicevo ad ipotizzare la responsabilità civile del magistrato, invocando, come si fa in effetti, lo stesso istituto ma con gli argomenti che valgono per il professionista e solo per lui ?
Famiglia Cristiana pone poi in evidenza la crescente insofferenza verso l’azione giudiziaria e anche, aggiungo io, contro chi svolge un compito di tipo autoritativo, più in generale, che caratterizza una parte della popolazione italiana, specie a partire dal 1994, che è, guarda caso, l’anno in cui Berlusconi ha fatto il suo ingresso in politica.
E’ questo personaggio che ha svolto un’autentica guerra contro la magistratura che in genere è mossa da interessi privati ma ciò non la rende affatto meno grave come pensano certi esponenti dell’ANM. Così Famiglia Cristiana : “Dall’altra parte pesa il combinato disposto tra il  fatto che il capo del Governo, alla testa di un partito personalistico, possieda una pervasiva capacità di comunicare la propria verità alle persone attraverso la proprietà dei media e che in quel momento cumula parte della Tv pubblica lottizzata, tre tv private, quotidiani e periodici, e il fatto che sia finito poco dopo  sotto indagine, raggiunto da un’informazione di garanzia la cui notizia è uscita improvvidamente in corrispondenza di un evento molto pubblico, il G7 di Napoli. Si inaugura così, anche grazie a un conflitto di interessi mai sanato, una polarizzazione di tifo pro e contro che in parte ha contribuito a una ricezione distorta dell’azione giudiziaria.”
E così, il “tifo” contro la corruzione, esploso con “Mani Pulite” e che aveva trovato inizialmente l’appoggio quasi entusiastico del vecchio MSI e della Lega di Bossi, si è trovato bloccato e disorientato dall’evidente opposizione di Berlusconi e del partito, da lui fondato, cioè Forza Italia, i cui interessi erano fondati sul depotenziamento dell’azione giudiziaria, analogo a quello a cui aveva teso il vecchio PSI, che era all’origine del fenomeno del berlusconismo.
Prosegue Famiglia Cristiana, sottolineando il carattere strumentale con cui viene vista l’azione giudiziaria da “Mani pulite” in poi: “È quella che Gian Carlo Caselli, magistrato di lungo corso, chiama richiesta di giustizia “à la carte”, in cui l’azione dei magistrati è sostenuta o avversata dall’opinione pubblica indipendentemente dal merito delle vicende contestate e dalla fondatezza delle indagini, a seconda del gradimento politico o meno del destinatario, con una logica da curva da stadio” anche complice una sistematica denigrazione della magistratura da parte della classe politica, letteralmente terrorizzata dal “pericolo corso” con Mani pulite e ansiosa di “vendetta”.
Tutti i propositi di “riforma” hanno, come risultato, il depotenziamento dell’ordine giudiziario, la limitazione dei poteri dei pm, ridotti al rango di “avvocati dell’accusa”, con limitazione, per loro, non per le difese, delle possibilità di impugnazione, secondo il modello anglosassone, specie americano, a cui spinge anche l’insopprimibile e incontenibile esterofilia della nostra classe politica, la fissazione di rigidi termini preclusivi che sarebbero esagerati anche in ordinamenti che considerano con sfavore le impugnazioni e le motivazioni delle sentenze, la dilatazione dei poteri della polizia giudiziaria, che, nella sua struttura amministrativa, è soggetta all’azione del governo. E tutto questo sfocia poi nelle leggi “ad personam”.
Sottolinea “Famiglia Cristiana”: “È nata in quella stagione l’espressione “difendersi dal processo” anziché “nel processo”, ossia utilizzando canali esterni alla giurisdizione (interventi legislativi, stampa di proprietà, “difese” televisive) per sottrarsi al rischio di condanne, in alternativa o in combinazione con il canale regolare dei ricorsi nelle aule, previsti dalla legge, a garanzia di tutti imputati contro le decisioni giudiziarie ritenute da rivedere.”
E infine: “ GLI SCANDALI IN CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Va detto che la magistratura ha messo del suo nel dirigere la sfiducia soprattutto nel cosiddetto caso Palamara che ha acceso un potente riflettore sulle storture connesse alle procedure di nomina, al Consiglio superiore della magistratura, delle posizioni apicali degli uffici giudiziari.
Curioso, però, e non senza contraddizioni, il fatto che sia proprio la parte politica che meno si fida della magistratura nel suo insieme a dare maggiormente credito alle opinioni – non necessariamente disinteressate - di chi ha mostrato nello scandalo del Csm comportamenti censurabili fino alla radiazione dall’ordine giudiziario in conseguenza di un processo penale concluso con patteggiamento. “
Come non rimanere sorpresi della collaborazione, nella stesura di un libro di denuncia del preteso malcostume giudiziario, tra il giornalista Sallusti, noto “fustigatore” delle “toghe rosse”, ma anche tutt’altro che “rosse” come Davigo e l’ex presidente dell’ANM Luca Palamara, addirittura radiato definitivamente dall’ordine giudiziario, con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 4 agosto 2021. Ma come? Che logica c’è in tutto questo?
Non ho mai conosciuto personalmente Luca Palamara, ma mi basta richiamare una frase agghiacciante che, di fronte alle obiezioni del Procuratore Capo di Viterbo Paolo Auriemma, a proposito del processo “Open Arms” a carico di Matteo Salvini, così espresse: “ Mi dispiace dover dire che non vedo dove veramente Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia ed il ministro dell’interno interviene perché questo non avvenga”. Di fronte a tale obiezione, ripeto, il Dr. Auriemma si sente rispondere dal collega Palamara: “No, hai ragione. Ma ora bisogna attaccarlo”.
Palamara, in quel momento, aveva importanti incarichi associativi ma, soprattutto, era membro del CSM.
E ora, di fronte alla radiazione, questo personaggio viene arruolato dal partito “garantista” e Sallusti lo chiama per scrivere con lui un libro sul malcostume della Giustizia e, se avessi fatto io una cosa del genere, forse, per la vergogna non mi sarei fatto vedere fuori di casa.
Io, una cosa del genere, non l’ho mai né fatta né pensata.
Magistrati e politica, chi li denigra e chi li corteggia
È figlia di quell’epoca la stagione che avvelena i pozzi del dibattito pubblico e che tuttora rende difficile discutere di questioni e di riforme giudiziarie nel merito.
La separazione delle carriere, da allora ciclicamente riproposta, per esempio, è una questione tecnica che ne nasconde una politica: non sposterà di una virgola l’immensa questione dell’inefficienza della giustizia né l’annoso problema della lunghezza dei processi, ma continua a essere agitata come la riforma delle riforme.
Il combinato disposto tra le disfunzionalità del sistema giudiziario (che ha una serie di concause, compresa una farraginosa produzione legislativa) e la sistematica denigrazione della magistratura, intanto, ha finito per amplificare la sfiducia dei cittadini nella giustizia.”

  
Tornando alla vicenda Palamara, così Famiglia Cristiana: “va detto che la magistratura ha messo del suo nel dirigere la sfiducia soprattutto nel cosiddetto caso Palamara che ha acceso un potente riflettore sulle storture connesse alle procedure di nomina, al Consiglio superiore della magistratura, delle posizioni apicali degli uffici giudiziari.

Tralascio altri casi di malcostume, come quello che ha investito recentemente membri del CSM di nomina politica (caso Natoli) e mi avvio alle conclusioni o alle polemiche sulla questione del collocamento dei migranti in Albania, perché chi strumentalizza politicamente questa o quella scelta dei magistrati deputati a risolverle dimostra di essere affetto lui da una “politicizzazione” (al contrario) della magistratura che ha ragione, non quando i suoi provvedimenti siano corretti, ma ha “torto” quando emetta provvedimenti sgraditi all’uno e graditi all’altro.
Non posso non aggiungere che nessun rimedio potrebbe arrecare quella specie di “panacea” dei mali della giustizia che è la separazione delle carriere, con due CSM e due concorsi separati.
Non mi risulta che i giudici si appiattiscano alle richieste dei PM, anzi, spesso gioca a sfavore di questi ultimi, la ricerca di notorietà e di fama da parte di chi, sparigliando le carte, diventa un protagonista, osannato o vilipeso, a seconda dei casi, da quella parte di opinione pubblica e di forze politiche, che sia, rispettivamente, in sintonia o in distonia, dal giudice “anticonformista” rispetto alle richieste del PM.
E poi, se si vogliono separare le carriere di PM e giudici, si dovrebbero conseguentemente separare anche le carriere dei giudici e PM di primo grado da quelle di secondo grado e da quelle di legittimità.

CONCLUSIONI.
Che fare? Si domanderebbe Lenin? Se la giustizia va riformata, la si deve potenziare e rendere più efficace o, al contrario, va indebolita e resa incapace di operare?
Qui, gli auspici si dividono ed entrano in conflitto. I magistrati vorrebbero riforme che facilitassero l’attività d’indagine, ne rendessero più incisiva l’azione, garantissero la certezza del diritto e delle pene, permettessero di affrontare l’enorme carico di lavoro con strutture adeguate. Mi sbaglierò, ma questo spaventa i politici che interpretano questi fini come pericolosi. Loro vorrebbero limitare, questa è la parola d’ordine: limitare i tempi di indagine, limitare soprattutto le intercettazioni, moltiplicare gli adempimenti a cui sono tenuti i magistrati, perché i politici, o, per lo meno, parte di essi, hanno l’incubo e l’ossessione di “Mani pulite”. Non si sono ancora ripresi da quel trauma.
Io ricordo l’immagine penosa dell’on. Forlani, incalzato dal magistrato Antonio Di Pietro nel processo Cusani, a Milano, il 17 dicembre 1993. Scriveva il giornalista Massimiliano Perrotta il 15 luglio 2923, a proposito della morte di Forlani, su Huffpost: “Nessuno si ricordava che era ancora vivo: una morte da vero democristiano. Arnaldo Forlani, scomparso lo scorso 6 luglio, fu uno dei tre grandi protagonisti della stagione finale della Prima Repubblica, ma a differenza di Giulio Andreotti e di Bettino Craxi amava non fare notizia. Peccato che questo politico sopraffino capace di mettere d’accordo tutti, quest’uomo che nel 1992 sfiorò la presidenza della Repubblica (e sarebbe stato un ottimo presidente in stile mattarelliano), resta inchiodato alla triste immagine della bava”.
Ricordo di avere visto quelle immagini e di averle memorizzato, con pena e sofferenza per quell’uomo, dal carattere timido e riservato, non abituato ad un interrogatorio stringente e rude da un magistrato come Tonino Di Pietro. Ed oggi, quando penso a quell’uomo pesarese, se non sbaglio, il ricordo è inscindibilmente legato a quel particolare richiamato dal giornalista che pure aveva cercato di riconoscere dignità a quell’uomo dalle indubbie qualità, ricordandole, ma non era riuscito, alla fine, a far dimenticare quel particolare.
Quello spettacolo traumatizzò la classe politica che, da allora, ha intrapreso un cammino di “riscatto”, nella sua prospettazione, cercando di abbassare e mettere in discussione il prestigio di un’istituzione dello Stato e, oggi, di indebolirla e dividerla.
Ma mentre la “sinistra” ha cercato intelligentemente di “appropriarsi” dei meriti di mani pulite, la “destra”, sotto l’influenza del “cavaliere” è stata spinta ad drammatico ribaltamento di quella che era la visione della giustizia del vecchio MSI almirantiano.
Io ricordo il vecchio settimanale “Candido” di cui era ispiratore Giorgio Pisanò. L’impronta di questo giornale era, si direbbe oggi, nettamente “giustizialista”, ma, come sarebbe logico, da “destra”, il cui etimo è indissolubilmente legato alla “giustizia”.
Allora la “destra” “tifava” per la magistratura e le forze dell’ordine e additava la sinistra come responsabile del malcostume.
Ma non tutta la sinistra. C’era una sinistra che, piaccia o non piaccia, non si identificava nel malcostume. Era quella del PCI. Bisogna avere l’onestà di ammetterlo.
Ma c’era una “sinistra”, meno sensibile alla legalità, una sinistra pragmatista, ideologicamente eterogenea, quella del PSI ed era questo l’obbiettivo della polemica di “Candido” che si scagliava contro i “forchettoni” socialisti e, in particolare, con l’on. Mancini.
Poi arrivò l’on. Bettino Craxi, un uomo certamente non privo di meriti, ma che subordinava tutto alla Politica, un uomo che tendeva a riavvicinarsi a quella componente nazionalista del “fascismo”, che sarebbe divenuta nota come “socialismo tricolore”.
Quando il cavaliere Berlusconi decise di fare il suo ingresso in politica, con una motivazione di interesse schiettamente personale, arruolò anche il vecchio MSI nel suo schieramento, inserendolo nel contesto “liberal-libertino consumistico” di Forza Italia ed in uno “autonomistico indipendestistico” della vecchia Lega di Bossi, il coordinatore del Popolo della libertà, condizionò i due partiti in senso “radicale” attenuandone via via quell’austerità e quel rigore morale che questi si portavano dietro e li scalzò dalle loro radici.
Il MSI, ora, AN e poi FDI del tandem Meloni Nordio e la Lega sotto la guida di Salvini, non più settentrionale o almeno centro settentrionale, ma estesa sino alla Sicilia, tutto il cosiddetto “centro destra”, una sorta di grande restyling del PSI, tutta questa area liberale, liberista e libertaria, era pronta per un forsennato attacco alla magistratura.


Il ricordo dell’episodio “Forlani” e dell’umiliazione subita da un esponente di primo piano della classe politica turba, ancora oggi, il subconscio di molti personaggi politici e la paura li spinge a cercare di svilire l’immagine della magistratura. Ed oggi, l’operazione sta riuscendo, con quale vantaggio per e istituzioni lo possiamo immaginare.
Ma c’è anche un altro aspetto che è sfuggito sall’attenzione pubblica.
Ci si dimentica che nel 1989 entrò in vigore l’attuale codice di procedura penale, il cosiddetto codice Vassalli, che sostituì l’ingiustamente vituperato Codice Rocco.
I due codici sono profondamente diversi per tutta una serie di motivi che, in questa sede, non è possibile analizzare.
Quello che va sottolineato è che, nel codice Rocco, il PM era un organo pubblico di giustizia che, di fatto, affiancava la figura centrale del giudice istruttore nel processo, quando, nella stragrande maggioranza dei casi, il primo richiedeva l’istruzione formale. Solo in casi limitati e di carattere semplice, il pm svolgeva l’istruzione sommaria.
Vi era poi la figura importantissima del pretore, una sorta di magistrato polivalente che cumulava le funzioni di pm e di giudice e che era soprattutto il magistrato del territorio, figura sacrificata e improvvidamente eliminata per quella ossessione esterofila compulsiva che spinge l’Italia a imitare tout court i modelli processuali angloamericani, totalmente estranei alla nostra storia europea.
La Francia che, a differenza dell’Italia, non patisce questa autentica ossessione, ha conservato il modello europeo e l’insostituibile figura del giudice istruttore, quello che, nei romanzi di Simenon sul commissario Maigret, era il giudice Comeliau. Impersonato dall’attore Franco Volpi, il vero “capo” del commissario.
Tutti sembrano contestare oggi il processo Vassalli, ma pochi ricordano che questo fu auspicato prima ed osannato poi come espressione della tanto auspicata, non da me, “americanizzazione” del processo, contro il codice “fascista”, che poi tanto “fascista” non era. Alfredo Rocco, l’autore dei codici penale e di procedura penale, era infatti vicino al Partito Radicale e solo nel 1913 divenne nazionalista per poi confluire prima ancora della Marcia su Roma nel Partito Nazionale fascista, sciolto nell’agosto 1943 dal Maresciallo Badoglio.
Nel vecchio e ingiustamente vituperato Codice Rocco, il Pubblico Ministero non aveva i poteri che ha oggi. Era considerato una parte pubblica, non potendo un organo che promuoveva il processo e che esercitava funzioni di giustizia, non considerarsi di natura pubblica.
Il dominus delle indagini era il giudice istruttore. La Polizia giudiziaria era strutturata sui Nuclei di Polizia Giudiziaria presso le Procure Generali presso le Corti d’Appello oltre che sugli altri organismi di polizia giudiziaria territoriali.
Già ma in America, in questa specie di “terra promessa” che pretende di dettare le regole al mondo, c’è la polizia con il suo “avvocato” che fa le veci del Pubblico Ministero e si chiama Prosecutor, sempre eletto, c’è il giudice che svolge solo funzioni di arbitro senza decidere nulla, un po’ come da noi la cassazione e la giuria, composta da cittadini totalmente digiuni della benché minima cultura giuridica che decidono chi è colpevole e chi “non colpevole”.
Ricordo che da bimbo ero appassionato dei processi di Perry Mason, del difensore, “bravo e leale”, del prosecutor, l’arcigno e accusatore a prescindere Berger, che vinceva se faceva condannare e perdeva se l’imputato veniva assolto, poi c’era un signore anziano che “recepiva” la decisione della giuria e la rendeva verdetto, rigorosamente immotivato e si distingueva per i predicozzi moralistici che, di tanto in tanto, impartiva e questo era il giudice e, infine, c’era un gruppo di privati cittadini che decidevano. Sia il “prosecutor” che il giudice erano su base elettiva, per la gioia, oggi, dei vari Salvini, Meloni, Nordio, la seconda dei quali era, una volta, ispirata a Paolo Borsellino, l’ultimo a Winston Churchill….
Benché ancora fanciullo, ero perplesso su questo sistema, ma mi divertiva.
Oggi, con la Riforma Vassalli Pisapia, l’Italia ha pensato di imitare questo sistema ma con delle varianti.
Il giudice è un organo professionale, entrato per selezione concorsuale ed emette non un verdetto immotivato ma una sentenza estremamente motivata, ma, soprattutto, scomparsa la figura del giudice istruttore, il dr. Comelieau del Commissario Maigret, il dominus dell’indagine preliminare è il Pubblico Ministero che non solo “accusa”, se deve accusare, ma deve cercare anche elementi a favore dell’indagato – imputato.
Alla posizione di supremazia del PM nelle indagini preliminari
segue quella di parità delle parti nel dibattimento.
A questa parità di parti corrisponde, però, un ben diverso inquadramento ordinamentale del PM rispetto al difensore di cui generalmente non si tiene minimamente conto.
Saranno anche parti soggette a un regime di parità, entro certi limiti, ma con differenze fondamentali che si tende a ignorare.
Il difensore è un libero professionista, avvocato, nominato e pagato dal suo cliente, di cui deve fare l’esclusivo interesse, anche farlo assolvere se colpevole, se non sono praticabili alternative e se non rispetta il suo mandato privato difensivo, può incorrere, oltreché in sanzioni disciplinari, anche in quelle di ordine penale, per il reato di patrocinio infedele.
Il pubblico ministero è, viceversa, un organo statuale, appartenente alla stessa magistratura a cui appartiene il giudice. È sottoposto allo stesso organo di autogoverno dei giudici, cioè al Consiglio Superiore della Magistratura, è stipendiato dallo stato e non esercita il ruolo dell’accusa a prescindere, ma solo se è convinto della “colpevolezza” dell’indagato – imputato. Se accusa un imputato che capisce innocente, potrà rispondere anche disciplinarmente e, fino a qualche tempo fa, anche per il reato di abuso d’ufficio che una improvvida riforma ideata dal ministro Nordio ha tolto di mezzo dall’ordinamento, creando un vuoto incolmabile e pericolosissimo.
Vi ringrazio.
Perugia, 14 dicembre 2024
Giuliano Mignini

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