(ASI) Stando ai dati emersi dall’ Istat, il nuovo record minimo di nascite (399 mila) e l’elevato numero di decessi (709 mila), stiamo assistendo ad un aggravamento della dinamica naturale negativa che caratterizza il nostro Paese nell’ultimo decennio’. Il calo dei nati totali già osservato nel corso del 2020 (-3,6% rispetto al 2019) tuttavia è dovuto solo in parte limitata agli effetti della pandemia.
Si annovera un certo crollo delle nascite tra dicembre 2020 e febbraio 2021, evento da poter collegare ai mancati concepimenti durante la prima ondata pandemica, il quale potrebbe costituire il sintomo della posticipazione dei piani di genitorialità che si è protratta in modo più marcato invece nei primi sette mesi, per poi rallentare verso la fine dell’anno’. I dati che abbiamo alla mano sono chiari, ci dicono che i rinvii delle nascite sono particolarmente accentuati tra le donne più giovani.
Il forte calo dei nati a gennaio 2021, tra i più ampi mai registrati, dopo quello già marcato degli ultimi due mesi del 2020 ci lascia intendere chiaramente con quale potenza la pandemia ha giocato un ruolo importante in tutto ciò. La riduzione delle nascite è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi industrializzati. L’Italia, però, riesce a fare peggio degli altri.
Affermare che la società di cui facciamo parte non è assolutamente idonea al nuovo modo di concepire il lavoro spiega tante crepe sociali che si stanno creando e che non lasciano assolutamente spazio all’immaginario della procreazione. Basti pensare che oltre allo scoglio organizzativo che gira attorno agli asili, alle difficoltà economiche che avanzano ulteriormente anno dopo anno, la sfida maggiore è rappresentata dal tentativo da parte degli italiani di saper fronteggiare una certa cifra di precarietà sentimentale dalla quale è difficile venirne a capo. Inevitabilmente un certo peso nel determinare un così alto tasso di denatalità nel nostro Paese è stato occupato dalla paura del Covid-19, dalle situazioni di precarietà economiche e sentimentali verso i quali tutti si sono sentiti coinvolti.
La domanda che ci poniamo spesso è se tutto questo, se tutti questi accadimenti, passando dalla pandemia, alla guerra, all’inflazione, se questi costituiscono nelle nostre rappresentazioni di vita eventi attivi o passivi riguardo le scelte che compiamo. Inevitabilmente diamo per scontato che sia il mercato del lavoro troppo fluido a condizionare la scelta del non avere figli.
Aumentano le “non coppie”, formate da chi ancora vive in famiglia a causa della precarietà professionale, c’è un disimpegno emotivo ed esperienziale nell’ approcciare agli eventi di vita.
Ritrovarsi ad agire in vesti non più di attori e fautori delle proprie scelte di vita, ma in qualità di “vittime” inconsapevoli dei propri accadimenti, ha accentuato ancor di più una certa distanza sociale, emotiva e relazionale nel modo di concepire la famiglia e quindi nel modo di poter essere genitori. Il prospetto che si inscena varia rapidamente tra idealizzazione per un futuro migliore al contempo contaminato da un senso di auto-svalutazione per se stessi, per le proprie capacità genitoriali e per le risorse da mettere in campo in questa impresa.
È un’oscillazione ansiogena quasi incallita quella a cui stiamo tendendo, un movimento di retroazione che impedisce alle coppie di poter investire serenamente sull’idea di mettere al mondo dei bambini.
Un certo peso che incide sul fattore denatalità la riveste la questione della ridefinizione dell’identità femminile alla quale si aggiunge un certo grado di stigma verso la maternità, dove come reazione a catena riscontriamo una certa quota di iperinvestimento sui figli. Stiamo assistendo ad un sovraccarico cognitivo ed emozionale così importante e così terribilmente duro da governare che risulta difficile pensare ad un aumento del tasso di natalità in Italia, ora come ora.
Oggi più cha mai sembra riecheggiare nel nostro modo di sentire e percepire le cose della vita quotidiana un certo invischiamento emotivo, non ci sono più confini, c’è troppa permeabilità nelle relazioni e c’è sempre meno bisogno di toccare in prima persona i propri vissuti. Stiamo assistendo ad un’ impoverimento generazionale che non lascia scampo alcuno alla solitudine interiore ed a quel desiderio covato e coartato nel fare figli. Questi i fattori che incentivano le famiglie a tirare sia consapevolmente che non il freno a mano sul tema nascite.
È pur vero che la maternità è oggetto di una profonda riflessione e il desiderio di diventarlo diviene sempre più un miraggio. Il senso di agentività, sotterrato dalla frustrazione del domani, di ciò che ci potrà riservare il futuro, delineando sempre più scenari poco idilliaci, fanno protendere per un incremento del tasso di denatalità in Italia. Il focus sulla realizzazione personale in aggiunta a quello della cura del sé, a un certo punto si estende, le istanze di realizzazione professionale diventano molto forti, e ne consegue perciò un rinvio assordante del desiderio di maternità.
Si evince un certo stallo relazionale che ha radici profonde. Le distanze sociali sembrano essere tanto più lontane dal nostro senso di appartenenza e al contempo tanto troppo vicine dal non consentire un corretto flusso di informazioni. Stiamo incorrendo in una grossa deresponsabilizzazione e sempre meno appartenenza sociale, motivo che spinge anche molti professionisti che lavorano nel settore della salute mentale ad affermare che sarà molto difficile restituire ai posteri un certo desiderio primordiale del voler allargare la famiglia.
Dott.ssa Carmen Melillo per Agenzia Stampa Italia
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