Una testimonianza dal Kurdistan iracheno

 IGP0457 Kawergosk Laura Sestini1149(ASI) Livorno. Laura Sestini fotogiornalista freelance, dopo la chiusura del Corriere di Livorno, è appena tornata da un viaggio nel Kurdistan iracheno, al seguito di una delegazione di operatori di Un Ponte Per, l’associazione di volontariato nata nel 1991, che continua a costruire “ponti di pace”, in particolare nel Medio Oriente.

Già presente, nell’aprile del 2011, sul confine libico-tunisino per documentare la tragedia umanitaria del Campo di Choucha, e impegnata non solamente nel fotoreportage ma anche nella fotografia d’autore, Laura Sestini è anche tornata a studiare, decidendo di laurearsi con una tesi sul perché le donne diventano combattenti e un focus sull’esperienza delle donne curde. Proprio per approfondire l’argomento, munita della sua inseparabile macchina fotografica, ha viaggiato da Arbat a Erbil, riportando racconti e testimonianze, ma soprattutto immagini di una realtà così lontana, eppure così vicina.

 

Perché ha scelto di fare questo viaggio nel Kurdistan iracheno?

Laura Sestini: «Sebbene per mia natura sia abbastanza attenta ai diritti dei popoli, fino a un anno fa non ero bene informata sugli eventi succedutisi nei secoli al popolo curdo, avendo solo letto qualcosa di sfuggita. Il punto di svolta, per me, è arrivato con la proclamazione del Califfato Islamico in Iraq, il 29 giugno 2014, e la presa di Mosul, oltre ai massacri e ai rapimenti delle migliaia di donne della minoranza curda Yazida, in Sinjar, la zona a ovest di Mosul confinante con la Siria. Donne che, occorre si sappia, sono purtroppo tuttora schiave, in gran numero; mentre altre sono state trucidate. Dall’interesse verso di loro a quello nei confronti delle donne curde siriane peshmerga (ossia, partigiane combattenti) il passo è stato breve. Queste ultime, attraverso le montagne che separano il Kurdistan siriano da quello iracheno, sono andate in aiuto della popolazione Yazida sopravvissuta, e hanno iniziato a insegnare alle donne del luogo a usare le armi per difendersi. È doveroso sottolineare che le curde siriane, dall’avvento della guerra in Siria e di quella contro l’Isis - alle quali partecipano attivamente insieme agli uomini - hanno instaurato una società democratica basata sulle teorie di Abdullah Öcalan (leader del PKK curdo turco, attualmente condannato all’ergastolo), che punta sull’istruzione delle bambine e delle donne, e rispetta la presa delle armi su scelta personale. Tornando a me, sono rimasta affascinata da queste donne, giovanissime per la maggior parte, così coraggiose e determinate a difendere il proprio popolo, e che si tengono sempre un colpo di riserva per uccidersi, piuttosto che cadere in mano nemica. Dopodiché, essendo vicina alla laurea, ho deciso di coniugare l’interesse personale con uno più generale e di sviluppare il tema delle donne curde combattenti a 360 gradi. Studiando l’argomento, ho capito che dovevo avere almeno una panoramica sull’intera società femminile curda. Il mio viaggio nel Kurdistan iracheno, dopo un anno di studio della storia e della società curde, è stato il coronamento dell’interesse che si era acceso in me per questo popolo».

 

Qual è stato il suo percorso all’interno del Paese?

L. S.: «Ho scelto di dirigermi nel Kurdistan iracheno, in quanto il più tranquillo dal punto di vista della sicurezza - considerate le diverse situazioni nei quattro Paesi in cui risiede il popolo curdo, ossia la guerra in Siria, i soprusi del Presidente Erdoğan nei confronti della popolazione curda in Turchia e le chiusure del regime iraniano. Nello specifico, il mio percorso interno al Kurdistan iracheno è partito da Arbat, a sud di Sulaymaniyya, fino al campo profughi di Kawergosk, nei pressi di Erbil, per una distanza di circa 230 km».

 

Chi l’ha aiutata a organizzare il viaggio?

L. S.: «Naturalmente prima di partire ho cercato informazioni sulla reale situazione di sicurezza in loco e su come contattare gli operatori nei campi profughi e/o le organizzazioni di donne presenti sul territorio, che erano al centro della mia ricerca sulla realtà sociale curda. Le risposte alle mie domande sono arrivate da una Organizzazione non governativa italiana, Un Ponte Per, che dopo aver preso visione del mio progetto, ha invitato me e un’amica - che si è unita - a prendere parte a due conferenze sui diritti civili organizzate da ICSSI (l’Iraq Civil Society Solidarity Initiative), un network iracheno formata da diverse associazioni con lo scopo di promuovere i diritti umani e avviare progetti solidali, e di cui Un Ponte Per è tra i partner principali. In questo modo ho potuto viaggiare insieme ai loro operatori pur rimanendo indipendente riguardo ai miei interessi specifici».

 

Lei ha viaggiato con operatori di Un Ponte Per e ha assistito, quindi, alle conferenze organizzate da ICSSI. Ce ne parla?

L. S.: «Alcuni settori della popolazione sia curda che irachena lavorano insieme per promuovere i diritti civili di tutti e, coraggiosamente, i portavoce di insegnanti, sindacalisti, giornalisti, avvocati, donne contro la violenza, e altri gruppi della società civile, provenienti dall’intero Paese, si sono incontrati a Sulaymaniyya, il 18 gennaio scorso. Lo scopo era tracciare le linee guida comuni per i progetti da portare avanti e rendicontare gli obiettivi raggiunti. Alla conferenza hanno partecipato attivamente sia ICSSI sia l’italiana Un ponte Per. Non era la prima volta che si riunivano, e il messaggio chiaro che ho percepito era un appello alle organizzazioni occidentali per un supporto etico-morale alle loro lotte. Ossia la necessità che le Ong, ma anche tutti noi si eserciti una pressione non violenta per migliorare la società irachena e curda e, se possibile, si stringano ufficialmente impegni con i gruppi professionali di riferimento. Ho avuto quasi la sensazione che la richiesta fosse: “siamo dei bambini in fatto di democrazia, abbiamo bisogno di qualche lezione teorica”. Questo genere di appello mi ha molto colpita, mi è sembrato sincero e realistico. Da parte mia, con un delegato Arci iscritto all’Ordine dei giornalisti, anche lui presente alla conferenza, ho scritto una lettera all’Odg della Toscana per trasmettere in maniera chiara il messaggio. Inoltre, mi piacerebbe ricordare che nei due campi profughi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite che ho visitato, ad Arbat (Sulaymaniyya) ed Erbil (Kawergosk), dove sono ospitate circa 9/10.000 famiglie di curdi siriani, Un Ponte Per porta avanti diversi progetti a favore dell’infanzia e dell’istruzione, e ha accanto altre Ong, anche irachene, come Al Mesalla».

 

Com’è la situazione militare nel Kurdistan iracheno?

L. S. «Non ho incontrato personalmente militari curdi perché nel Kurdistan iracheno, che dalla caduta di Saddam Hussein è divenuto regione autonoma (nonostante i limiti interni e dello Stato iracheno), i due partiti che si spartiscono il territorio, ossia l’UPK (l’Unione patriottica curda) a est, e il PDK (il Partito democratico curdo), nel resto del territorio, e attualmente al governo con Mas’ud Barzani (che è anche capo del partito), hanno istituito ognuno una propria milizia, trasformata in esercito regolare, dove operano anche corpi femminili. A questo proposito, vorrei segnalare che le Forse Armate italiane, con l’operazione Prima Parthica del 2016, si sono impegnate anche nella formazione delle donne militari. Sul territorio è infatti presente un intero reggimento femminile, composto da quattro battaglioni, comandato da un colonnello donna e di cui fanno parte oltre 500 tra soldatesse, sottoufficiali e ufficiali. L’Italia, in effetti, prende parte alla Coalizione multinazionale (che attualmente annovera 65 Paesi e 3 Organizzazioni internazionali partecipanti) istituita per combattere contro il sedicente Stato Islamico in Iraq e Siria. Le forze dei vari Paesi che hanno espresso l’intendimento di aderire alla Coalizione stanno operando ai sensi dell’Art. 51 della Carta dell’Onu, nonché delle Risoluzioni n. 2170 del 15 agosto 2014 e n. 2178 del 27 settembre 2014, sulla base della richiesta di soccorso presentata il 20 settembre dello stesso anno dal rappresentante permanente dell’Iraq presso l’Onu al Presidente del Consiglio di Sicurezza. I militari regolari curdi iracheni continuano però a farsi chiamare Peshmerga, termine che potremmo tradurre “fino alla morte”, per rivendicare una continuità d’intenti con i partigiani combattenti contro Saddam Hussein e i governi precedenti. Essendo comunque, e a tutti gli effetti, un esercito regolare, sono stata sconsigliata dal contattarli direttamente, per non mettere in moto i servizi segreti. Bisogna capire che il Kurdistan iracheno è a due passi da Mosul e, nonostante i numerosi check point, circolano personaggi di tutti i generi - quindi è utile muoversi con cautela nelle diverse situazioni. In pochi giorni non è possibile instaurare contatti attendibili né era mia intenzione mettere a rischio gli operatori di Un Ponte Per. Tra gli operativi, sicuramente qualcuno avrà avuto un passato da “vero” peshmerga, ma in generale si è di fronte a militari di un esercito regolare».

 

Si sa del ruolo delle donne nell’esercito curdo, ma i rapporti tra i due sessi nel Kurdistan iracheno sono davvero paritari?

L.S.: «Tornando alla presenza di donne combattenti sulla linea del fronte, la stessa è una peculiarità del popolo curdo, in tutte le quattro nazioni dove è presente, da almeno un secolo. Per quanto riguarda la vita civile, ho registrato un anelito a una società più moderna, sul modello occidentale e/o capitalistico, che vada a braccetto con le tradizioni secolari. Faccio alcuni esempi per spiegarmi meglio. L’aspirante fidanzato deve tutt’ora parlare con il padre della ragazza prima di intessere un possibile legame sentimentale. Mentre al futuro sposo spettano per intero le spese del matrimonio. Una sera, un giovane volontario mi ha raccontato di essere innamorato di una ragazza, ma non avendo un reddito si sentiva triste perché non avrebbe potuto portare avanti la relazione. Ecco forse il perché di questo desiderio palpabile di rinnovamento. Sebbene anche i giovani continuino a sentirsi legati a certi vecchi schemi, volontariamente o senza nemmeno rendersene conto. Mi è sembrata una società in evoluzione, dove le relazioni dipendono anche dall’educazione ricevuta e dal modo di intendere la religione. Specialmente con noi, donne occidentali, la differenza da soggetto a soggetto era tangibile».

 

Le è stato riferito di contatti e, nel caso, di quale genere, tra curdi iracheni e curdi turchi del PKK, anche in merito allo sconfinamento dell’esercito turco nel Kurdistan iracheno?

L.S.: «Naturalmente non abbiamo avuto esperienze dirette, anche se avrei molto ambito ad averne. Ho però parlato con diversi anziani che, nella loro lunga vita ed esperienza, sono stati davvero dei partigiani e hanno combattuto prima del 2003. Questi seguono attentamente le vicende politiche e di guerra del loro Paese. A domanda diretta sulla situazione al confine turco, mi è stato invariabilmente risposto: “Sì, al confine si combatte sempre”. In effetti, si hanno spesso piccoli attacchi mirati che non fanno notizia e, quindi, non ricevono l’attenzione dei media occidentali. Nessuno ne parla, come non si parla dei continui raid del governo di Erdoğan nei villaggi curdi in Turchia, dove la repressione è quotidiana».

 

Qual è la situazione economica e umanitaria?
L. S.: «Il Kurdistan dà l’idea di un Paese povero, costruito senza un piano regolatore o una visione d’insieme, dove abitazioni che potrebbero somigliare ai nostri garage si mescolano a edifici in stile occidentale, moderno e capitalistico, nei quali si insediano grandi centri commerciali, mentre i muri sono tappezzati da grandi cartelloni pubblicitari che mostrano facce di donne attraenti, perfette nel trucco e nell’abbigliamento. Questa è la situazione che ho trovato nelle città visitate. Il popolo curdo sembra attraversato da una vena di protesta, sebbene sommersa, contro il governo di Barzani, accusato di non attuare le promesse elettorali, sottraendo altresì gli introiti provenienti dai pozzi petroliferi senza attuare le riforme necessarie all’economia, di cui il Paese e, soprattutto, le famiglie avrebbero bisogno. I pozzi petroliferi sono l’unica fonte di reddito del Kurdistan iracheno, ma quanto sta accadendo apre a due possibili interpretazioni. La prima è che siano gestiti male. Si tenga presente che ci sono voci di vendita non ufficiale di petrolio alla Turchia, al di fuori dalle regole dello Stato iracheno e dell’Opec. Oppure, vi è davvero una sottrazione illecita dei proventi. Da mesi lo Stato non versa gli stipendi a insegnanti, militari e altre categorie di dipendenti pubblici. Non è una situazione facile, aggravata dal fatto che il ceto che potremmo definire medio non ha molte risorse. L’agricoltura, per quanto mi hanno riferito e ho visto personalmente nei 230 km percorsi, pare inesistente. Se non si ha un impiego, ci si arrangia vendendo frutta per strada (prodotti, tra l’altro, importati) o si chiede l’elemosina. Persino i bambini la chiedono, come ho visto con i miei occhi a Sulaymaniyya. E, naturalmente, anche chi ha una laurea in tasca condivide i medesimi problemi. Per quanto riguarda i paesini dell’entroterra, sembrano il vuoto in mezzo al nulla, dove auto parcheggiate a caso si mescolano a bambini che giocano e a capre che brucano. Il problema più specificamente umanitario riguarda soprattutto le migliaia di profughi siriani o idp (ossia, internal displaced person), scappati da zone conquistate dall’Isis. Con l’attacco per la liberazione della parte orientale di Mosul, altri se ne sono aggiunti. E altri ancora ne arriveranno quando inizierà l’offensiva a ovest del Tigri. Occorre tener presente che Erbil, la capitale curda, è a soli 85 km da Mosul ed è anche il più vicino centro, dotato di ospedali e spazi di accoglienza. Anche il Rojava, la zona curda siriana, accoglie profughi iracheni, ma la maggior parte si dirige spontaneamente verso Erbil».

 

Come sono i rapporti tra le varie etnie e religioni e come si svolge la vita quotidiana?

L. S.: «I rapporti tra i cittadini, per il 95% musulmani e per il restante 5% cristiani o minoranze assire, yazidi, e altre, sembrano pacati. I curdi musulmani non sembrano particolarmente coinvolti dall’aspetto religioso. Moltissimi bevono alcool, specialmente tra i giovani, e si ha l’impressione che le religioni convivano serenamente. Ho conosciuto, nel monastero Saint Lazarus di Jerusalem, a Sulaymaniyya (anche centro di accoglienza per Idp e campo base locale di Un Ponte Per), molti giovani musulmani che fanno volontariato. Naturalmente, hanno il consenso dalle famiglie e, di conseguenza, sembra che la convivenza pacifica sia patrimonio comune. Quello che stride un po’ con quanto raccontato è la voglia di rinnovamento, specialmente dei giovani e di ambo i sessi. Per il resto, la vita quotidiana si svolge in maniera che potremmo definire “normale” - c’è chi lavora, chi studia, chi prende il tè. Ma la corrente elettrica va via spesso e ovunque si sente odore di kerosene».

 

Esiste la libertà di stampa?

L. S.: «La libertà di stampa è limitata, sia in Kurdistan sia, soprattutto, in Iraq. Negli ultimi mesi sono stati uccisi 5 giornalisti in Kurdistan. L’immagine di Mas’ud Barzani, attuale Presidente del Governo regionale curdo, è affissa ovunque - come avviene generalmente nei Paesi arabi. Ma bisogna sottolineare che non interpella il Parlamento da 18 mesi e le persone sembrano avere paura di fare commenti negativi su di lui e chiedono che, per favore, non sia mandata in onda nemmeno la loro voce, se registrata. Verso di noi, comunque, ho sentito un’unanime fiducia delle persone con le quali sono venuta in contatto».

 

Vi è sentore di una pulizia etnica da parte dei curdi nei confronti delle altre etnie, come denunciato da alcuni organi di stampa occidentali?

L. S.: «Io ho visitato Sulaymaniyya ed Erbil, che non sono mai state invase, e in queste città niente fa pensare a pulizie etniche o a dissapori tra professanti religioni diverse. A Erbil c’è il quartiere cristiano, Ankawa, nei cui centri di accoglienza per profughi, gestiti da organizzazioni religiose, se si tende ad accogliere i cristiani per mantenere unita la comunità, certamente non si abbandonano a se stessi i musulmani. Direi che è soprattutto la comunità Yazida a denunciare il mancato appoggio dei militari curdi durante l’invasione dell’Isis e i rapimenti delle donne. Pare che il Governo avesse promesso alla minoranza etnica sicurezza in loco e protezione, e che alcuni reparti fossero nelle vicinanze quando sono avvenuti i fatti, ma che alla resa dei conti, invece di difenderli, si siano ritirati. Naturalmente i comandi partono dall’alto, gli ufficiali eseguono solo gli ordini. Arrivano altresì voci dal Rojava, il Kurdistan siriano, che denunciano come i peshmerga, che hanno liberato dall’Isis alcune zone, caccino dal loro territorio le famiglie arabe rimaste. Ma non ho prove documentali né testimonianze dirette al riguardo».

 

Cosa pensano oggi i curdi dell’intervento Usa contro Saddam Hussein e del periodo precedente all’invasione statunitense?

L. S.: «Dalle interviste fatte agli anziani, ma anche dai commenti estemporanei dei giovani, non mi è parso che gli statunitensi siano molto amati. Con il muslim ban del nuovo Presidente, Donald Trump, sarà anche peggio. Certamente durante le due guerre del Golfo i curdi hanno ricevuto aiuto dai militari Usa, che in qualche maniera scortavano i corridoi umanitari dei curdi in fuga dalle loro case verso le montagne. In seguito, però, non è stato fatto altro. Considerate anche le numerose fosse comuni, ritrovate anche recentemente, di cui è disseminato l’Iraq. Per non parlare della deportazione, la tortura e l’uccisione di migliaia di curdi di tutte le età, specialmente maschi».

 

Esistono contatti stabili tra curdi iracheni e siriani? E quale appare l’obiettivo strategico dei curdi iracheni: uno Stato federale all’interno dell’Iraq o uno unitario con le altre minoranze curde?

L. S.: «I contatti tra curdi iracheni e siriani esistono sicuramente. Nel caso delle donne peshmerga, ad esempio, vi sono perfino donne combattenti provenienti dall’Iran curdo che hanno deciso di impegnarsi in Siria. A combattere in Iraq, oltre agli eserciti regolari iracheno e curdo, e al supporto logistico internazionale, si possono contare almeno 15 gruppi di milizie diverse, formatesi indipendentemente per combattere con o contro l’Isis, persino di religione cristiana. I contatti trasversali sono una realtà. L’obiettivo primario dei curdi iracheni, almeno fino a qualche anno fa, era uno Stato curdo autonomo che riunisse anche il popolo dislocato, e perseguitato, delle altre tre nazioni - Siria, Turchia e Iran. Naturalmente è un percorso non facile, contrastato dai governi centrali, che usano le persecuzioni per demotivare l’aspirazione all’autonomia locale - come avvenuto nel Kurdistan iracheno. Il Presidente Erdoğan, in Turchia, usa l’equazione PKK uguale terrorismo; l’Iran sembra addirittura sperare nella distruzione del monumento di Farhad e Shirin, sui monti Zagros, emblema del popolo curdo. In Siria lo Stato, prima della guerra, era più rigido con le minoranze, curdi compresi. Con l’autonomia del Kurdistan iracheno, al momento, la situazione si è complicata. I due partiti esistenti, l’UPK e il PDK, non vanno più d’accordo e il percorso è diventato ancora più ostico. Il governo Barzani fa accordi, apparentemente solo economici, con Erdoğan, nonostante le sue posizioni nei confronti dei curdi turchi. Che dire? Al momento le priorità sembrano la lotta contro l’Isis, e il miglioramento dell’economia - pena la rivolta del popolo contro coloro che capeggiarono quella contro Saddam Hussein».

Simona Maria Frigerio – Agenzia Stampa Italia

 

Foto di Laura Sestini

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