Inoltre, il movente a scopo di rapina confessata dai fratelli Savi non convince tutti, in primo luogo per la futilità del gesto e per l'entità modesta del bottino.
"Mi prelevarono dal posto di lavoro a scuola senza che io sapessi. Giunti in Armeria - ha raccontato Luciano Verlicchi - non mi fecero entrare. Prima alcuni funzionari di polizia mi chiesero se me la sentivo di entrare, poi altri mi dissero che assolutamente non potevo entrare. Così, mi hanno fatto risalire in macchina e mi hanno accompagnato alla centrale di polizia in Via Agresti, dove sono stato fino alle 8.30 di sera a parlare con alcuni funzionari come il Dott. Buono, il Dott. Preziosa e vari ispettori che mi fecero tantissime domande. Mi hanno rilasciato alle 20.30 per riconvocarmi il mattino seguente alle 8.00 per rinterrogarmi e così è stato per una trentina di giorni tutte le mattine. Alle 16.00 di quel 2 maggio 1991 ho incontrato nella centrale di polizia il cliente abituale dell'armeria T. che aveva trovato i cadaveri, tutto stravolto. T. aveva avuto accesso all'armeria da una porta secondaria attraverso il negozio di tessuti che c'era a fianco del signor M. che ha sempre sostenuto di non aver udito i quattro colpi calibro nove, nonostante i soli tre metri di distanza e il muro di separazione sottilissimo perché aveva la radio accesa. Successivamente, le prove fatte con le pallottole a salve, hanno dimostrato che i colpi si udivano chiaramente anche con la musica a tutto volume. Il signor T. mi rassicurò subito sul fatto che gli assassini di mia moglie sarebbero stati presi sicuro perché c'erano due identikit molto simili alle loro facce. Dopo tre mesi - ha continuato Luciano Verlicchi - e tante raccomandazioni della polizia di non incontrare il testimone perché eravamo in pericolo, in quanto se scoprivano che parlavamo i banditi della Banda della Uno Bianca avrebbero anche potuto decidere di fare delle azioni nei nostri confronti, lo sono andato a trovare a casa sua. Ma, il signor T. aveva cambiato atteggiamento, diceva che non si ricordava più nulla, che aveva visto solo delle ombre nell'armeria perché lui stava scrivendo un assegno, mentre nel suo verbale d'interrogatorio sta scritto che lui gli ha sentiti parlare, che gli ha visti e gli ha descritti molto bene. Uno aveva un accento neutro e modi autoritari. L'altro, invece, restava sempre all'entrata, mantenendo con un piede in mezzo la porta socchiusa, perché evidentemente non sapevano dove era il pulsante per aprire la porta e avevano evidentemente paura di rimanere chiusi dentro. Per quanto riguarda gli identikit, il primo è la fotografia precisa di Roberto Savi, l'altro non corrisponde per nulla a Fabio Savi".
"Il motivo esatto per cui ci furono questi provvedimenti non lo saprei dire. So solo - ha raccontato Luciano Verlicchi - che sequestrarono tutte le armi per prove tecnico - balistiche, ma ero certo che non avrebbero avuto nessun riscontro con i delitti, perché le nostri armi non erano mai uscite dall'armeria senza certificato di vendita e porto d'armi dell'acquirente; mi hanno solo rovinato un centinaio di armi fra lunghe e corte, svalutandole del 90%, perché quando me le hanno riconsegnate erano arrugginite, sporche, imbrattate con le impronte digitali, ammucchiate l'una sopra l'altra alla rinfusa, danneggiate; insomma avevano fatto un macello causandomi un ingente danno economico. La giustificazione che mi diedero - ha aggiunto il marito di Licia Ansaloni - è che la giustizia costa.... Ma costa a chi? Deve costare allo Stato, alla comunità, non a me che sono vittima di questa situazione. Attualmente, posso dire che se a livello economico mi ritengo risarcito, a livello morale assolutamente no" ha affermato Luciano Verlicchi.
"Sulle perizie balistiche - ha affermato Verlicchi - ho molto da ridire. Per tutti gli episodi criminosi dei fratelli Savi non so dire, ma per quanto riguarda l'Armeria sono state impiegate cartucce calibro 9x19, non camiciate, ma di piombo nudo rivestite in teflon. Quindi, non corrisponde al vero la notizia che hanno scritto per anni che i killer della Uno Bianca hanno sparato con le pistole Beretta 98F che si erano fatte mostrare, a cui avevano inserito un caricatore con pallottole calibro 9x19. Perizie successive - ha aggiunto Luciano Verlicchi - hanno dimostrato che avevano usato delle pistole FEG ungheresi (replica della Browning HP ma con doppia azione ) 9x19. A tal proposito, nella confessione che fa Roberto Savi nel febbraio del 1994, racconta per filo e per segno come sono andate veramente secondo me le cose nell'armeria, ma poi successivamente ritratta tutto e i fratelli Savi si addossano tutte le colpe. Volevo infine aggiungere che so che sono state usate quel tipo di pallottole per l'eccidio dell'Armeria perché quando mi sono state consegnate le chiavi del negozio per pulirlo e rimetterlo in ordine prima di venderlo, ho trovato il primo proiettile che era andato a vuoto, che non ha colpito mia moglie, andando a sbattere contro un piano di metallo di una scaffallatura, dove il proiettile si è aperto come una foglia, lasciando però il suo rivestimento di teflon contro un muro. E non lo aveva trovato nessuno, l'ho trovato solo io.".
"Considerate le testimonianze e visto l'identikit, secondo me Fabio Savi non si trovava in armeria nel momento del duplice omicidio. Inizialmente furono altri ad essere sospettati, non ho prove ma sono certo che non fu Fabio Savi a sparare in armeria.
5) Andiamo all'altro identikit, quello di Roberto Savi, ossia quello che lo ritrae con una perfezione impressionante. Nel corso delle indagini, è vero che lei avrebbe riferito al Dr. Buono, funzionario della squadra Mobile di Bologna, che quell'identikit somigliava ad un poliziotto. In quella circostanza lei avrebbe detto testualmente : " somiglia ad uno di voi", accennando anche al cognome Sani ( e non Savi). Dunque, come mai le indagini non si diressero in quella direzione nonostante il nome del poliziotto Savi fosse uscito in altre circostanze?
"Non ricordo d'aver detto il nome Savi o Sani al dr. Buono, così come riportarono i giornali dell'epoca. Ricordo, invece, che dissi a gli inquirenti che quell'identikit somigliava ad un poliziotto di Bologna ed era cliente dell'armeria, infatti quel poliziotto aveva acquistato presso la nostra armeria una Smith & Wesson calibro 44 magnum, un'arma particolare. Siccome noi abbiamo venduto circa diecimila armi in dieci anni, ma della 44 magnum acquistata da Roberto Savi ne avevamo vendute forse una cinquantina fino a quel momento. Probabilmente se si fosse indagato in questa direzione la banda poteva essere fermata prima. - ha dichiarato Luciano Verlicchi - Anche quando la Mobile di Cesena chiese informazioni su questi signori, perché avevano scoperto che Fabio Savi andava a San Marino a comprare cartucce calibro 9x19 teflonate in quantitativi consistenti, ci fu, tra gli altri, qualcuno che garantì per loro, dicendo che era un bravo ragazzo conosciuto da lui e che le usava al poligono di Rimini dove andava a sparare con i fratelli poliziotti".
"Questo particolare lo appresi dai giornali, allora mi recai subito dal magistrato titolare delle indagini, per chiarire la cosa. Gli dissi che secondo me le sbianchettature erano state fatte dopo il sequestro, perché era impossibile che noi mettevamo il bianchetto sul registro, in quanto per regolamento veniva prelevato una volta al mese dal funzionario di polizia, vidimato, timbrato e firmato; pertanto se avessero scoperto che noi sbianchettavamo i nomi dal registro, ci avrebbero fatto chiudere subito".
"Certo, Pietro Capolungo già lavorava in armeria quando l'abbiamo acquistata il 10 maggio 1981. Era al dire il vero una persona che non sono mai riuscito ad inquadrare alla perfezione, aveva alcuni aspetti impenetrabili della sua vita. Lo vedevamo ogni tanto incontrare degli alti in grado dell'arma dei Carabinieri in divisa con i quali era molto in intimità, usciva dal negozio per parlare con questi uomini in divisa, poi rientrava dopo una mezz'oretta. Capolungo, non si può dire che lavorasse solo per l'armeria, ma lavorava un po' per tutti. Veniva in negozio e faceva delle mansioni per l'armeria, spesso andava in banca, in Questura a rinnovare il porto d'armi di clienti che gli davano delle mance. Pietro Capolungo passava la giornata a fare questi servizi e si intrometteva in ogni discorso si facesse con i clienti, dicendo sempre la sua, di politica, di calcio, di donne. Ma, dopo la strage dei Carabinieri al Pilastro del 4 gennaio del 1991 - ha rivelato Luciano Verlicchi su Capolungo -, quando qualcuno parlava di questo episodio, lui girava le spalle, faceva finta di niente, trovava una scusa per non parlarne, uscendo dal negozio, andando in bagno o da qualche altra parte, senza proferire mai parola su questo episodio".
"Quando acquistammo l'armeria, il Dott. Paglia mi fece vedere nella sua villa un terrapieno dove sparavano, e mi disse che ci si esercitavano alcuni poliziotti. Ma, di certo la notizia dell'esistenza di un poligono attrezzato nei sotterranei, nella cantina della villa, non posso confermarla, perché non l'ho vista con i miei occhi".
Cristiano Vignali - Agenzia Stampa Italia
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