Intervista. Daniela Caruso: La Cina tra identità nazionale e globalizzazione

1651774485379(ASI) Prof.ssa Caruso, benvenuta su ASI. Lo scorso febbraio è andato in stampa, per i tipi di Eurilink University Press, La Cina tra identità nazionale e globalizzazione. Promozione e impresa culturale come strumenti di diplomazia e coesione sociale, il Suo ultimo saggio dedicato al mondo cinese.

Il Suo è un approfondimento, praticamente unico in Italia, sull'impatto della diplomazia culturale nel quadro delle relazioni internazionali che il gigante asiatico intrattiene con il resto del mondo. Quanto pesa l'eredità filosofica, letteraria, artistica e socio-cuturale della Cina storica sul pensiero e sulla mentalità della Cina di oggi?

Pesa moltissimo. Ritengo che in nessun posto al mondo la cultura conti quanto in Cina e sarebbe un errore grossolano ritenere che il Paese dell’innovazione e del futuro, la seconda potenza mondiale, abbia tagliato le sue radici. In realtà, tutto ciò che oggi vediamo è il frutto di una costruzione nata anche dalla rielaborazione dei principi etici e filosofici confuciani che hanno guidato i cinesi fin dall’ antichità.

È interessante notare che piuttosto che aspirare ad una civiltà socialista universale, la Cina ne ha creata una propria versione con distinte specificità culturali. Quando nel 2017 Xi Jinping rimproverava Donald Trump per la sua scarsa conoscenza della storia cinese dicendo che, anche se l’antica civiltà egizia è sorta un po’ prima, “l’unica civiltà che continua a proseguire [nel presente] è quella cinese”, si riferiva esattamente a questo concetto.

Si tratta di una questione importante, ed è il motivo per cui la Cina sembra sempre essere un rompicapo per chi non ne conosce l’eredità culturale. Propongo a tal proposito un esempio quanto mai attuale: la storica predilezione per l’armonia sociale, elemento imprescindibile del pensiero confuciano, crea un orientamento amante della pace, che fino ad oggi rimane l’idea di base di Pechino nella gestione delle relazioni internazionali. Ignorare, o fingere di ignorare, tutto ciò sta avendo un peso in questo momento di forte tensione e di escalation bellica.

Va da sé che esistono anche interessi economici e variabili geopolitiche importanti, ma il concetto di base resta. A meno di non essere deliberatamente attaccata, la Cina sceglierà sempre la pace e il dialogo. Può non piacere ma è un assunto imprescindibile nella comprensione di alcuni fenomeni. Oggi più di sempre non è un Paese che possiamo ignorare come stiamo deliberatamente facendo, sul medio-lungo termine siamo destinati a non uscirne bene.

 

In virtù dei suoi cinquemila anni ininterrotti di storia, la civiltà cinese può vantare uno tra i patrimoni storico-culturali più vasti al mondo, in termini sia materiali che immateriali. Nel Suo saggio inquadra sotto questa lente di ingrandimento anche la politica del governo, osservando da vicino strategie di sviluppo socio-economico, come l'ultimo Piano Quinquennale, o di image- e confidence-building, come il soft power. Oltre agli scontati risvolti turistici, qual è il potenziale del Paese in questo settore?

L’industria culturale cinese è fortissima perché sostenuta da investimenti e programmazioni ingenti, e rappresenta non solo il motore di sviluppo per molte zone del Paese ma anche l’immagine che Pechino vuole riflettere nel mondo: una nazione ed un popolo profondamente uniti dalla propria storia e dalle proprie radici, con un’identità culturale fortissima. Una narrazione di sé potentissima quale Paese che si impone attraverso l’immagine di Civiltà-Stato piuttosto che gonfiando i muscoli. E qui arriviamo al Suo riferimento al soft power, che è strettamente legato al concetto di cultura; si tratta di porre l’accento sulla statura culturale e sulla costruzione dell’immagine nazionale attraverso l’esemplarità.

Non è difficile comprendere questa idea se si considera che nella tradizione cinese la cultura è sempre stata, e con forza rimane, il pilastro portante di una società civile. Solo per fare un esempio voglio ricordare che nel XII Piano quinquennale (2011-2015) fu prevista una massiccia espansione nei settori dei media, dell’editoria, del cinema, dell’animazione, delle serie televisive e dello spettacolo per l’esportazione. Secondo il Ministero delle Finanze, il governo ha investito 171 miliardi di yuan nel 2015 con l’obiettivo di migliorare cultura, sport e media poiché, a loro avviso, il mondo avrebbe avuto bisogno di conoscere la cultura cinese: si trattava di uno sviluppo concepito quale motore per rafforzare l’attrattiva del Paese ed aumentare la sua influenza sulla scena globale.

La cultura svolge un ruolo importante anche nella costruzione della psicologia nazionale, nella formazione del carattere, della tradizione e dello spirito nazionali. Sull’utilizzo del soft power le posizioni degli intellettuali cinesi sono molteplici, eppure tutte hanno lo stesso denominatore comune, ossia la richiesta di un soft power con caratteristiche cinesi, insistendo sull’importanza di distinguere la teoria originata dal "discorso americano", per svilupparne una che tenga conto delle peculiarità locali.

Tuttavia sarebbe un errore credere che costruire un’immagine positiva basata su una forte identità culturale sia importante solo nelle relazioni internazionali e la ragione fondamentale per cui la nazione cinese è fortemente coesa sta proprio nella profonda percezione della propria identità; si può ben affermare che la sicurezza culturale rappresenti una questione di sicurezza nazionale. La sopravvivenza e lo sviluppo sono inseparabili dalla cultura che diventa poi anche un potente attrattore in ambito internazionale proiettando un’immagine di forza.

In buona sostanza si può affermare che l’interesse della Cina per il soft power derivi dai suoi cogenti interessi nazionali; questi includono il tentativo di assicurare un ambiente pacifico per la crescita economica, di adattarsi ai suoi crescenti bisogni e di arginare l’influenza di altre potenze. Così, il soft power e, più in generale la diplomazia culturale, sono concepiti come un modo efficace per promuovere la comprensione degli ideali cinesi, supportare gli obiettivi economici e migliorare la sicurezza nazionale in modo sostenibile.

Tuttavia, se osservati da una prospettiva culturale più ristretta, è difficile separare le strategie di attrazione di Pechino dal suo potere economico: pochi paesi hanno le risorse finanziarie per poter aprire centri culturali in tutto il mondo, per promuovere lo scambio verso la comprensione reciproca e, più in generale, per investire così tanti fondi nel campo della cultura. Ma è altrettanto vero che i pochissimi paesi ricchi rimasti non investono tanto in cultura, in proporzione al loro PIL.

 

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Sebbene meno nota all'estero, in Cina esiste anche una fiorente arte contemporanea. Nel libro cita due esempi di rilievo in questo senso, ovvero i distretti di Pechino (798) e Shanghai (M50), due vecchie aree produttive rigenerate per ospitare esposizioni di artisti viventi nel suggestivo contesto di un Novecento industriale diverso, per tempi e modalità, da quello dei Paesi occidentali, ma con dei punti in comune. Nello stereotipo partorito dalle nostre democrazie liberali è solitamente difficile immaginare spazi di libertà espressiva e artistica in una realtà come la Cina. Quante cose non sappiamo ancora di questo immenso Paese?

Nulla, non sappiamo nulla. In verità sa poco anche chi, come me, se ne occupa da venticinque anni. Il cosiddetto "vulnus della democrazia" lascia sempre immaginare una Cina simile ai paesi del socialismo reale di cui siamo stati più o meno testimoni diretti o indiretti. Anche in Cina la libertà di espressione non è cosa facile, ma direi che è concessa fino a che non turba la fatidica armonia sociale. Il dissenso è ammesso in certe forme e certi limiti, soprattutto quando serve a protestare contro torti, ingiustizie e derive legali.

Anche queste forme hanno un retaggio secolare: anticamente i cittadini che subivano soprusi dagli amministratori locali o che avevano dissenso da esprimere si recavano dall’ Imperatore per consegnare una lettera in cui esprimevano le loro ragioni. Ho visto fare lo stesso ad un nutrito gruppo di rappresentanti della comunità cinese napoletana quando, alcuni anni fa, si recò dal sindaco con le proprie lettere, per protestare contro alcuni abusi subiti dalle proprie attività.

Lo stesso vale per gli artisti, libertà anche di protesta, ma entro certi limiti. Così, i cluster hanno anche una qualche funzione di controllo sull’ operatività creativa ma devo dire che non sembra mai molto stretta o coercitiva, almeno all’ osservatore occidentale. Certamente esistono diversi artisti dissidenti che pure vengono perseguiti, ma va anche detto che si tratta di un numero assai esiguo di persone che ha scelto altri modelli socio-politici. Non sono poi mancati gli artisti che hanno esposto in protesta contro alcune problematiche sociali e ambientali ma, tutto sommato, questo genere di malcontento è ben tollerato, in alcuni casi anche osservato e compreso.

Altrettanto vero è che con la presidenza attuale la Cina è diventata un Paese più autoritario e chiuso rispetto al periodo precedente, in cui fioriva non solo economicamente ma anche culturalmente. Tuttavia va ricordato che gli ultimi due anni sono stati abbastanza duri e la postura aggressiva anticinese della comunità internazionale, insieme alla pandemia, hanno sollecitato una ulteriore chiusura del Paese.

 

Lo scorso 21 gennaio, dopo un rinvio di due anni causa pandemia, hanno preso il via le celebrazioni per l'Anno della Cultura e del Turismo Italia-Cina. Malgrado le criticità internazionali c'è dunque per il nostro Paese non solo un impegno da mantenere ma anche un'opportunità da cogliere per il futuro. Crede che sarà dato il giusto risalto all'iniziativa oppure le divergenze politiche ne comprometteranno l'efficacia?

Stiamo uscendo adesso da una pandemia che ha bloccato il mondo, in più il governo italiano è dichiaratamente atlantista e la diplomazia culturale non è un suo punto di forza. Non credo ci sia altro da aggiungere. Peccato, molte buone occasioni mancate e assoluta inconsapevolezza dei danni provocati a tutto il settore culturale perché, nonostante lo scarso flusso turistico, avremmo potuto fare un lavoro che si sarebbe rivelato preparatorio per il futuro.

 

Guardando alle presenze turistiche cinesi in Italia, nel Suo libro ricorda che i flussi dal Paese asiatico prediligono soprattutto le destinazioni d'arte. Con una classe media in costante crescita, prossima ormai ai 600 milioni di persone, il segmento ha ancora un enorme potenziale da esplorare. Come fare per attrarre questo bacino verso l'Italia? Quanto conterà la capacità di creare reti e relazioni culturali?

Purtroppo ritengo che finché le nostre posizioni politiche ma anche per certi aspetti pubbliche saranno sinofobe come negli ultimi tempi, anche quando la Cina deciderà di aprirsi nonostante i retaggi della pandemia, il turismo cinese in Italia tenderà a diminuire.

La cito mettendo la sua frase al passato “il segmento aveva ancora un enorme potenziale da esplorare”. Al momento non ci sono i margini per questa ripresa, sia per la chiusura del paese, sia perché è l’Italia a non volere essere accogliente con chi gli è stato additato come nemico e i cinesi sono molto sensibili a certe questioni.

Invece è proprio ora che la cultura potrebbe fare moltissimo, ma se siamo quelli che sbattono fuori dai teatri i direttori russi ed eliminano le lezioni su Dostoevskij dalle università capirà che non c’è troppa speranza per la diplomazia culturale. Mi chiede cosa avremmo potuto fare per incrementare il turismo cinese e costruire reti culturali?  Tantissimo, davvero non si può immaginare quanto.

 

Redazione - Agenzia Stampa Italia

 

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