(ASI) Rimini - Il 30 aprile 2022 é stato il 31esimo anniversario dell'agguato ai Carabinieri in località Marebello di Rimini della Banda della Uno Bianca che fu molto attiva dal 1987 e il 1994, fra l'Emilia - Romagna e il Nord delle Marche (103 crimini, 102 feriti, 24 morti, fra cui 5 carabinieri).
A tal proposito, ha ricordato il tragico episodio Vito Tocci, Carabiniere in congedo, originario di Campo di Giove, località montana abruzzese in Provincia di L'Aquila.
Vito Tocci, medaglia d'oro vittima del terrorismo, fondatore e già presidente dell'associazione "Vittime della Uno Bianca", attualmente presieduta da Rosanna Zecchi, ci lascia la sua testimonianza su una vicenda criminale sulla quale, secondo lui, ci sono ancora lati oscuri, e che gli ha segnato la vita, sia fisicamente che moralmente.
La vita di Vito Tocci è cambiata quando quel infatti, porta ancora i segni di quella drammatica notte, quando venne colpito da sette colpi di fucile calibro 12, quattro dei quali sono ancora nella sua schiena. Da quel 30 aprile 1991, la vita di Tocci è cambiata, ma la cosa che moralmente gli ha fatto più male, è stato scoprire che i suoi carnefici erano dei colleghi della Polizia di Stato.
Ma, sentiamo cosa ha dichiarato Vito Tocci che ricorda il drammatico episodio su cui ci dà una sua chiave di lettura personale, anche alla luce delle ultime notizie che sono venute a galla di recente:
"Dopo 31 anni porto ancora quel dolore e quella rabbia, quando, insieme ad altri due colleghi, Mino De Nittis e Marco Madama, rimasi gravemente ferito in zona Miramare di Rimini da una pioggia di cal 12 esplosi dai criminali della Banda della Uno Bianca che, dal 1987 al 1994, seminò terrore e morte. Riuscimmo a sfuggire alla morte, sotto solo perché ci allontanammo repentinamente, fummo più fortunati di quei tre colleghi uccisi al quartiere Pilastro di Bologna. Da quel giorno la mia vita è cambiata per sempre, ancora oggi porto quei quattro proiettili nella mia schiena. Gli eventi di quella maledetta notte non furono mai chiariti del tutto, ricordo che fuori la mia caserma intravedemmo una donna che ci osservava, cercammo di identificarla facendo un giro dell’isolato, ma lei riuscì a dileguarsi, mi vengono in mente anche alcune testimonianze che videro a bordo della Uno Bianca 4 persone e non due, come dichiarato dai fratelli Savi, i quali, tra l’altro, affermarono d’aver aperto il fuoco contro di noi perché temevano un controllo. E’ falso, erano loro a seguirci quando all’altezza di un sottopasso aprirono il fuoco, se avevano questo sospetto si sarebbero dovuti fermare ed attendere una nostra reazione, noi avremmo proseguito sicuramente la marcia, in quanto non era nostra intenzione controllarli. Dopo appena due giorni eliminarono Licia Ansaloni, titolare dell’armeria di Via Volturno a Bologna e Pietro Capolungo, Carabiniere in pensione e commesso. Non rimasi sorpreso quando appresi che dietro quella banda si celavano colleghi della Polizia, perché il terrore ed il loro modus operandi aveva fatto già trasparire che poteva trattarsi di c.d. “schegge impazzite dello Stato”. Voglio ricordare che furono gli stessi criminali che, sempre a bordo di Una Fiat Uno Bianca, nell’ aprile del 1988 in Castelmaggiore (BO), uccisero altri due giovani Carabinieri, Umberto Erriu e Cataldo Stasi. In quel periodo ci furono anche strane uccisioni di colleghi, intanto la Banda della Uno Bianca aveva attaccato 3 pattuglie dei Carabinieri uccidendo 5 colleghi. Allora ebbi la sensazione che i Carabinieri stessero nel mirino della banda, che vi era un attacco allo Stato. Colpire una pattuglia dei Carabinieri è un azione altamente rischiosa, potevano avere loro la peggio, magari con la presenza di altri colleghi in supporto, ma probabilmente si sentivano al sicuro. Le sentenze ci hanno consegnato una verità sulla quale aleggiano ancora tante ombre e tanti interrogativi senza risposta, continuerò, insieme ad altri Familiari delle Vittime della Uno Bianca, a ricercare la verità, anche con la presentazione di un esposto in Procura".
Cristiano Vignali - Agenzia Stampa Italia